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L'argomento che e' stato on-line fina al 30 Luglio 2002:




Un articolo di Alessandra Retico da 'Repubblica' del 10/1/2002


"A due ore da New York la città utopia dei grandi architetti si chiama Sagaponac, sindaco del progetto il Nobel Meier"



LONG ISLAND

Metti una casa trasparente sporta sull'Atlantico. Attorno, accanto e dentro, il verde, la luce e gli abbagli, le onde azzurre, i riverberi verdi e grigi e bianchi del girare e mutare del sole. Perché non ci sono pareti o ingombri, pochi i mobili e invece pareti di vetro e porte scorrevoli che porteranno in casa il paesaggio, quello di fuori, della luce, del mare e della sabbia. Benvenuti in una delle case, trentaquattro in totale, che a breve (le prime saranno costruite entro l'anno) fonderanno la città di Sagaponac, Long Island, negli Hamptons, due ore d'auto da New York.
In questi lidi che dal tardo Ottocento sono divenuti meta di vacanza per facoltosi cittadini statunitensi che nei Sessanta hanno visto spuntare pian piano le "summer houses" dal gusto tutto americano, legno bianco, staccionate, vialetti alberati e cespugli eternamente fioriti; che nei Novanta hanno invece assistito al proliferare di megaville (McMansions, come da queste parti chiamano questo gigantismo architettonico) di opinabile gusto ma di indubbia pubblicità di ricchezza, sta per realizzarsi l'utopia architettonica in qualche occasione compiuta - che accomunò Mies Van der Rohe, Frank Lloyd Wright, Le Corbusier e Walter Gropius.
"Less is more" era la poetica di Van der Rohe e l'essenzialità il senso moderno dell'architettura di cui si faceva poeta: per costruire case invisibili, quanto più possibile vicine e comunicanti con l'esterno, immanenti al paesaggio dove sarebbero sorte, anzi quasi semplice "passaggio" verso il paesaggio. "Houses of Sagaponac" è un progetto che nella mente dei suoi ideatori si propone un obiettivo simile: contro le sproporzionate e sproporzionatamente banali e di cattivo gusto ville per ricchi sorte negli Hamptons, le case di Sagaponac avranno misure più modeste (dai 160 ai 320 metri quadrati contro i mille e persino cinquemila metri quadrati di alcune della zona), costi più accessibili (tra i 750 mila e i 2.5 milioni di dollari rispetto agli standard del mercato locale che si aggirano intorno ai 5 milioni di dollari) e una prerogativa: rispettare la fisionomia e il carattere del luogo.
Sagaponac sarà un sobborgo "firmato" nella cui collezione avrà ville prêt-à-porter, case-prodotto col logo inciso di 34 architetti di fama internazionale, scelti e coordinati da un nome che è garanzia di autorevolezza e vendibilità: Richard Meier, vincitore del Nobel dell'architettura, il Pritzker Prize, noto al grande pubblico per aver realizzato il Getty Museum di Los Angeles. Insieme a lui, che negli Hamtons ha costruito nel '67 e nel '69 due case e a Sagaponac ne firmerà una tutta sua, Charles Gwathmey, autore dell'espansione del Guggenheim Museum di New York, scelto da Spielberg come suo personale architetto; Peter Eisenman, firma del Memorial dell'Olocausto a Berlino e di House IV, una serie di case sperimentali progettate tra il '68 e il '78 e mai realizzate; l'ex enfant terribile del Centre Pompidou a Parigi e del Millenium Dome a Londra, Richard Rogers.
Ci saranno anche esordienti, molti dei quali però hanno fatto le scuole da Meier stesso o da quell'altro guru dell'architettura contemporanea che è Frank Gehry. Per tutti indifferentemente, una parcella di 10 mila dollari, più il 15% sui costi di costruzione.
A nominare Meier curatore del progetto, Coco Brown, diventato ex sceneggiatore di Hollywood ed ex produttore di Broadway dopo aver accumulato una fortuna nel mercato immobiliare a Beverly Hills, attività che gli ha permesso di aprire un'impresa in proprio a Manhattan. Considerato da alcuni come un astuto investitore, Brown nel '94 comprò per un milione e seicentomila dollari il chilometro quadrato circa di terreno sul quale nascerà Sagaponac, "città-antidoto - come l'ha definita lo stesso imprenditore - alle MacMansions che stanno sfigurando il paesaggio degli Hamptons creando un disastro finanziario, sociale e artistico".
Anche se eclettica e pluristilistica, libera da qualsiasi vincolo creativo imposto dall'alto e persino da date di consegna dei vari progetti, la squadra di architetti capitanata da Meier condivide un obiettivo: "l'architettura come arte - ha spiegato lo stesso Meier - come arte vicina alla dimensione umana e al nostro tempo".
I progetti presentati si somigliano per capacità di non disturbare il paesaggio, di essergli anzi accanto, di mischiarsi ai colori, alle curve e persino al vento dell'Atlantico. Tanto vetro e trasparenze, come nella più grande delle case di Sagaponac, quella progettata da Gisue e Mojgan Hariri, due sorelle iraniane con studio a Manhattan: 350 metri quadrati di vetro e acciaio, due grandi aperture che miscelano bosco e piscina. Pareti trasparenti nella Party House di Lindy Roy, con piscina che allaga il salotto. Somiglia a una delle tipiche villette nella campagna del New England quella di Stephen Kanner, se non fosse che al posto del legno qui è tutto un incrocio di vetrate. Il vecchio caro legno delle casette d'un tempo rimane, ma solo come memoria e citazione: vedi il progetto di Richard Glukman dove una "U" appunto di legno fa da scheletro mobile alle trasparenze delle pareti. Persino il granaio trovi, ma sopra ci corre un ponte di cristallo che unisce stanze con vertigini su giardino, piscina e mare: Stanley Allen. Ancora, la tipica casetta made in Usa a due piani: l'unico particolare, nel progetto di Henry Smith Miller e Laurie Hawkinson, è che il secondo si erge su un primo che è giardino. La pesantezza e l'enormità, le Torri Gemelle insegnano, non sono indice di potenza e tranquillità. E "less is more", ancora.

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