Di
Luca Billeter, dr
Generalità
Il sistema immunitario è una delle cose più complesse e
ancora sconosciute del nostro organismo. Così complesso che si cercherà di
esemplificarlo sotto forma di schema. Ecco i protagonisti:
·
I globuli bianchi;
·
Le interleuchine
·
Batteri e cellule infettanti
·
Antigeni, tossine e virus
·
Gli anticorpi
·
Le proteine del Complemento
·
L'interferon
I globuli bianchi sono le cellule che hanno propriamente
il compito di difendere l’organismo dalle infezioni. Si dividono in tre
categorie:
1. I monociti, che al momento dell’infezione
diventano macrofagi;
2. I granulociti, a loro volta divisi in
neutrofili, acidofili e basofili;
3. I linfociti, a loro volta divisi in
linfociti T e B.
Le loro caratteristiche comuni sono quelle d’avere
capacità fagocitatoria e di poter attraversare le pareti dei capillari
sanguigni per andare nel focolaio dell’infezione nel tessuto connettivo.
Le interleuchine sono delle sostanze usate per richiamare alcuni tipi di
linfociti T o per attivare la riproduzione dei linfociti T e B.
Gli antigeni sono delle molecole estranee all'interno
del corpo. Gli antigeni tossici prodotti dai batteri sono chiamati tossine.
Gli anticorpi sono delle proteine specifiche per ogni antigene che, con
l'aiuto di una serie di proteine disciolte nel plasma, contribuisce alla
reazione immunitaria. Sono composte di quattro catene di proteine, due pesanti
e due leggere, in ognuna delle quali vi è una parte costante e una parte
variabile secondo l’antigene.
Ogni cellula del nostro corpo ha sulla sua superficie
una proteina chiamata MHC (complesso maggiore d’istocompatibilità), differente
da organismo ad organismo. Essa è, in pratica, un sistema di controllo per
distinguere le proprie cellule (self) dalle cellule estranee (not-self). Se vi
è una modifica nel materiale genetico di una cellula (a seguito di un'infezione
virale o nel caso di una cellula tumorale) l'MHC prodotto non sarà quello
originale ma avrà dei difetti; questa cellula, pertanto, è classificata come
"agente estraneo" dal sistema immunitario ed è distrutto.
Vediamo in dettaglio cosa succede durante un'infezione.
Fase 1: l'infezione
All'inizio dei batteri entrano nell'organismo producendo
delle tossine. I monociti nel circolo sanguigno sono "attivati" da
queste sostanze e, passando attraverso la parete dei capillari, divengono
macrofagi e giungono al focolaio dell'infezione. Anche i granulociti si
avvicinano al focolaio.
Fase 2: la difesa aspecifica
Entrano ora in azione le proteine del complemento,
attivate da una proteina detta properdina rilasciata dai tessuti nel caso di
infezione. Le proteine del complemento si attaccano alla membrana cellulare del
batterio perforandola in più punti. La cellula così debilitata può essere
facilmente fagocitata dai macrofagi e dai neutrofili. Contemporaneamente le
proteine del complemento agiscono sulle mastcellule del tessuto connettivo e
sui globuli bianchi basofili, che producono istamina. Questa sostanza provoca
l'infiammazione del tessuto: i capillari sono costretti, in modo tale che il
plasma possa attraversare le pareti del capillare e gonfiare il luogo
dell'infezione e che un maggior numero di globuli bianchi possa accorrere a
dare rinforzo. Tutta questa fase è detta aspecifica: sia le proteine sia i
globuli bianchi agiscono su qualsiasi tipo di batterio gli capiti a tiro. Di
solito, non ci accorgiamo nemmeno di essere entrati in questa fase.
Fase 3: l'inizio della fase specifica
Se l'infezione riesce a superare la barriera dei
macrofagi e dei neutrofili, interviene la potente schiera dei linfociti, i
fautori della difesa specifica, in altre parole della difesa mirata alla
distruzione del particolare antigene penetrato all'interno del corpo. Ci sono
due tipi di difesa specifica:
·
l'immunità cellulare;
·
l'immunità umorale.
La prima consiste nell'uccidere direttamente le cellule
estranee. La seconda, invece, consiste nel produrre proteine (anticorpi) che
indeboliscano le cellule estranee e che distruggano gli antigeni e le tossine.
Vediamo ora i vari tipi di linfociti.
·
I linfociti B sono i responsabili dell'immunità umorale.
Hanno sulla loro superficie alcuni anticorpi generici, non specifici per
l'antigene presente nell'organismo al momento dell'infezione. Quando vengono a
contatto con l'antigene, ricombinano i loro anticorpi fino a trovare quello
"adatto" per l'antigene. Dopo di ché, cominciano a replicarsi. Molti
di questi linfociti diventano plasmacellule, in altre parole cellule incaricate
di riprodurre anticorpi specifici per l'antigene con il quale sono venuti a
contatto. Altri, i cosiddetti linfociti di memoria, restano nel circolo anche
dopo l'infezione conservando un piccolo numero di anticorpi specifici per
quell'antigene cosicché, se si viene da nuovo a contatto con quello, possano
avviare una risposta più rapida e massiccia (immunità acquisita). È per questo
che, ad esempio, il morbillo lo prendiamo una volta sola.
I linfociti T si dividono in tre gruppi:
·
I linfociti T citotossici sono i responsabili
dell'immunità cellulare. Utilizzando il riconoscimento della proteina MHC I
riconoscono se una cellula sia self o not-self. In quest'ultimo caso, ne bucano
la membrana cellulare con una proteina detta perforina, causandone la lisi
(rottura) e quindi la morte.
·
I linfociti T helper sono importantissimi, poiché
"richiamano" e attivano gli altri tipi di linfociti. Viaggiano a
stretto contatto con i macrofagi. Dopo che un macrofago ha fagocitato e
"digerito" una cellula estranea, espone nella sua proteina MHC II
un "pezzo" del batterio. In questo modo, e attraverso la produzione
di una proteina detta interleuchina 1, attira il linfocita T helper e gli
"passa" l'informazione su che tipo di cellula estranea si penetrata
nell'organismo. Il linfocita T helper produce allora due sostanze,
l'interleuchina 2 e l'interleuchina 4, che stimolano la riproduzione
rispettivamente dei linfociti T citotossici e dei linfociti B.
·
Si sa poco dei linfociti T soppressori. Probabilmente
inibiscono l'azione degli altri globuli bianchi una volta che l'infezione sia
stata debellata.
Esiste anche un terzo tipo di linfociti, i linfociti
natural killer (NK), che hanno funzione analoga ai linfociti T citotossici, ma
non utilizzano il riconoscimento dell'MHC.
Il ruolo "attivo" della difesa specifica è quindi
svolto dai linfociti T citotossici, dai linfociti NK e dagli anticorpi. Vediamo
in dettaglio come funzionano questi ultimi.
Il sistema
immunitario è molto complesso ed ha la funzione di proteggere l'organismo
dall’aggressione degli agenti patogeni. Esso è presente in tutti i vertebrati,
e nessun individuo con il sistema immunitario gravemente compromesso può
sopravvivere, anche se sottoposto alla più moderna terapia antibiotica. Il sistema immunitario è capace di
rispondere a tutte le sostanze estranee all'organismo, chiamate genericamente
antigeni, e riesce a riconoscere in modo altamente specifico milioni d’antigeni
diversi anche solo per minime variazioni della loro composizione. Per svolgere queste funzioni, il sistema
immunitario è ogni momento in grado di riconoscere ciò che è proprio
dell'organismo da ciò che è estraneo, impedendo che avvenga una risposta contro
gli organi propri dell'organismo stesso. Quando questa capacità è persa,
possono derivarne le cosiddette malattie autoimmunitarie, in cui il sistema
immunitario reagisce contro i propri organi, come se fossero una cosa
estranea.
Esistono nel sangue
cinque tipi d’anticorpi o immunoglobuline che indicheremo con la sigla Ig: A, I
G, M, E, D, differenti fra di loro per struttura e composizione chimica.
In un soggetto
immune, che ha già avuto il contatto con quell’antigene, intervengono solo e
soltanto i linfociti B che durante la precedente risposta immunitaria erano
rimasti nell’organismo (i cosiddetti linfociti B memoria). Essi proliferano
velocemente, si trasformano in plasmacellule in poco tempo e producono grandi
quantità d’anticorpi specifici contro l’antigene che portano alla sua rapida
eliminazione. Questo spiega perché,
normalmente, non si contraggono più di una volta certe malattie infettive, tipo
il morbillo o la parotite. Gli anticorpi e i linfociti B sono in grado di
impedire la replicazione del virus ogni volta che esso entra nel corpo. In un soggetto non immune, invece occorre
all’incirca una settimana prima che il sistema immunitario riesca ad
organizzare un’efficiente risposta primaria. Non vi siete mai chiesti perché
quasi tutte le malattie infettive dei bambini durano circa sette-dieci giorni?
Appunto perché questo è il tempo medio richiesto ad un soggetto non immunizzato
per montare un’adeguata risposta immunitaria.
DIAGNOSI
DI INFEZIONE DA HIV E VALUTAZIONE GENERALE DEL PAZIENTE
1.
L’HIV è presente in vari fluidi biologici nel soggetto infetto, potendo essere
isolato in coltura in vitro dal sangue ma anche dalla saliva, dal liquido
cefalorachidiano, dalle urine, dal liquido seminale maschile, dalle secrezioni
cervicali femminili e dal latte materno. Tuttavia, ai fini pratici, la
trasmissione dell’infezione (fatta eccezione per alcuni tipi particolari di
esposizione professionali di cui si farà menzione più avanti) può avvenire solo
quando uno dei seguenti liquidi:
• sangue;
• liquido seminale;
• secrezioni genitali;
• latte materno;
viene a contatto con cellule (principalmente linfociti, ma anche monociti e
macrofagi) dotate di recettori specifici (di cui il principale è il CD4+) del
soggetto suscettibile.
L’evoluzione
patogenetica successiva al contatto virus-ospite (instaurarsi dell’infezione o
semplice contaminazione non seguita da infezione) dipende da variabili proprie
sia del virus sia dell’ospite suscettibile.
Da
un lato, infatti, la probabilità che si instauri l’infezione è direttamente
proporzionale alla carica infettante (numero di particelle virali infettanti)
ed alla virulenza del ceppo virale in causa, essendo stata dimostrata ad
esempio una differente efficienza di infezione per via sessuale di alcuni
particolari tipi virali.
D’altro canto, è oggi riconosciuto che esistono soggetti che, pur esposti al rischio di contagio e venuti a contatto con il virus, come dimostrato dalla analisi della reattività specifica cellulo-mediata, non si infettano.
È
da sottolineare, per l’importanza delle implicazioni cliniche, che l’infezione
di cellule che possono ospitare il virus per settimane o mesi rende ragione
della insensibilità anche ai più potenti farmaci oggi disponibili e giustifica
l’inefficacia di tali terapie ad eradicare completamente il virus
dall’organismo.
Sotto
il profilo clinico, l’infezione da parte di HIV può rendersi evidente in forma
di sindrome similmononucleosica (sindrome da sieroconversione) che si manifesta
in una proporzione di soggetti molto maggiore di quanto inizialmente
riconosciuto (oltre il 50%), poiché si tratta di un quadro clinico
sostanzialmente banale che solo raramente induce il paziente o il suo Medico
curante a richiedere ulteriori accertamenti o un ricovero ospedaliero.
Essa
rappresenta la manifestazione clinica della risposta immunitaria dell’organismo
e della comparsa degli anticorpi specifici anti-HIV e segue l’infezione di
circa 3-6 settimane in media, con un’ampia variabilità individuale.
Segni
e sintomi, aspetti laboratoristici peculiari:
ü
faringite
73%
ü
linfopenia
70%
ü
esantema
morbilliforme artromialgie 58%
ü
febbre
57%
ü
diarrea
33%
ü
cefalea
30%
ü
nausea/vomito
20%
ü
candidosi
oro-faringea 10%
Sotto
il profilo laboratoristico, si osservano una importante linfopenia e la positività dei test sierologici per
HIV.
I
sintomi della sindrome similmononucleosica si risolvono spontaneamente in 2-3
settimane, lasciando il campo al lungo periodo asintomatico della fase di
incubazione.
Quando
il contatto virus-ospite esita in infezione, il virus entra in una fase di
attiva replicazione, che avviene sia in circolo sia, soprattutto, a livello dei
distretti linfonodali, il cui coinvolgimento è estremamente precoce e diffuso.
Con il passar del tempo si verifica da un lato l’esaurimento del sistema
immunitario (che diviene incapace di produrre linfociti alla stessa velocità
con cui sono distrutti).
A
questa replicazione del virus si oppone fortemente, nelle fasi iniziali, il
sistema immunitario del soggetto infettato, che abbassa i valori di viremia a
livelli che si stabilizzano verso il 6° mese dopo l’avvenuta infezione e che
persisteranno per lunghi anni.
Sebbene
le cellule linfocitarie CD4+ circolanti nel sangue periferico rappresentino
soltanto il 2% del pool totale dei linfociti CD4+, la conta di tali elementi
rappresenta uno specchio fedele della progressiva deplezione linfocitaria che
viene a crearsi a livello linfonodale, con il quale si arriva a una situazione
di equilibrio dinamico.
In assenza di trattamento, si assiste dunque ad un progressivo deficit della competenza immunitaria del soggetto che lo rende a lungo andare sensibile all’azione patogena di agenti infettivi, normalmente dotati di scarsa o nulla aggressività per il soggetto provvisto di normale competenza immunologica (infezioni opportuniste). Analogamente, ad ulteriore riprova sia della natura oncogena di alcune infezioni virali sia dell’importanza del controllo immunitario della proliferazione neoplastica, la progressiva perdita di competenza immunitaria consente l’emergenza di una gamma di neoplasie (neoplasie opportuniste). Sotto il profilo clinico, il paziente HIV infetto non presenta alcun sintomo per un lungo periodo di tempo (da 2 a 10 anni), durante il quale la conta linfocitaria assoluta CD4+ circolante si mantiene solitamente superiore a 500 cellule/ml. Con il progressivo decremento linfocitario (valore assoluto di CD4+ compreso tra 200 e 500 cellule/ml), non è rara la comparsa di manifestazioni patologiche (opportunismi "minori") che, pur nella loro sostanziale benignità, sono tuttavia indicative di una discreta compromissione immunitaria e assumono un importante valore prognostico nel senso di una prossima evoluzione clinica della infezione:
• candidosi oro-faringea;
• Herpes zoster (zona);
• dermatite seborroica;
• leucoplachia orale villosa.
A
parte gli opportunismi definiti "minori", è peraltro da ricordare che
alcune patologie opportuniste "maggiori", ossia indicative di
Sindrome di Immunodeficienza Acquisita possono comparire precocemente nel corso
della storia naturale della infezione. Tra queste, anche per la loro importanza
epidemiologica e clinica, si segnalano il linfoma a cellule B, il sarcoma di
Kaposi e l’infezione tubercolare.
Sotto
il profilo laboratoristico il periodo asintomatico è caratterizzato, in assenza
di trattamento, da progressiva linfopenia con possibile neutropenia, anemia e/o
piastrinopenia da esaurimento midollare.
2.
Quando sospettare l’infezione? A chi raccomandare il test?
I
segni clinici precoci che possono indurre il medico curante a diagnosticare
precocemente uno stato di infezione da HIV corrispondono evidentemente a quelli
relativi alle patologie di più precoce comparsa, prima ricordati
linfoadenopatia generalizzata. Può essere un segno precoce anche se aspecifico,
specie nel soggetto tossicodipendente, e riflette l’intensa attività
replicativa a livello linfonodale. I linfonodi principalmente interessati sono
quelli ascellari, laterocervicali e inguinali che alla palpazione appaiono
aumentati di volume, non dolenti e di consistenza duro-elastica. Per definire
la "linfoadenopatia" devono essere interessate almeno 2 stazioni non
contigue, con esclusione delle stazioni inguinali. Nei soggetti con uso
endovenoso di sostanze stupefacenti la valutazione dei linfonodi ascellari ed
inguinali è resa difficile dalla cronica irritazione spesso presente nelle
stazioni linfonodali che drenano i possibili accessi venosi.
Candidosi
oro-faringea.
È un’evenienza frequente, anche nelle fasi intermedie dell’infezione. Non
costituisce segno sufficiente per la diagnosi di AIDS, ma è sicuramente indicativa
di deficienza immunitaria. Si manifesta clinicamente con placche biancastre,
talvolta confluenti, su palato, faccia interna delle guance, pilastri
tonsillari, retrofaringe e lingua. Le placche possono essere rimosse con la
spatola, residuando una mucosa friabile e infiammata.
Dermatite
seborroica.
La prevalenza di tale condizione dermatologica, che può costituire la prima
spia dell’infezione, è indubbiamente molto elevata nei soggetti HIV positivi
rispetto alla popolazione generale. Clinicamente si manifesta con squame
giallastre su fondo eritematoso, prevalentemente localizzate alle pieghe nasali
ed alla fronte, ma anche al tronco ed alle ascelle.
Leucoplachia
orale villosa.
Condizione rara nella popolazione generale, è sostenuta dall’infezione da virus
di Epstein-Barr e si manifesta sotto forma di escrescenze filiformi
bianco-grigiastre al bordo linguale, bilateralmente. È indicativa di
immunocompromissione di grado intermedio.
Herpes
zoster cronico o generalizzato. La ricorrenza o la cronicizzazione di lesioni erpetiche nel
soggetto giovane-adulto, sono
indicative di deficienza immunitaria.
Sintomi
sistemici
(febbre, dimagramento o diarrea che persistano per più di 30 giorni). Compaiono
in situazioni di immunodeficienze di grado più avanzato (solitamente < 300
cellule CD4+/ml).
Demenza
inspiegabile.
Di tipo cognitivo, raramente può essere un sintomo precoce, dovuto all’azione
diretta del virus HIV.
Infezioni
o Neoplasie Opportuniste maggiori (linfoma a cellule B, sarcoma di Kaposi, tubercolosi).
Come
prima ricordato, tali condizioni di "opportunismo maggiore",
indicativa di diagnosi di Sindrome da Immunodeficienza Acquisita, possono
talora comparire anche quando la conta linfocitaria CD4+ sia di livello
intermedio (200-500/ml).
Citopenia (anemia, leucopenia, piastrinopenia).
3.
Il laboratorio nella valutazione iniziale del paziente HIV
La valutazione iniziale del paziente ha
come scopo:
• la conferma dell’infezione da HIV;
• la stadiazione dell’infezione;
• l’identificazione di infezioni latenti;
• la determinazione dello stato di salute generale del paziente.
La
conferma diagnostica di infezione si basa naturalmente sulla dimostrazione
della positività sierologica, mentre la stadiazione della infezione richiede la
valutazione immunologica e virologica.
La
diagnosi di infezione da HIV può essere effettuata mediante la ricerca di
anticorpi diretti contro il virus (test ELISA di primo impiego, test Western
Blot di conferma) o mediante la ricerca diretta del virus o di suoi componenti.
Gli
anticorpi specifici anti-HIV compaiono in quantità misurabili nel siero del
paziente in media dopo 3-6 settimane dall’infezione primaria ma, sia pur
raramente, sono stati segnalati casi di positivizzazione dell’esame dopo oltre
6 mesi dall’avvenuto contatto infettante. Il periodo che intercorre tra
infezione e comparsa degli anticorpi ("periodo finestra") è dunque il
periodo sierologicamente muto pur in presenza di infezione.
Poiché
l’infezione da HIV aggredisce prioritariamente il sistema immunitario, è
evidente che la valutazione della competenza immunologica rappresenta un
parametro fondamentale, insieme alla valutazione virologica, per ottenere un
quadro preciso dello stato evolutivo dell’infezione stessa.
L’esame
di riferimento a tal fine è la determinazione delle sottopopolazioni
linfocitarie della serie T, che consente di determinare i livelli circolanti
delle cellule CD8+ (linfociti citotossici) e soprattutto CD4+ (linfociti
helper), la cui quantificazione è di particolare importanza nella stadiazione
del paziente sieropositivo.