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 GIACOMO LEOPARDI

La vita

Giacomo Leopardi nacque il 29 giugno 1798 a Recanati, primogenito del conte Monaldo e di Adelaide Antici. Il padre era un uomo colto, che nel suo palazzo aveva messo insieme una notevole biblioteca. I suoi orientamenti politici erano fortemente reazionari. Le idee e gli orientamenti di Giacomo in un primo tempo furono influenzati da questo ambiente bigotto. La vita familiare era dominata soprattutto dalla madre, ed era caratterizzata da un'atmosfera autoritaria, arcigna, priva di confidenza e di affetto. Giacomo fu inizialmente istruito da precettori ecclesiastici, ma intorno ai dieci anni non ebbe più nulla da imparare da essi, e continuò i suoi studi da solo, chiudendosi nella biblioteca paterna, per quei «sette anni di studio matto e disperatissimo», che contribuirono a minare il suo fisico già fragile. Tra il 1815 e il 1816 si attua la sua conversione «dall'erudizione al bello»: abbandona le aride minuzie filologiche, e si entusiasma per i grandi poeti; tramite la lettura della de Staël viene a contatto con la cultura romantica. Un momento fondamentale della sua formazione intellettuale e della sua esperienza vissuta fu l'amicizia con Pietro Giordani, di orientamento classicistico, ma di idee democratiche e laiche. Questa apertura verso il mondo esterno gli rese ancor più dolorosamente insostenibile l'atmosfera chiusa e stagnante di Recanati e del palazzo paterno, e suscitò in lui il bisogno di uscire da quella specie di carcere. Nell'estate del 1819 tentò la fuga dalla casa paterna, ma il tentativo fu scoperto e sventato. Lo stato d'animo conseguente a questo fallimento, acuito da un'infermità agli occhi che gli impediva anche la lettura, unico conforto alla solitudine e alla «nera, orrenda e barbara malinconia», lo portarono a uno stato di totale prostrazione e aridità. Raggiunse così la percezione lucidissima della nullità di tutte le cose. Questa crisi del 1819 segna un altro passaggio, «dal bello al vero», dalla poesia d'immaginazione alla filosofia e ad una poesia nutrita di pensiero. Il 1819 è anche un anno di intense sperimentazioni letterarie. Con l'Infinito comincia la stagione più originale della sua poesia. Si infittiscono anche le note dello Zibaldone, una sorta di diario intellettuale avviato due anni prima, a cui Leopardi affida appunti, riflessioni filosofiche, letterarie, linguistiche. Nel 1882 ha finalmente la possibilità di uscire da Recanati e di vedere il mondo esterno a quella «tomba de' vivi»: si reca infatti a Roma, ospite dello zio Carlo Antici. Ma l'uscita tanto desiderata si risolve in una cocente disillusione. Gli ambienti letterari di Roma gli appaiono vuoti e meschini. Tornato a Recanati nel '23, si dedica alla composizione della Operette morali, a cui affida l'espressione del suo pensiero pessimistico. È cominciato un periodo di aridità interiore, che gli preclude di scrivere versi; perciò si dedica alla prosa, all'investigazione dell'«acerbo vero». Nel '25 gli si offre l'occasione di lasciare la famiglia e di mantenersi con il proprio lavoro intellettuale: un editore milanese, lo Stella, gli offre un assegno fisso per una serie di collaborazioni, un'edizione di Cicerone, un commento al Petrarca, un'antologia della poesia e una della prosa. Soggiorna così a Milano e a Bologna; nel '27 passa a Firenze. Trascorre l'inverno '27/'28 a Pisa: qui la dolcezza del clima e una relativa tregua dei suoi mali favoriscono un «risorgimento» della sua facoltà di sentire e immaginare. Nella primavera del '28 nasce A Silvia, che apre la serie dei “Grandi idilli”. Le necessità economiche però lo incalzano. Nell'autunno del 1828, aggravatesi le condizioni di salute, è costretto a tornare in famiglia, a Recanati. Vive isolato nel palazzo paterno, immerso nella sua tetra malinconia. Nell'aprile del '30 si risolve ad accettare una generosa offerta degli amici fiorentini: un assegno mensile per un anno. Lascia così Recanati, per non farvi più ritorno. A Firenze stringe una fraterna amicizia con un giovane esule napoletano, Antonio Ranieri, e con lui fa vita comune fino alla morte. Dal '33 si stabilisce a Napoli col Ranieri. A Napoli lo coglie la morte, il 14 giugno 1837.

Il Pensiero

Tutta l'opera leopardiana si fonda su un sistema di idee continuamente meditate e sviluppate, il cui processo, prima dell'approdo ai testi compiuti, si può seguire attraverso le migliaia pagine dello Zibaldone. La ricostruzione almeno sommaria di questo sistema nella sua evoluzione nel tempo è quindi una premessa indispensabile alla lettura della poesia e della prosa leopardiane. Al centro della meditazione di Leopardi si pone subito un motivo pessimistico, l'infelicità dell'uomo. Egli arriva ad identificare la causa prima di questa infelicità in alcune pagine fondamentali dello Zibaldone del luglio 1820; restando fedele ad un indirizzo di pensiero settecentesco e sensistico, egli identifica la felicità con il piacere, sensibile e materiale. Ma l'uomo non desidera un piacere, ma il piacere: aspira cioè a un piacere che sia infinito, per estensione e per durata. Pertanto, siccome nessuno dei piaceri particolari goduti dall'uomo può soddisfare questa esigenza, nasce in lui un senso di insoddisfazione perpetua, un vuoto incolmabile dell'anima. Da questa tensione inappagata verso un piacere infinito che sempre gli sfugge nasce per Leopardi l'infelicità dell'uomo, il senso della nullità di tutte le cose. Ma la natura, che in questa prima fase è concepita come madre benigna e provvidenzialmente attenta al bene delle sue creature, ha voluto sin dalle origini offrire un rimedio all'uomo: l'immaginazione e le illusioni, grazie alle quali ha velato agli occhi della misera creatura le sue effettive condizioni. Per questo i primitivi, e gli antichi Greci e Romani, capaci di illudersi e di immaginare, erano felici. Il progresso della civiltà ha messo sotto i suoi occhi il vero e lo ha reso infelice. La prima fase del pensiero leopardiano è tutta costruita su questa antitesi tra natura e ragione, tra antichi e moderni. Nei confronti della civiltà del suo tempo Leopardi assume un atteggiamento titanico: il poeta, come unico depositario della virtù antica, si erge solitario a sfidare il fato maligno che ha condannato l'Italia a tanta abiezione, e sferza violentemente la sua «codarda età». Questa fase del pensiero leopardiano è stata designata con la formula del pessimismo storico: nel senso che la condizione negativa del presente viene vista come effetto di un processo storico, di una decadenza e di un allontanamento progressivo da una condizione originaria di felicità e pienezza vitale. Questa concezione di una natura benigna e provvidenziale entra però in crisi. Leopardi si rende conto che, più che al bene dei singoli individui, la natura mira alla conservazione della specie, e per questo può anche sacrificare il bene del singolo e generare sofferenza. Ne deduce che il male rientra nel piano stesso della natura. Si rende conto inoltre che è la natura che ha messo nell'uomo quel desiderio di felicità infinita, senza dargli i mezzi per soddisfarlo. In una fase intermedia, Leopardi cerca di uscire da queste contraddizioni attribuendo la responsabilità del male al fato; propone quindi una concezione dualistica, Natura benigna contro Fato maligno. Ma ben presto arriva alla soluzione delle contraddizioni rovesciando la sua concezione della natura. Questo punto d'approdo emerge nel Dialogo della Natura e di un Islandese, del maggio 1824; ma questo sbocco è in realtà preceduto da un lungo travaglio, testimoniato dallo Zibaldone. Leopardi concepisce la natura non più come madre amorosa e provvidente, ma come meccanismo cieco, indifferente alla sorte delle sue creature. Non è più una concezione finalistica, ma meccanicistica e materialistica. La colpa dell'infelicità non è più dell'uomo stesso, ma solo della natura. L'uomo non è che vittima innocente della sua crudeltà. Viene superato così il dualismo Natura-Fato: alla natura vengono attribuite le caratteristiche che prima erano del fato. Coerentemente con 'approdo materialistico, muta anche il senso dell'infelicità umana: prima era concepita come assenza di piacere; ora l'infelicità, materialisticamente, è dovuta soprattutto ai mali esterni, a cui nessuno può sfuggire: malattie, elementi atmosferici, cataclismi, vecchiaia, morte. Se causa dell'infelicità è la natura stessa, tutti gli uomini sono necessariamente infelici. Al pessimismo storico della prima fase subentra così un pessimismo cosmico: nel senso che l'infelicità non è più legata ad una condizione storica e relativa dell'uomo, ma ad una condizione assoluta, e diviene un dato eterno e immutabile di natura. È la concezione che informerà tutta l'opera di Leopardi successiva al 1824. Ne deriva, in un primo momento, l'abbandono della poesia civile e del titanismo: se l'infelicità è un dato di natura, vane sono la protesta e la lotta, e non resta che la contemplazione lucida e disperata della realtà. Subentra infatti in Leopardi un atteggiamento contemplativo, ironico, distaccato e rassegnato. Suo ideale non è più l'eroe antico, teso a generose imprese, ma il saggio antico, la cui caratteristica è l'atarassia, il distacco imperturbabile della vita. È l'atteggiamento che caratterizza le Operette morali.

La poetica del vago e indefinito

Se nella realtà il piacere infinito è irraggiungibile, l'uomo può figurarsi piaceri infiniti mediante l'immaginazione. La realtà immaginata costituisce la compensazione, l'alternativa a una realtà vissuta che non è che infelicità e noia. Ciò che stimola l'immaginazione a costruire questa realtà parallela è tutto ciò che è vago, indefinito, lontano, ignoto. Nelle pagine dello Zibaldone Leopardi passa minuziosamente in rassegna tutti gli aspetti della realtà sensibile che, per il loro carattere indefinito, possiedono questa forza suggestiva. Si viene a costruire una vera e propria teoria della visione: è piacevole, per le idee vaghe e indefinite che suscita, la vista impedita da un ostacolo, una siepe, un albero, una torre, una finestra, «perché allora in luogo della vista, lavora l'immaginazione e il fantastico sottentra al reale». Contemporaneamente, viene a costruirsi anche una teoria del suono: Leopardi elenca tutta una serie di suoni suggestivi perché vaghi: un canto che vada a poco a poco allontanandosi, un canto che giunga all'esterno dal chiuso di una stanza, il muggito degli armenti che echeggi per le valli, lo stormire del vento tra le fronde. Secondo Leopardi, anche per quanto riguarda l'arte, quale la pittura, la musica, o la poesia, il bello consiste nel vago  e nell'indefinito. Queste immagini sono suggestive perché evocano sensazioni che ci hanno affascinati da bambini. La poetica dell'indefinito  e la poetica della rimembranza si fondono: la poesia non è che il recupero della visione immaginosa della fanciullezza attraverso la memoria. Leopardi osserva che maestri della poesia indefinita e vaga erano gli antichi; i moderni, per Leopardi, hanno perduto la capacità immaginosa e fanciullesca propria degli antichi.

Leopardi e il Romanticismo

La formazione di Leopardi era stata rigorosamente classicistica, ed era stata consolidata dall'amicizia con un esponente qualificato del classicismo come Giordani. Perciò, nella polemica tra classicisti e romantici, egli doveva inevitabilmente prendere posizione contro le tesi romantiche. Per lui, la poesia è soprattutto espressione di una spontaneità originaria, di un mondo interiore immaginoso e fantastico, proprio dei primitivi e dei fanciulli. Per questo consente con i romantici italiani nella loro critica al classicismo accademico e pedantesco; però rimprovera agli scrittori romantici un'artificiosa retorica simmetrica e contraria a quella dei classicisti, nella ricerca dello strano, dell'orrido, del truculento; rimprovera loro anche il predominio della logica sulla fantasia, l'aderenza al «vero» che spegne ogni immaginazione. Al contrario, proprio i classici antichi sono per lui un esempio mirabile di poesia fresca, spontanea, immaginosa. Leopardi ripropone dunque i classici come modelli, ma con uno spirito romantico. Si può parlare perciò di un classicismo romantico. Tra le varie forme poetiche, Leopardi privilegia la lirica, intesa come espressione immediata dell'io e della soggettività e dei sentimenti, come canto: in questo Leopardi si contrappone alla scuola romantica lombarda, che tende invece a una letteratura oggettiva, realistica, fondata sul vero, animata da intenti civili, morali, pedagogici, intesa all'utilità sociale, e che quindi predilige le forme narrative e drammatiche. È separato, quindi, dalla cultura romantica dal suo retroterra filosofico, che è illuministico, sensistico e materialistico; però è vicino al Romanticismo per la tensione verso l'infinito, l'esaltazione dell'io e della soggettività, il titanismo, l'enfasi posta sul sentimento, il conflitto illusione-realtà, l'amore per il vago e indefinito, il culto della fanciullezza e del primitivo, il senso tormentato del dolore cosmico.

Il primo Leopardi: le Canzoni e gli Idilli

Il periodo successivo alla conversione «dall'erudizione al bello» del 1816, sino alla grande crisi del 1819, è ricco di esperimenti letterari. Di questo vario fermento di prove, si concretano due soli gruppi di poesie veramente mature: le Canzoni e gli Idilli. Le Canzoni furono composte tra il 1818 e il 1823, e pubblicate in un opuscolo a Bologna nel 1824. Si tratta di componimenti di impianto classicistico, che impiegano il linguaggio aulico, sublime e denso della tradizione, con sensibili influenze soprattutto di Alfieri e Foscolo. Le prime cinque, composte tra il '18 e il '21, sono canzoni civili. La base del pensiero è costituita dal “pessimismo storico” che caratterizza la visione leopardiana in questo momento. Sono animate da acri spunti polemici contro l'età presente, inerte e corrotta, incapace di azioni eroiche; a questa polemica si contrappone un'esaltazione delle età antiche, generose e magnanime. La più significativa è Ad Angelo Mai: oltre alla polemica contro l'Italia presente e alla nostalgia dell'antichità, vi compare il motivo del «caro immaginar» e dei «leggiadri sogni», che sono dissolti dalla conoscenza razionale del «vero», che accresce solo il senso del nulla e la noia. Invece, nel Bruto minore e nell'Ultimo canto di Saffo, Leopardi non parla in prima persona, ma delega il discorso poetico a due personaggi dell'antichità, entrambi suicidi, Bruto, l'uccisore di Cesare, e la poetessa greca Saffo. Il pessimismo storico giunge a una svolta: si delinea l'idea di un'umanità infelice non solo per ragioni storiche, ma per una condizione assoluta. Un carattere molto diverso presentano gli Idilli, sia nelle tematiche, intime e autobiografiche, sia nel linguaggio, più colloquiale e di limpida semplicità. Questi idilli, composti tra il '19 ed il '21, non hanno più nulla a che fare con la tradizione bucolica classica, che rappresentava una campagna stilizzata e figure idealizzate di pastori; non hanno neppure a che fare con la concezione moderna di idillio, quell'idillio “borghese” che si era affermato nel Settecento nelle letterature nordiche, e che amava rappresentare scene della vita quotidiana di personaggi di mediocre condizione, segnate da una tranquilla serenità. Negli idilli, dunque, la rappresentazione della realtà esterna, delle scene di natura serena, è tutta in funzione soggettiva: ciò che a Leopardi preme di rappresentare sono momenti essenziali della sua vita interiore. Esemplare è l'Infinito, in cui compare una situazione che può ricordare l'idillio classico (la siepe che definisce uno spazio limitato, lo stormire del vento tra le foglie); ma non è lo scenario di una semplice quiete contemplativa e rasserenante, bensì lo spunto per una vertiginosa meditazione lirica sull'idea di infinito creato dall'immaginazione, a partire da sensazioni visive e uditive. Alla luna affronta invece il tema complementare della ricordanza.

Le Operette morali

Chiusa la stagione delle canzoni e degli idilli, comincia per Leopardi un silenzio poetico che durerà fino alla primavera del '28. Egli stesso lamenta la fine delle illusioni giovanili, lo sprofondare in uno stato d'animo di aridità e di gelo, che gli impedisce ogni moto dell'immaginazione e del sentimento. Per questo intende dedicarsi soltanto all'investigazione dell'«arido vero». Da questa disposizione nascono le Operette morali, quasi tutte composte nel 1824, di ritorno da Roma, dopo la delusione subita nel suo primo contatto con la realtà esterna alla «prigione» di Recanati. Le Operette morali sono prose di argomento filosofico. Leopardi vi espone il “sistema” da lui elaborato, attingendo al vasto materiale accumulato nello Zibaldone. Ma non lo espone in forma sistematica, bensì attraverso una serie di invenzioni fantastiche, miti, allegorie, paradossi, apologhi, veri e propri canti lirici in prosa. Molte delle operette sono dialoghi, i cui interlocutori sono creature immaginose, personificazioni, personaggi mitici o favolosi; in altri casi si tratta di personaggi storici, oppure di personaggi storici mescolati con esseri bizzarri o fantastici. In alcune operette l'interlocutore principale è proiezione dell'autore stesso. Anche le invenzioni più aeree si concentrano intorno ai temi fondamentali del pessimismo: l'infelicità inevitabile dell'uomo, l'impossibilità del piacere, la noia, il dolore, i mali materiali che affliggono l'umanità.

I grandi idilli

Il 2 maggio 1828 Leopardi scrive alla sorella Paolina da Pisa: «Ho fatto dei versi quest'aprile, ma versi veramente all'antica, e con quel mio cuore d'una volta». Il lungo periodo di silenzio poetico si è concluso. Il poeta assiste a un «risorgimento» delle sue facoltà di sentire, commuoversi e immaginare. Tornato a Recanati alla fine di quell'anno, non vede interrompersi il felice momento creativo nemmeno nei sedici mesi di «notte orribile» trascorsi nella casa paterna. Questi componimenti riprendono temi, atteggiamenti, linguaggio degli “idilli” del '19-'21: le illusioni e le speranze, proprie della giovinezza, le rimembranze, quadri di vita borghigiana e di natura serena e primaverile, la suggestione di immagini e suoni vaghi e indefiniti, il linguaggio limpido e musicale, lontano dall'aulicità ardita del linguaggio delle canzoni. Questi componimenti non sono la semplice ripresa della poesia di dieci anni prima, nel mezzo si collocano esperienze decisive, la fine delle illusioni giovanili, l'acquisita consapevolezza del «vero», la costruzione di un sistema filosofico fondato su di un pessimismo assoluto. La caratteristica che individua i grandi idilli è un miracoloso equilibrio che si instaura tra due spinte che dovrebbero essere contrastanti, il «caro immaginar» e il «vero».

L'ultimo Leopardi

L'ultima stagione leopardiana, che si colloca dopo il '30 e dopo l'allontanamento definitivo da Recanati, segna una svolta di grande rilevo rispetto alla poesia precedente. Leopardi appare più orgoglioso di sé, della propria grandezza spirituale, più pronto e combattivo nel diffondere le sue idee, nel contrapporle polemicamente alle tendenze dominanti dell'epoca. L'apertura si verifica anche sul piano umano, interpersonale. Si tratta di una poesia profondamente nuova, lontanissima da quella idillica: il discorso non si basa più sulle immagini vaghe e indefinite, né vi è più il linguaggio limpido e musicale che a quelle immagini si intonava; si ha una poesia nuda, severa, quasi priva di immagini sensibili; vi compaiono atteggiamenti energici, combattivi, eroici; il linguaggio si fa aspro, antimusicale, la sintassi complessa e spezzata. Alla base di una simile poesia si può individuare una vera e propria «nuova poetica», diversa da quella del vago e indefinito, ancora seguita nella stagione dei grandi idilli. La critica leopardiana si indirizza contro tutte le ideologie ottimistiche che esaltano il progresso e profetizzano un miglioramento indefinito della vita degli uomini, grazie alle nuove scienze sociali ed economiche e alle scoperte della tecnologia moderna; bersaglio polemico sono inoltre le tendenze di tipo spiritualistico e neocattolico che si vanno sempre più affermando nel periodo della Restaurazione. A queste ideologie Leopardi contrappone le proprie concezioni pessimistiche che escludono ogni miglioramento della condizione umana. Questa polemica è condotta attraverso varie opere. La Palinodia al marchese Gino Capponi è una sorta di satira di sapore pariniano nei confronti di una società moderna e della sua fede nelle conquiste del progresso sociale e tecnologico, che ha la forma di un'ironica ritrattazione (palinodia significa appunto “ritrattazione”). Una svolta essenziale si presenta con la Ginestra, il testamento spirituale di Leopardi, la lirica che idealmente chiude il suo percorso poetico. Il componimento ripropone la dura polemica antiottimistica e antireligiosa. Però qui Leopardi non nega la possibilità di un progresso civile: cerca anzi di costruire un'idea di progresso proprio sul suo pessimismo. La consapevolezza lucida della reale condizione umana, indicando la natura come la vera nemica, può indurre gli uomini a unirsi in «social catena» per combattere la sua minaccia. La filosofia di Leopardi si apre a una generosa utopia, basata sulla solidarietà fraterna degli uomini, che nasce a sua volta dalla diffusione del «vero». La Ginestra, sul piano letterario, è anche la massima realizzazione di quella «nuova poetica» antiidillica già sperimentata a partire dal '30.