In Italia nella
primavera del 1860 la situazione politica era molto fluida e lo stesso Cavour cominciava a pensare alla possibilità di un’unificazione della penisola. Le
difficoltà erano tuttavia ancora notevoli perché la Francia non avrebbe
accettato un attacco piemontese contro lo Stato Pontificio e il Regno
Borbonico, quest’ultimo difeso sul piano diplomatico anche dalla Russia;
l’Austria, dal canto suo, avrebbe potuto approfittare di ogni passo falso per
reinserirsi nel gioco politico italiano.
Ma il problema più
grave consisteva nel fatto che l’armistizio di Villafranca e la cessione alla
Francia di Nizza e della Savoia avevano screditato la politica sabauda presso
l’opinione italiana, per cui nella primavera del ’60 sembrava più facile una
iniziativa democratico-repubblicana, che trovava il suo centro nel
"partito d’azione" il quale aveva il vantaggio di poter agire al di
fuori di ogni impedimento diplomatico e contava sull’enorme popolarità di Garibaldi.
Il "partito d'azione" non era un gruppo omogeneo di persone che
avevano le stesse finalità e idealità politiche; era un organismo di agitazione
e propaganda cui facevano capo sia i repubblicani mazziniani sia i democratici
decisi all’azione come Pisacane e Garibaldi.
A dare l’avvio a
una ripresa rivoluzionaria furono gli eventi siciliani quando, contro il
giovane e inesperto sovrano Francesco II, nell’aprile del
’60 esplose l’ennesima rivolta a Palermo. Il partito d’azione convinse
Garibaldi ad agire direttamente in Sicilia, anche perché Vittorio Emanuele, era disposto ad aiutare i volontari, contro
il parere di Cavour il quale, come primo ministro, non poteva compromettersi
specialmente agli occhi di Napoleone. Dal canto suo il Mazzini esortava tutti ad agire concordemente al fine di
realizzare l’unità della penisola.
Garibaldi ai primi
di maggio del ’60 passava all’azione con i suoi Mille volontari.
Partiti da Genova,
dopo una breve tappa nel porticciolo di Talamone, dove una piccola colonna
lasciò Garibaldi per marciare direttamente su Roma, la spedizione raggiunse per
mare la Sicilia occidentale e l’11 maggio sbarcò a Marsala. Garibaldi, assunta
la dittatura in nome di Vittorio Emanuele, marciò verso l’interno con i suoi
Mille, che rivestivano l’ormai leggendaria camicia rossa, rinforzati da
"picciotti" cioè dai giovani contadini e braccianti che speravano in
una riforma agraria che una volta per tutte eliminasse tanti soprusi ed
ingiustizie.
In seguito
l’entusiasmo dei contadini che miravano a impossessarsi delle terre demaniali,
promesse dallo stesso Garibaldi, fu deluso perché Garibaldi e i politici della
sinistra garibaldina e mazziniana volevano il successo militare della
spedizione. Tra la fine di giugno e di luglio il generale, per il successo
della spedizione, cominciò a stringere rapporti con i grandi proprietari
terrieri, i quali, perché non cambiasse niente per loro, erano disposti ad
assumere atteggiamenti liberali e favorevoli a Casa Savoia. I contadini
cominciarono a guardare con diffidenza alla politica di Garibaldi, soprattutto
dopo che i garibaldini repressero i moti rurali, anche quando i contadini, in
perfetta legalità, richiedevano la divisione dei terreni demaniali a suo tempo
promessi dal "generale".
Battuti i
borbonici nella difficile battaglia di Calatafimi, il 15 maggio Garibaldi
occupava Palermo e nel luglio batteva ancora le truppe regie a Milazzo, mentre
il sovrano di Napoli tentava disperatamente di fermarlo, concedendo una tardiva
Costituzione e affidando il governo a Liborio Romano. Una speranza vana e una
fiducia mal riposta: il Romano, d’accordo con Cavour cercò di provocare in
Napoli un moto di moderati monarchici, allo scopo di precedere Garibaldi alla
liberazione del napoletano. Intanto Garibaldi, superato lo stretto di Messina,
risaliva liberamente la Calabria mentre l’esercito borbonico si disfaceva e il
7 settembre entrava in Napoli; Francesco II si rifugiava allora a Gaeta,
protetta ancora da una parte del suo esercito, nonstante il
"tradimento" di buona parte dell'ufficialità.
Praticamente
l’Italia meridionale era libera, nonostante attorno a Gaeta si raccogliessero
ancora forti contingenti di truppe borboniche e le piazzeforti di Civitella del
Tronto e di Messina non si fossero arrese. Era il momento di prendere decisioni
definitive, che avrebbero pesato sul destino di tutta la penisola.
Mazzini che aveva raggiunto Garibaldi a Napoli premeva perché si evitasse
il solito plebiscito a favore della monarchia sabauda e insisteva sul progetto
di una "Assemblea Costituente" che decidesse del nuovo assetto da
dare all’Italia, anche se egli avvertiva chiaramente che ormai il principio
monarchico aveva avuto partita vinta. Garibaldi dal canto suo, pensava di
risalire con le truppe verso Nord per raggiungere Roma e di lì proclamare
l’Unità d’Italia.
Il Cavour, infine,
si rendeva perfettamente conto della gravità della situazione; egli era
consapevole che tra le file garibaldine i democratici ed i repubblicani erano
molto forti e decisi a realizzare riforme sociali molto ardite, come
l’assegnazione di terre ai combattenti meridionali e lo scorporo del latifondo
anche a danno degli ordini religiosi. Temeva anche, a ragione, che l'invasione
garibaldina del Lazio, oltre a suscitare in tutta la penisola un’ondata di
entusiasmo democratico e anticlericale, avrebbe indotto l’imperatore francese a
intervenire con le armi. Ancora una volta fu abilissimo a trasformare in
vantaggio la propria debolezza: ancora una volta seppe agire abilmente su
Napoleone. Prospettatogli lo spettro della formazione di una repubblica
mazziniana e anticlericale nell’Italia centro meridionale, lo stesso imperatore
sollecitò il Cavour a fare intervenire l’esercito regolare piemontese, che, al
comando dei generali Fanti e Cialdini, penetrò nelle Marche e batté l’esercito
papale, che tentava di sbarrargli il passaggio il 18 settembre 1860 a
Castelfidardo. Nel frattempo, con la battaglia del Volturno, Garibaldi
stroncava un estremo tentativo di riscossa dei borbonici, che erano costretti a
rinchiudersi a Gaeta. L'incontro del 26 ottobre, a Teano, tra Garibaldi e
Vittorio Emanuele poneva fine alla spedizione di Garibaldi e di fatto
assicurava alla dinastia sabauda il Regno delle due Sicilie.
Le truppe garibaldine, non furono incorporate nell’esercito regolare, come
era stato richiesto, e il re si rifiutò perfino di passarle in rivista. In
conseguenza di questo atteggiamento, Garibaldi, deluso e sdegnato, si ritirò a
Caprera.
Il 17 marzo il
nuovo Parlamento italiano riunito a Torino poteva ratificare l’avvenuta
unificazione, attribuendo a Vittorio Emanuele II il titolo di "re
d’Italia"; il 26 marzo il Parlamento approvava un voto solenne che
auspicava Roma capitale d’Italia. Il processo risorgimentale e unitario era
praticamente compiuto, anche se il Lazio e le Venezie rimanevano escluse.