Il medioevo nella nostra regione

  Gruppo Archeologico Napoletano associazione ONLUS

  

Architetture difensive militari nei Campi Flegrei

 


Premessa

Nel percorrere i Campi Flegrei non è raro imbattersi in torrioni o castelli di varia mole e consistenza, sia restaurati che completamente trasformati. Ma spesso soltanto un occhio attento riesce a distinguere in mezzo all’opera distruttrice dell’uomo ed a quella usurante del tempo le architetture difensive del medioevo. La maggior parte di questi monumenti sono oggi in uno stato desolante, tanto che la loro esistenza è nota soltanto a pochi. Eppure quel che resta di un castrum fortificato, di un castello o di una torre meriterebbe maggior rispetto perché essi occupano un ruolo importante nella storia della nostra terra. E’ superfluo ricordare che queste architetture si svilupparono non solo nei Campi Flegrei e in Italia, ma già parecchi secoli prima si parla di castelli in Assiria o in Grecia.


§.1 Il contesto storico medievale

Intorno alla fine del V - inizio del VI secolo, l’area flegrea si trovava in una condizione di decadenza a causa delle continue incursioni barbariche e dell’accentuarsi del fenomeno del bradisismo (lento movimento ascendente o discendente della terra). Per queste ragioni degli importanti abitati romani, sopravvissero soltanto piccoli centri fortificati raccolti su promontori detti castri. I più importanti erano quelli di Pozzuoli (sul Rione Terra), di Cuma e di Miseno.
L’area fu teatro della guerra fra Bizantini e Goti (535-553): questi ultimi, guidati dal re Totilia, saccheggiarono Miseno e poi occuparono Cuma nel 542. Pochi anni dopo, nel 553, il castrum cumano venne cinto d’assedio e preso per fame dai Bizantini guidati dal generale Narsete. I Bizantini restarono padroni della zona per qualche secolo. Nel 717 i Longobardi di Benevento, guidati dal duca Romualdo II, riuscirono ad impadronirsi della rocca, ma soltanto per un breve periodo. Nel IX secolo cominciarono le incursioni dei Saraceni lungo le coste. Miseno venne conquistata da questa popolazione e distrutta. Nel 915 anche Cuma cadde in mano ai Saraceni e nei secoli successivi divenne covo di pirati e predoni.
La restante area dei Campi Flegrei dovette appartenere fino al 1026 al ducato di Napoli e successivamente ai principi longobardi (1027-1058) ed a quelli normanni (1058-1128) per poi ritornare al ducato napoletano fino al 1137. Ed ancora seguì le sorti di Napoli sia sotto la dinastia normanna (1137-1194) che sotto quella sveva (1194-1266). Nel 1207 l’acropoli di Cuma, ormai mal frequentato, venne distrutto dalle armate napoletane guidate da Goffredo Montefuscolo. Un ampio moto di rivolta interessò il Mezzogiorno a seguito della morte di Federico II (1250) ed all’incitamento del papa Innocenzo IV, a cui parteciparono anche gli abitanti del castrum puteolano che cacciarono il loro feudatario. La rivolta non ebbe fortuna e Pozzuoli ritornò ad essere dominio svevo.
Con la sconfitta di Manfredi (1266) ad opera di Carlo I d’Angiò, anche i Campi Flegrei passarono sotto il governo della nuova dinastia angioina. Per Pozzuoli fu un periodo di ripresa grazie anche al fatto che nel 1296 Carlo II d’Angiò concesse alla cittadina l’autonomia di governo ed amministrativa: si passò dai 290 residenti del 1268 agli oltre 2500 nel 1489. Grosso impulso ebbe l’attività termale tanto che nuovi stabilimenti di cura sorsero sul territorio come quello in località Tripergole con una capacità di 120 posti-letti. Molte erano le aree flegree destinate dai sovrani ad attività venatorie come il Monte di Procida, gli Astroni, la conca di Quarto. Durante la successiva dominazione aragonese (1442-1503) si ha notizia di diversi terremoti (1448, 1456, 1488) che contribuirono ad uno spopolamento dell’area con forti ripercussioni sull’economia. A nulla valsero gli sgravi e le esenzioni tributarie concesse da Alfonso I prima e Ferdinando I poi: alla fine del XV secolo la vita socio-economica di Pozzuoli era quanto mai chiusa, arretrata e depressa. Gli inizi del ‘500 furono caratterizzati ancora da numerose scosse telluriche e da un forte accentuarsi del bradisismo ascendente. Questa situazione culminò nell’eruzione che determinò la nascita del Monte Nuovo, avvenuta nella notte tra il 29 ed il 30 settembre 1538. L’evento distrusse il villaggio di Tripergole e causò ingenti danni in un tutto il territorio, tanto da causare la fuga di moltissimi abitanti di Pozzuoli e degli altri abitati flegrei. Come già accaduto nei secoli precedenti, il governante dell’epoca, il viceré Pedro De Toledo, incoraggiò il ripopolamento con l’esenzione dalle tasse per parecchi anni. Egli stesso si fece costruire un palazzo con una torre nei pressi del porto puteolano. L’interessamento di Toledo per Pozzuoli era dettato soprattutto dall’importanza strategica del suo porto che rischiava di trovarsi sguarnito: e difatti il 18 giugno 1544 i pirati barbareschi tentarono un assalto in massa, ma soldati spagnoli ed abitanti puteolani guidati dal viceré in prima persona inflissero loro una pesante sconfitta. Le facilitazioni economiche promosse dal Toledo richiamarono famiglie anche da zone più lontane, dando vita a nuovi agglomerati: è il caso di Bacoli, fondata da famiglie di agricoltori che disboscarono l’area che tra il castello di Baia e Miseno, rendendola praticabile. Il secolo si chiuse con una serie di movimenti tellurici che si accompagnarono ad un bradisismo discendente.
Il ‘600 fu caratterizzato soprattutto dalla terribile epidemia di peste (1656) che non risparmiò l’area flegrea. Successivamente nessun evento notevole caratterizzò il territorio nei secoli successivi.


§.2 I castra

I castra erano cittadelle fortificate che erano sorte su insediamenti romani a seguito delle invasioni barbariche. Nei Campi Flegrei abbiamo la presenza di almeno tre importanti castra di questo tipo.

Il Castrum Misenati, ubicato sul promontorio di Miseno nell’area della villa romana di Lucullo. Saccheggiato da Goti e Longobardi, venne poi fortificato nuovamente da papa Gregorio Magno nel 599. Nella metà del IX secolo, i Saraceni l’occuparono, distruggendolo definitivamente. Attualmente non ne avanzano tracce.

Il Castrum Cumanum era ubicato sulla collina dove era il sito dell’acropoli di Cuma. Fu prima sede della guerra tra Goti e Bizantini nel VI secolo e poi di quella tra Longobardi e Napoletani nel 717. Venne occupata dai Saraceni nel 915 e distrutto nel 1207 dai Napoletani guidati da Goffredo di Montefuscolo. Attualmente è possibile ancora osservare tratti delle mura ed i resti di una torre, accanto all’ingresso all’acropoli, che ha inglobato quella preesistente di epoca augustea a seguito del rifacimento operato dal prefetto Flavio Nono Erasto nel 558.

Il Castrum Putheolanum occupava il sito del Rione Terra di Pozzuoli. Numerosi rifacimenti e distruzioni hanno impedito che si conservasse qualche traccia fino ad oggi, se si eccettua il bastione all’angolo fra via Cavour e via Castello, sebbene rimaneggiato.

Il Castrum Gipeum è documentato a partire dall’XI secolo sull’isola di Nisida intorno ad un monastero del quale si conosce ben poco: forse esso era dedicato a S. Arcangelo del Salvatore oppure a S. Nicola. Non si è sicuri neanche della localizzazione: secondo alcuni esso si trovava sulla parte alta dell’isola, dove oggi sorge l’istituto per i minori. Seguendo questa ipotesi, le uniche tracce rimaste sarebbero da identificarsi con il cosiddetto "cortile delle scuole" che ricorda, nonostante i tanti rifacimenti, un chiostro di un convento. Del castrum si sa soltanto che la sua presenza non è più documentata in età angioina.

Il Castrum San Martini era localizzato nell’attuale centro di Monte di Procida e forse venne fondato dai superstiti della distruzione di Miseno.

Il Castrum Tripergularum era ubicato sul luogo del villaggio di Tripergole e venne distrutto dall’eruzione del Monte Nuovo nel 1538.

Va inoltre segnalato il Castrum de Serra, fondato da Roberto I, principe di Capua, e la cui localizzazione appare incerta: secondo alcuni autori si tratta probabilmente del "Vado di Serra", piccolo villaggio medievale sull’altura della Montagna Spaccata del quale restano i ruderi di mura e di una torretta; altri autori localizzano il castro nell’area dell’attuale Castello Monteleone.


§.3 I castelli

Il termine castello indica un edificio ben difeso creato per assolvere funzioni militari o per sicura dimora del signore. L’architettura di questo genere venne perfezionata dai Normanni e poi dagli Svevi. L’edificio era una vera e propria residenza che all’occorrenza si trasformava in fortificazione ospitando anche la popolazione dei dintorni.

Il più antico edificio di questo genere nei Campi Flegrei risale al periodo Svevo ed è il cosiddetto Castello Belvedere (detto anche Monteleone), ubicato in posizione dominante sul cratere di Quarto, lungo la strada per Marano. Esso fu eretto per volontà di Federico II tra il 1227 ed il 1229. Caduto in rovina, venne restaurato da Carlo I d’Angiò fra il 1275 ed il 1277 che affidò i lavori prima a Pietro de Chaule e poi a Bausolino de Lynnais. Il sito venne utilizzato prevalentemente per gli svaghi venatori dei regnanti, tanto che, nelle sue vicinanze, era vietata il disboscamento e la semina. Fu così che i contadini del luogo si spostarono a circa 6 km dal castello dando vita all’attuale Marano. In epoca aragonese venne nuovamente abbandonato in quanto la famiglia reale gli preferì Torre Caracciolo. Soltanto nel XVI secolo, con il passaggio alla famiglia Monteleone, venne nuovamente restaurato. Ma il declino ricominciò a breve. Oggi il castello è diviso in diversi appartamenti abitati da privati, ma la pianta dell’edificio è ancora intatta: si tratta di una struttura rettangolare di m. 37 x 40 di lato. Sei torri sono ubicate lungo il perimetro: due più grandi verso il giuglianese e le altre verso Quarto ed il mare. Nel lato orientale si conservano ancora una bifora (foto a lato) ad archi acuti e due finestre circolari originarie. Si accede al cortile interno dove è un pozzo che raccoglie le acque piovane tramite un articolato sistema di canali. Di fronte è un doppio forno, unico nel suo genere. Sulla destra, attraverso un arco acuto, si accede alla scala di piperno che, per mezzo di un ballatoio (originariamente in legno) conducono al primo piano erano dodici stanze. Sugli altri lati del cortile si aprivano stalle, cucine, dispense ed altre camere.

Coevo al Castello Monteleone e molto simile nell’architettura è Castello Scilla, ubicato sulle pendici dei Camaldoli che danno verso Marano. Costruito anch’esso per volere di Carlo d’Angiò intorno al 1250, presenta una pianta rettangolare con i lati di m. 37x40 e sei torri che lo circondavano. Purtroppo attualmente l’edificio è stato oggetto di notevoli rifacimenti ed abusivismi che ne hanno irrimediabilmente alterato l’originaria architettura. L’ingresso ricorda lo stesso stile dell’altro castello con una cappella restaurata nel 1899. Il cortile è attualmente suddiviso in due parti da un muro. Si accede al primo piano attraverso un arco a sesto acuto. Al primo piano è un passetto in muratura (originariamente in legno) sostenuto da grossi archi. Nel seicento l’edificio passò alla famiglia Macchia e poi al principe di Scilla, Falco Ruffo, al quale deve il nome. Nel corso dell’ottocento il castello cominciò la sua disavventura finendo frazionato in tante proprietà, la maggior parte delle quali non si è curata minimamente della sua antica storia cosicché oggi ben poco resta dell’antico splendore.

Presso lo scomparso villaggio di Tripergole, gli Angioini fecero costruire un altro castello su di una collinetta (Monte del Pericolo) ubicata verso il Lago d’Averno: esso venne utilizzato soprattutto per scopi venatori anche dagli Aragonesi. Il tutto scomparve, come già riferito, con l’eruzione del Monte Nuovo del 1538.

All’epoca Aragonese appartiene un’altra dimora conosciuta come Torre Caracciolo. Ubicata su una propaggine dei Camaldoli che dà verso Quarto e Pianura, venne ceduta alla famiglia Ricca e poi ai Capece-Piscicelli ed, infine, ai Caracciolo. Attualmente è abitata da privati, ma si conservano le caratteristiche architettoniche salienti. A pianta rettangolare per una superficie di 2.400 mq, l’edificio presenta quattro torrette laterali con merlatura munite di saettiere. L’accesso avviene attraverso un androne sopra il quale campeggia lo stemma delle famiglie Ricca e Montenegro. Qui è una piccola cappella con la sacrestia. Più avanti è un pozzo ottagonale rivestito in marmo, e poi le scuderie, una cisterna, gli antichi magazzini e la cucina. Al primo piano si accedeva attraverso un ponte levatoio in legno (oggi sostituito da un ponte fisso in muratura): in esso trovavano posto un salone con l’armeria con volte affrescate con scene di caccia (al centro sono gli stemmi dei Caracciolo e dei Capece-Piscicelli). Altre camere di cui due stanze da letto completano il piano. Al secondo piano erano invece le stanze delle signore, la biblioteca e lo studio. La posizione della torre consentiva di ammirare uno spettacolare panorama attraverso le otto finestre del primo piano e le nove del secondo dove era anche uno stupendo balcone. La parte superiore delle torri ospitava 44 colombaie ciascuna. A tal proposito, una lapide apposta nel 1688 da Giovan Battista Capece-Piscicelli, ancora visibile all’ingresso dell’edificio, ordina che "nessuna persona di qualunque stato e condizione ardisca entrare nel cortile della Torre dell’Ill.mo Arciduca D. Gio. Battista Capece Piscicelli, sito in territorio della terra di Marano, armato di schioppo, a sparare alli palombi che sono in detta torre e molto meno possa sparare vicino a detta torre e territori che possiede detto ill.mo duca, se non nella distanza di un mezzo miglio attorno ai territori medesimi, al fine di non recare danno alli palombi che sono nella torre predetta". Una scala segreta consentiva di poter fuggire dal primo piano direttamente nei sotterranei. Durante l’ultima guerra la torre ospitò prima una base operativa tedesca e poi una brigata di paracadutisti anglo-americana: in quest’occasione per riscaldarsi vennero bruciati nel camino anche i preziosi mobili antichi ancora esistenti nell’edificio.


§.4 I fortilizi

Allo scopo di difendersi sia dagli attacchi costieri che da quelli dal territorio interno, in epoca angioina vennero eretti numerosi fortilizi con funzioni di difesa ed avvistamento.

Un importante fortilizio era ubicato sul Monte Sant’Angelo, la vetta del Monte Gauro che affaccia verso l’attuale abitato di Rione Toiano ed Arco Felice. Innalzato nel XIV secolo, venne trasformato in chiesa agli inizi del XVIII secolo quando stava ormai cadendo in rovina. Attualmente, dopo aver ospitato per parecchi anni un eremita, è stato chiuso e recintato. All’esterno, l’edificio conserva ancora evidenti tracce della sua primitiva destinazione difensiva.

Altro fortilizio, probabilmente angioino, era il castello ubicato sulla sommità di Capo Miseno e del quale conosciamo l’esistenza da stampe e piante antiche. Esso dovette cadere in disuso per cedere il posto alle efficienti torri costiere.

Pur in assenza di tracce visibili, è probabile che fortilizi del genere dovessero essere installati anche sulla sommità di Nisida e sull’altura dell’attuale Castello di Baia. Per quanto concerne Nisida, già agli inizi del ‘500 dove esistere una torre circolare come ci informa il Celano. La stessa torre viene riportata in una tavola dell’Ager Puteolanus di Claudio Duchetti (1586). Ed ancora la torre viene riportata in alcuni inventari dei beni della Chiesa Napoletana (come quello del 1485, affittuario un certo Raimondo De Griffo).

Riguardo al fortilizio di Baia, esso dovette poi cedere il posto, intorno al 1495, all’imponente fortezza voluta da Alfonso II, su progetto di Francesco di Giorgio Martini, valente ingegnere militare.


§.5 La difesa costiera in età vicereale

Nel corso del XVI e XVII secolo, le coste flegree, come la maggior parte delle coste tirreniche, vennero flagellate dagli assalti dei corsari barbareschi. Questa attività era ad appannaggio delle popolazioni dell’Africa Nord-Occidentale ed ebbe il suo sviluppo maggiore dopo il 1574, quando i Turchi conquistarono Tunisi, concedendo l’autonomia ai capi militari barbareschi per questo tipo di attività che era l’unico modo di assicurarsi una certa prosperità economica. Episodi cruenti e drammatici si svolsero nei Campi Flegrei, come il 6 giugno 1519 quando corsari turchi saccheggiarono Pozzuoli uccidendo e facendo prigionieri. Nel 1517 ebbe luogo una nuova incursione con 117 famiglie saccheggiate, 14 uomini uccisi e parecchie donne e bambini fatti prigionieri. A seguito di questi episodi, si provvide a fortificare le città, ma ben presto ci si rese conto che occorreva anche tenere costantemente sotto controllo il litorale. Fu così che nel 1532, il viceré Pedro de Toledo emise un’ordinanza con la quale si ordinava la costruzione di torri costiere. Nell’area flegrea vennero così erette una serie di torri scegliendo la localizzazione in base alla maggiore o minore esposizione alle incursioni corsare.

Le torri costiere di età vicereale erano atte ad ospitare il personale di guardia e, in caso di pericolo, l’esigua popolazione dei dintorni. Erano generalmente a pianta quadrata, alte circa 15 metri con base strombata e sommità contornata da caditoie per impedire l’assalto ravvicinato. I tre piani della torre erano generalmente adibiti a: magazzino, alloggiamento, batteria. L’ingresso al primo piano veniva raggiunto tramite una passerella che veniva ritirata in caso di assedio. L’armamento era costituito da colubrine per sparare alle imbarcazioni e petriere per difendersi da assalti ravvicinati. Era poi presente un fornello per le segnalazioni. A guardia delle torri era il "torriere" o "caporale", coadiuvato da un "guardiano" addetto alle segnalazioni e da uno o più "compagni".

Per ciò che concerne le torri flegree, in particolare, alcuni documenti dell’epoca ci descrivono la presenza del "caporale" (che svolgeva probabilmente anche le funzioni del "guardiano") e di un "compagno". Detti documenti, tra l’altro, permettono di stabilire che gli addetti alle torri, per essere pagati delle loro spettanze, dovevano presentare una dichiarazione del governante e del capo dei servizi di polizia della città nel cui territorio ricadeva la torre. Questo per evitare che i caporali si assentassero dal servizio per dedicarsi ad altre attività. Di seguito riportiamo uno di questi documenti: Si fa fede per noi Mario Loffredo Regio Capitano della città di Pozzuolo, et Ascanio Russo mastro Giurato della città come Bernardo Figaroa caporale della torre di Patria et Cristofaro Chianese soldato hanno fatto la guardia in detta torre per tutto il passato mese di gennaio 1619 con bonissima vigilanza come del detto servizio siamo stati pienamente informati. Et in fede habbiamo fatto fare la presente firmare di nostre mani sigillato del sigillo di detta città di Pozzuoli il primo febbraio 1619.

Le prime due torri vennero costruite presso le foci dei laghi Fusaro (torre di Gaveta) e Patria (torre di Patria). La prima è oggi ridotta a pochi ruderi, mentre la seconda è stata oggetto di rifacimenti ed è abitata da privati.

A seguito dell’eruzione del Monte Nuovo, nel settembre del 1538, l’area flegrea subì uno spopolamento che influì negativamente anche sulle possibilità di difesa del territorio. Proprio allo scopo di invogliare le popolazioni a ritornare in questi luoghi, Pedro de Toledo nel 1540 fece costruire a Pozzuoli uno splendido palazzo con giardino. Nella parte meridionale della struttura venne innalzata una poderosa torre di difesa a pianta rettangolare che prese da lui il nome. Torre Toledo, progettata da Ferdinando Maglione, si componeva di tre piani fuori terra ed uno interrato: ad ogni piano era un ampio locale coperto con camminamento interno. La torre, dopo essere stata destinata prima a carcere borbonico (con l’eliminazione della merlatura per far posto alla passeggiata per i detenuti) e poi ad ospedale civile (1870-1970), è oggi in stato di abbandono, all’interno della splendida Villa Avellino.

A difesa del porto puteolano, Pedro de Toledo fece anche costruire un fortino sul Rione Terra, oggi conosciuto come "castello" e del quale, a seguito dei rifacimenti per la trasformazione in abitazione avvenuti nei primi anni del novecento, rimangono soltanto l’arco d’ingresso ed alcune sostruzioni sulla facciata.

Sempre il Toledo, intorno al 1550 fece rimaneggiare completamente il Castello di Baia che, dalla fondazione, aveva subìto notevoli danni dovuti all’eruzione del Monte Nuovo. Incerto il nome dell’architetto che progettò il rifacimento: forse si trattava di Ferrante Maglione, già progettista di Torre Toledo, oppure di Luigi Scribà, artefice della ricostruzione di Castel Sant’Elmo a Napoli.

Per evitare che i corsari potessero utilizzare il porto di Nisida (Porto Paone) come nascondiglio si provvide anche alla costruzione di una torre sulla sommità dell’isola. Caduta in rovina la torre medievale, da un documento del 1546 si apprende che il concessionario dell’isola, Pietro de Ursanque, aveva richiesto un contributo per terminare la costruzione di una nuova torre. Un altro documento del 1550 riporta il pagamento effettuato ad alcuni soldati di guardia a Nisida: questo confermerebbe che all’epoca la torre non era stata ancora completata, ma che comunque un posto di vedetta era attivo considerata l’importanza strategica del luogo. Nel 1553 l’isola passò a Giovanni Piccolomini, duca di Amalfi, che, come si apprende da un documento dell’epoca, utilizzò la torre esistente, o quanto permaneva di essa, per costruire il suo palazzo. Da tali documenti non sappiamo se il palazzo avesse inglobato la torre o se la torre stessa costituisse la residenza fortificata del Piccolomini. Infatti in moltissime mappe o vedute successive (come, ad esempio, Baratta del 1629 e Villamena del 1652) sull’isola è raffigurata in bell’evidenza, una torre circolare con basamento scarpato e merlatura di coronamento. Sicuramente, intorno alla metà del ‘600, la torre dovette subire un rifacimento tanto che le fonti cominciano a parlare di "castello" e non più di "torre".

Nel 1563, il viceré Perafan de Ribera diede ordine di costruire nuove torri non solo di difesa, ma anche di avviso, lungo la costa così che potessero essere disposte in vista l’una dell’altra. Inoltre venne dato ordine affinché le torri private già esistenti venissero requisite per pubblica utilità. Si decise così la costruzione di due torri, una a Monte di Procida (Torre Fumo) e l’altra a Capo Miseno, sul luogo dell’attuale faro. Le spese di costruzione delle torri vennero addebitate agli stessi casali di appartenenza che, proprio per questo, ritardarono la costruzione accampando diverse motivazioni. Di sicuro Torre Fumo risultava già terminata nel 1588, mentre per la torre di Miseno si rese necessaria una nova tassazione che colpì tutte le famiglie del casale ed in particolare per quelle che abitavano a meno di 12 miglia dalla costa. Nel 1592 la torre risulta quasi finita. Prima del 1613 fu comunque costruita una seconda torre a Miseno, più piccola e poco distante dalla prima. Tale esigenza era probabilmente collegata alla necessità di tenere sotto controllo la spiaggia antistante l’antica cisterna romana conosciuta come Grotta della Dragonara (non visibile dalla prima torre). Detta spiaggia era un punto di approdo molto importante e ricercato dai corsari in quanto la cisterna, all’epoca ancora attiva, consentiva il rifornimento idrico. Di tutte queste torri oggi non rimane traccia.

Nel 1636 il viceré Manuel de Guzman fece aumentare le difese del porto di Baia con due torri poiché il castello, data la sua altezza, non poteva svolgere un’azione difensiva particolarmente efficiente. Il castello fu comunque maggiormente fortificato e reso più sicuro dal lato di terra.

Nel 1641 venne ordinata la costruzione di una nuova torre anche nell’area di Cuma, ma sembra che essa non sia stata mai eretta, non esistendo, tra l’altro, alcuna testimonianza né visibile, né iconografica. In ogni caso, per ovviare alla grande distanza esistente fra la Torre di Patria e quella di Gaveta, si ha notizia della costruzione di alcune baracche lungo la spiaggia di Cuma che ospitavano un paio di addetti alle segnalazioni.

Alla fine del ‘600, quindi, la dislocazione delle torri lungo il litorale flegreo consentiva la comunicazione ottica tramite segnali di fumo. Partendo da Nord, la prima torre che si incontrava era quella di Patria che era in comunicazione diretta (o tramite le baracche della spiaggia cumana) con la torre di Gaveta. Per risolvere il problema del collegamento visivo con la torre successiva, Torre Fumo a Monte di Procida, è probabile che sia stata costruita una guardiola (una piccola torre) sull’isolotto di San Martino, circostanza che viene confermata anche da alcune fonti che riportano la distruzione di una piccola torre sull’isolotto nel secolo scorso. Da questo punto era possibile comunicare con le due torri di Miseno. Da qui il segnale poteva essere inviato a Pozzuoli, a Nisida ed a Posillipo. Le torri erano poi in collegamento ottico anche con le isole di Procida ed Ischia, mentre il collegamento con il castello di Baia, tagliato fuori dalla visuale delle torri, avveniva probabilmente a mezzo "cavallari" (cavalieri acquartierati lungo la spiaggia di Miliscola).

L’importanza delle torri costieri rimase inalterata anche nel corso del XVIII secolo, sebbene utilizzate sempre meno per difendersi dagli attacchi dei corsari e sempre più per la lotta al contrabbando, tanto che esse finirono per passare sotto la giurisdizione del Dipartimento delle Finanze e date in custodia a guardie doganali.


§.6 Le case-torri

Nel periodo vicereale scoppiò un altro fenomeno che stavolta andò a gravare soprattutto sulle popolazioni del territorio interno: il banditismo. Diffuso in maniera minore già in epoca angioina, ebbe notevole sviluppo nel corso del XVI secolo e solo alla fine del secolo venne finalmente debellato. A seguito di questa situazione parecchi privati eressero torri all’interno dei loro casali e masserie per difendere meglio le loro abitazioni. Nacquero così le cosiddette "case-torri", edifici fortificati con la duplice funzione di difesa e di abitazione. Tante sono le testimonianze ancora esistenti di questa tipologia architettonica, ma molte sono anche quelle scomparse ed il cui ricordo resta nei toponimi.

Fra le case-torri ancora esistenti, un bell’esempio è dato da Torre San Severino (foto a lato), nel comune di Giugliano, nei pressi di Licola. Costruita all’interno di una masseria a corte funzionante da grancia benedettina fino agli inizi dell’800, è attualmente in rovina anche a causa dei danni subiti durante l’ultima guerra. Originaria è la possente base "a scarpa" con bocche di lupo, mentre i due ingressi ad arco sono aggiunte settecentesche.

Lungo la strada che collega il cimitero di Bacoli alla "sella di Baia" sorge la Masseria Torre Cappella. Il suo nome deriva dalla donazione di questo possedimento avvenuta nel 1134 da parte di Guglielmo de Prioldo, conte di Cuma, alla Chiesa di Santa Maria a Cappella di Napoli. Su questo terreno sorgeva la chiesetta di San Pietro a Pertuso (oggi distrutta) per la cui difesa venne eretta, appunto, Torre Cappella. Abbattuta in parte alla fine dell’800, sulla sua base venne edificata l’attuale casa colonica. L’interno della base, a pianta quadrata leggermente strombata, conserva ancora la volta a vela e le bocche di lupo originari.

In località Monterusciello sorge ancora Torre Santa Chiara eretta a difesa della tenuta ecclesiastica delle clarisse del Monastero di Santa Chiara di Napoli, da cui il nome dato alla torre. Detto territorio, comprendente anche Monte Sant’Angelo alla Corvara con il suo castello, venne donato alle religiose dalla regina Sancia di Maiorca nella prima metà del XIV secolo. La torre, a pianta quadrata, è attualmente trasformata in casa privata, ma l’esterno conserva ancora l’originaria struttura. Essa si compone di tre piani fuori terra, con la base "a scarpa".

Nei pressi di Soccavo sorge Torre San Domenico, eretta probabilmente nel 1654 a difesa di una grancia dominicana. In questo caso si tratta di un edificio inserito in un altro corpo di fabbrica la cui funzione difensiva era legata soprattutto alla sua mole, considerando l’assenza di bocche di lupo e di strombature. E’ divisa in tre livelli da due fasce di piperno a toro e coronata da una merlatura in piperno con arcatelle cieche. L’accesso avviene a piano terra attraverso una grosso arcone con fascia in piperno.

Sempre a Soccavo, a difesa del casale, venne innalzata Torre dei Franchi (foto a lato), che deve probabilmente il suo nome alla famiglia De Franco. La torre, a pianta quadrata, presenta quattro piani fuori terra con i primi due ricavati nella base strombata dove si aprono bocche di lupo. La merlatura è andata in parte perduta, ma ancora sono visibili le arcatelle in tufo fornite di caditoie. Purtroppo, al momento la torre è in condizioni di rovina.

Tra Soccavo ed i Camaldoli, nell’attuale area del campo sportivo Paradiso, sono i resti di Torre della Lopa, un masseria fortificata conosciuta anche con il nome di Torre Ciotola, dal nome della famiglia che nell’800 era proprietaria del complesso. La denominazione originaria potrebbe essere riferita all’antica funzione di difesa dai lupi che una volta frequentavano l’area. Riguardo alla sua costruzione, l’unica notizia certa è che essa è anteriore al 1630. Attualmente è abitata da privati.

In un altro casale napoletano, Posillipo, si erge Torre Ranieri, attualmente a pianta quadrata e base "a scarpa", ma originariamente a base circolare. Essa presenta quattro piani fuori terra, di cui due nella base. Deve il nome alla famiglia Ranieri che possedeva in questa zona, all’epoca denominata Ancari, una masseria fortificata della quale faceva parte anche la torre. Ha subito diversi restauri, perdendo quasi del tutto il carattere originario. Attualmente è di proprietà privata.

Poco lontano, nei pressi dell’attuale Via Caravaggio, sorgeva Torre Cervati che prendeva il nome dai proprietari, i marchesi Cervati. La torre venne poi distrutta e del fabbricato originale resta oggi qualche tratto di muro perimetrale ed una lapide settecentesca che ricorda il regio bando fatto emettere il 12 maggio 1779 contro i cacciatori che all’epoca scavalcavano il muro di cinta della proprietà.

A Marano sono interessanti esempi di case-torri. Collegate da un breve tratto stradale rettilineo sono le masserie Dentice (dette "di sopra" e "di sotto") il cui nome deriva dalla famiglia che abitò la zona a partire dal XVI secolo. Quella di sotto conserva il classico schema a corte con torre esterna. Poco lontano è Masseria Galeota, sul cui ingresso si imposta una torre con contrafforti. Nelle vicinanze è anche Masseria Capuzzelle con torre ancora visibile. In località Faragnano sono le due masserie omonime ("di sopra" e "di sotto") di cui quella superiore con struttura a torre. Infine nella località Il Pigno è l’omonima masseria a torre.

Sebbene non rientrante nella tipologia delle case-torri deve essere segnalata anche la Torre degli Astroni, costruita sempre nel medesimo periodo per volontà di Pedro de Toledo, all’ingresso della tenuta da lui frequentata per svaghi venatori. La torre è ancora esistente.

Non più esistenti sono invece diverse case-torri come Torre Pilastri (a Largo Pilastri a Fuorigrotta, abbattuta negli anni trenta), Torre Piscicelli (tra Solfatara e Monte Spina), Torre Poerio (tra Montagna Spaccata e Val di Pecora), Torre Murale (presso il lago Fusaro). Non rientrano invece in questa tipologia Torre Nocera e Torre Lupara, costruite in epoca borbonica per i guardiacaccia sul ciglio degli Astroni.


§.7 Guida alla visita

Il nostro itinerario inizia da Posillipo in Via Torre Cervati (tra Via Caravaggio e Via Manzoni) dove un tempo sorgeva l’omonima torre della quale resta oggi solo qualche tratto di muro perimetrale ed una lapide settecentesca che ricorda il regio bando fatto emettere il 12 maggio 1779 contro i cacciatori che all'epoca scavalcavano il muro di cinta della proprietà.

Proseguendo lungo Via Manzoni verso Posillipo, quasi al termine, al centro della strada sorge Torre Ranieri, a pianta quadrata e base "a scarpa". Per visitare l’interno, comunque spoglio e completamente trasformato, si può provare a rivolgersi in loco.

Continuando verso Posillipo si può raggiungere il Parco della Rimembranza dal quale è possibile scorgere un bel panorama su Nisida. L’isola conserva ben poco delle torri che ha ospitato ed è inaccessibile in quanto sede di un penitenziario minorile. Comunque si può inoltrare una richiesta scritta motivata alla sede degli Istituti Minorili di Rieducazione in Viale Colli Aminei al quale rivolgersi per informazioni.

Si raggiunge Soccavo: dall’incrocio di Via Epomeo con Via Giustiniano, attraverso una stradina adiacente alla rampa della Tangenziale, si può raggiungere Torre San Domenico, edificio inserito in un altro corpo di fabbrica. La si può visitare rivolgendosi in loco agli abitanti, tenendo presente che essa è stata trasformata in abitazioni private.

Si ritorna su Via Epomeo che si percorre fino a metà, imboccando poi Via Torre dei Franchi da cui si raggiunge Torre dei Franchi, in condizioni di estremo degrado. Per tale ragione l’interno è inaccessibile.

Raggiungendo l’area del campo sportivo Paradiso, sono i resti di Torre della Lopa, conosciuta anche con il nome di Torre Ciotola. L’edificio è attualmente è abitata da privati per cui non è facilmente accessibile.

Si segue la strada per gli Astroni. La torre di accesso agli Astroni è visitabile all’interno soltanto col permesso da chiedere in loco, ma la si può ammirare dall’esterno.

Lasciata Napoli, ci si porta a Pozzuoli. La visita delle fortificazioni puteolane è purtroppo limitata a visioni dall’esterno. Si può partire dalla stazione della Metropolitana per raggiungere facilmente Villa Avellino, all’interno della quale è Torre Toledo, inaccessibile dal dopoguerra. Dall’ingresso secondario della villa, si può poi scendere verso il porto, raggiungendo la darsena di Via Cavour, all’angolo della quale è ancora possibile scorgere l’unico bastione superstite, sebbene rimaneggiato, del "Castrum Putheolanum". Proseguendo lungo il perimetro del Rione Terra, è possibile osservare dal basso il cosiddetto "castello" del quale, a seguito dei rifacimenti per la trasformazione in abitazione avvenuti nei primi anni del novecento, rimangono soltanto l'arco d'ingresso ed alcune sostruzioni sulla facciata.

Da Pozzuoli si può raggiungere Baia, sede del più famoso castello dei Campi Flegrei, l’unico regolarmente visitabile (dalle ore 9 ad un’ora prima del tramonto, con biglietto di ingresso di 4 euro (ridotto 2 euro); gratuito al di sotto dei 18 anni e al di sopra dei 65). Il castello ospita oggi il Museo Archeologico dei Campi Flegrei ed è in buona parte percorribile. Dal belvedere è possibile scorgere uno stupendo panorama su tutto il golfo di Pozzuoli ed oltre.

Da Baia, attraverso Bacoli, si giunge in breve Miseno. Dell’antico "Castrum Misenati" non avanzano più tracce. Analogamente la torre principale di Miseno è stata distrutta per far posto al faro, mentre alcuni ruderi della Torre Bassa sono visibili percorrendo il sentiero che conduce su Capo Miseno, in proprietà privata (chiedere in loco il permesso di accesso).

Ridiscesi da Miseno, ci si può portare a Torregaveta, dove sono i resti della torre che dà il nome all’abitato attuale. La torre è in proprietà privata e l’accesso viene difficilmente concesso.

Si prosegue per Cuma dove, all’interno del parco archeologico, è possibile visitare i resti dell’antico "Castrum Cumanum" costituiti da tratti delle mura e dai resti di una torre, accanto all'ingresso all'acropoli, che ha inglobato quella preesistente di epoca augustea a seguito del rifacimento operato dal prefetto Flavio Nono Erasto nel 558.

Ritornati a Pozzuoli, attraverso la Via Campana, all’altezza dell’accesso alla Tangenziale seguendo la strada per il Campiglione e poi imboccando un sentiero a destra del centro Nato, si giunge dopo circa un’ora alla vetta di Monte Sant’Angelo alla Corvara dove è l’omonima chiesa, un tempo fortilizio angioino. Per la visita occorre contattare preventivamente la Curia di Pozzuoli. Il sito è raggiungibile anche dalla strada che dalla stazione Metropolitana di Quarto sale al Castagnaro: il percorso è sempre di un’oretta circa.

Proseguendo lungo Via Campana, prima di imboccare la Montagna Spaccata, sulla sinistra, al di sopra della caserma dei carabinieri, si scorgono i resti del "Castrum de Serra", piccolo villaggio medievale del quale restano i ruderi di mura e di una torretta.

Entrati nel cratere di Quarto, all’incrocio si prende la strada per Monterusciello, dove sorge Torre Santa Chiara, eretta a difesa della tenuta ecclesiastica delle clarisse del Monastero di Santa Chiara di Napoli. Essa è attualmente trasformata in casa privata e per visitarla occorre rivolgersi in loco sperando di trovare la comprensione degli abitanti.

Partendo dai Camaldoli, si raggiunge la frazione Torre Caracciolo dove è l’omonima torre, lungo la strada che conduce a Pianura (Via Marano-Pianura). La torre è ancora abitata dai discendenti della famiglia Pignatelli Caracciolo ai quali ci si può rivolgere in loco per l’accesso (non facilmente ottenibile).

Scendendo lungo la strada che dai Camaldoli conduce a Marano, si svolta in Via Pigno dove si trova la casa-torre omonima, in corso di restauro. Continuando a scendere per la strada verso Marano si raggiunge Castello Scilla, purtroppo molto rovinato dai continui abusi edilizi. Si può provare a chiedere in loco la possibilità di accedere almeno al cortile.

Dalla parte opposta di Marano, verso Città Giardino, si può raggiungere la frazione Faragnano dove le omonime masserie - Faragnano di Sopra e Faragnano di Sotto - conservano begli esempi di case-torri. L’accesso è in genere consentito chiedendo direttamente in loco.

Si aggira Marano portandosi sulla strada per San Rocco. Lungo la strada è Masseria Galeota, bell’esempio di casa-torre in condizioni di estremo degrado (non accessibile). Di fronte si accede ad un viottolo che conduce alle masserie Dentice: quella di sotto è un particolare esempio di casa-torre, accessibile facilmente chiedendo il permesso in loco.

Proseguendo lungo Via San Rocco, si giunge alla località Castello Belvedere, dove è l’omonimo edificio, abbastanza conservato considerando che è stato trasformato in abitazione privata. In loco non è difficile ottenere la possibilità di visitare il cortile e qualche interno.

Proseguendo ancora lungo la strada che conduce a Licola, si giunge alla Masseria che comprende Torre San Severino, purtroppo abbastanza rovinata e difficilmente accessibile all’interno. L’esterno è però molto bello e chiaro nella sua struttura.

Infine, seguendo la Domiziana fino a Lago Patria, poco oltre l’incrocio con la Circumvallazione esterna, sul mare, è la ben conservata Torre di Patria, annessa ad una privata abitazione. E’ possibile chiedere ai proprietari, in loco, il permesso di accedere.


Bibliografia

  • Gruppo Archeologico Napoletano (a cura di), Soccavo: masserie, proprietari e contadini in un casale napoletano, Napoli, 2000
  • AA.VV., I Campi Flegrei, un itinerario archeologico, Venezia, 1990
  • Vincenzo Cardone, Nisida, storia di un mito dei Campi Flegrei, Napoli, 1992
  • Rosario Di Bonito, Torri e castelli nei Campi Flegrei, Napoli, 1984
  • Enzo Savanelli, Marano: storia, tradizioni e immagini, Napoli, 1986

 

 

 

   

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