COMMERCIO INTERNAZIONALE E NUOVE FORME DI INTERVENTO

dossier a cura dell'Associazione Ricerche Sette Nani - promosso dal CTM di Bolzano

versione provvisoria - primavera 1992


CASE STUDY: PROMOZIONE E COMMERCIALIZZAZIONE DEL CAFFÈ

Marco Saladini

1. Produzione mondiale

La produzione mondiale di caffè ha subìto notevoli oscillazioni nel corso degli ultimi anni, attestandosi su una media, nei sei raccolti fra l'84 e il '90, di 5.480.040 tonnellate. In testa alla classifica dei produttori della stagione 1989/90 c'è il Brasile, seguito dalla Colombia e, a molte lunghezze di distanza, da Indonesia, Messico, Costa d'Avorio e Guatemala (v. tabella 1). Visto che le aree di produzione si trovano tutte, senza eccezioni, in paesi più o meno in via di sviluppo, si può dire senz'altro che il caffè è una delle merci "coloniali" per eccellenza; in più, il grosso della produzione viene esportato verso il nord del mondo, Giappone e URSS compresi.

Non tutti i caffè sono uguali: nei colombiani "dolci" della famiglia dell'"Arabica" è contenuta meno caffeina che in quelli dell'altra principale varietà, la "Robusta"; inoltre il sapore dei primi è meno amaro. Anche per questo il consumo mondiale va orientandosi sempre più verso di essi, eccezion fatta per gli Usa, dove si beve perlopiù caffè solubile prodotto appunto con grani di Robusta (Oxfam, 1990).
 

2. Dati generali sulla produzione in Brasile

Scenderemo ora in dettagli circa la produzione e, in seguito, il commercio estero del Brasile, il paese che abbiamo scelto per raccontare il viaggio del caffè dai campi alle nostre "moka".

Nella vastissima repubblica sudamericana si coltiva Arabica per l'87% e Robusta per il restante 13%. Osservando la serie storica della produzione brasiliana si può notare che le quantità raccolte restano sostanzialmente stabili tra il 1940 e il 1956, anno dopo il quale si verifica un consistente aumento. La produzione media del quinquennio 1959 - 1964 è di 1.986.000 tonnellate, con un picco, nella stagione 1959/60, di 2.376.000 tonnellate: si tratta di record mai più raggiunti in seguito. Negli anni successivi e fino a oggi, a causa anche delle più frequenti e dannose gelate, si registrano medie annuali comprese tra 1,2 e 1,4 milioni di tonnellate. Al giorno d'oggi, secondo stime di organi di stampa, i lavoratori impiegati nel settore sono circa sette milioni (Gazeta mercantil 14/2/91).

Variabile è la quantità di piante messe a coltura, con tendenza a una lenta ma costante crescita: il numero di "pès" passa infatti da 2.228.368 nel 1971 a 4.136.817 nel 1990. Di conseguenza anche la produttività assume, sempre secondo le statistiche dell'ormai estinto Istituto brasiliano del caffè (Ibc), un andamento molto irregolare. Il prodotto per pianta varia da 0,649 chili nel 1971/72 a 0,14 nel 1976/77, ma la media dell'ultimo decennio è di 0,424 chili, di poco superiore agli 0,418 chili del decennio precedente. La stazionarietà della produttività media è il netto sintomo di una situazione di ristagno, dovuta a una serie di motivi che vedremo in seguito.

La graduatoria mondiale della produttività vede in testa il Costa Rica, con una media di 1.362 chili di caffè per ha., due volte e mezzo quella del Brasile. I dati statistici nascondono situazioni di agricoltura intensiva, praticata ad esempio nelle fattorie della brasiliana Ipanema Agropecuaria, situata nello stato di Minas Gerais, dove il rendimento medio giunge a 1.800 chili per ettaro. Ma il dato di fondo non cambia: nella stragrande maggioranza dei casi siamo ancora di fronte a un tipo di agricoltura estensiva, con un ampio impiego di manodopera, peraltro sottopagata, e a scarsi investimenti. Le dimensioni delle aziende sono, contrariamente a quel che si potrebbe pensare, perlopiù medie o piccole, ovvero comprese tra i 9 e i 70 ettari.
 

3. L'esportazione

Il Brasile esporta da sempre caffè di tipo "Arabica", anche se negli ultimi anni va prendendo notevolmente piede la coltivazione e l'esportazione di grani di "Robusta" e "Conillon", passati dal 2% del totale esportato nel 1981 all'11,5% nel 1989. La sua posizione sui mercati internazionali è solida, e la distanza tra il volume del suo export e quello del principale avversario, la Colombia, è ancora ampia. Va sottolineato però che, in termini di valore anziché quantitativi, la distanza si riduce, visto il maggior pregio del raccolto colombiano; basti pensare che nel 1988 il prezzo medio di una tonnellata di caffè brasiliano era di $ 2350, $ 530 meno di quello colombiano, ma ancora $ 151 in più della media dell'Africa.

Fino al luglio del 1989 l'oscillazione dei prezzi è stata frenata da un sistema di quote all'esportazione negoziate in seno all'Organizzazione internazionale del caffè (Oic), che riunisce i principali paesi produttori e consumatori. In seguito, una volta scadute e non più rinnovate le clausole economiche dell'accordo, ovvero col crollo del sistema delle quote, si è verificata una brusca caduta dei prezzi, che ha portato il sacco da 60 chili, unità convenzionale in questo mercato, a livelli fra i più bassi degli ultimi 15 anni.

Più in generale, si può dire che l'andamento dei prezzi, in precedenza legato più a fattori climatici e alla qualità del prodotto, visto che l'esportazione in anni "normali" si manteneva relativamente stabile, oggi è più soggetto alla dinamica domanda - offerta. Probabilmente è ancora troppo presto per poter affermare che il nuovo assetto ha definitivamente abbassato i prezzi del prodotto grezzo; al proposito, va citato lo studio, pubblicato nel 1991 dalla britannica Economist Intelligence Unit, in cui si prevede una tendenza al rialzo nell'arco dei prossimi cinque anni, dovuta non a nuove regole Oic, bensì allo sfondamento del muro della produzione, peraltro in declino, da parte della domanda (Le Monde, 24/3/91).

Si può d'altra parte affermare senza tema di smentite che i paesi esportatori, tutti in via di sviluppo, hanno oggi un controllo assai minore che in passato sul mercato, avendo perso uno strumento utile a proteggere, se non giganti come Brasile e Colombia, che si tutelano da sé, perlomeno i produttori africani e asiatici di minore statura.

La dialettica tra Colombia e Brasile si esercita spesso sul tema dell'accordo Oic: i caffeicoltori della prima propendono per una riattivazione delle clausole economiche che quelli del secondo hanno dapprima rifiutato, avendo accantonato scorte che i concorrenti non possiedono e desiderando approfittare del previsto rialzo dei prezzi. Più di recente la posizione degli agricoltori brasiliani circa il ritorno al sistema delle quote si è addolcita.

D'altra parte anche gli importatori e le aziende trasformatrici dei grandi paesi "consumatori" hanno messo da parte consistenti scorte, per un totale di circa un milione di tonnellate, quasi un quinto della produzione mondiale, mettendosi così in grado di sventare sul nascere qualsiasi tentativo di aumento dei prezzi. Tale manovra è stata aiutata dalla contemporanea diminuzione degli stock dei paesi "produttori" nel loro complesso, scesi da 2,838 milioni di tonnellate nel 1989/90 a 1,64 nel 1990/91 (Gazeta mercantil 21 - 23/9/91).

Neanche di fronte a un quadro così allarmante si notano segnali concreti di accordo tra i paesi "produttori" che arginino, limitando l'offerta o con altre misure, la caduta dei prezzi. In effetti, mentre le trattative a livello internazionale fanno registrare un rinvio dopo l'altro, le pagine dedicate alle materie prime nei giornali di economia e finanza riportano sempre più spesso notizie di nuovi record in negativo sui principali mercati mondiali (ad es. da ultimo cfr. Il sole 24 ore, 12/3/91). Dopo l'ennesima ondata di ribassi, il governo brasiliano è intervenuto in chiave dirigista, sospendendo, fra il 23 marzo e il 9 aprile 1991, ogni attività di esportazione del caffè. L'interruzione, se non ha impedito che i prezzi continuassero a scendere, ha però messo in chiaro che il governo mantiene il controllo dell'export assoggettato, a partire dalla ripresa delle consegne, a licenze mensili.

Storicamente è osservabile in Brasile la tendenza a una riduzione del peso delle esportazioni di caffè sul totale. E' del tutto naturale che, costretto dalla pesante situazione di indebitamento all'estero a incentivare con ogni mezzo le esportazioni, il paese abbia puntato sui beni a più alto valore aggiunto prodotti dall'industria manifatturiera piuttosto che su una merce agricola peraltro "perdente", sempre in termini di valore, sui mercati internazionali. Meno naturale è la traiettoria, in ripida picchiata, compiuta dai relativi indicatori, che risentono certo della dinamica sfavorevole dei prezzi del caffè, ma evidenziano comunque una riduzione del suo peso sulla bilancia dei pagamenti del 1989 a un quarto di quello osservato nel 1977.

Il governo brasiliano dal canto suo ha deciso di ritirare il proprio appoggio incondizionato al settore caffeicolo, obbedendo alla stessa logica che ha portato alle attuali massicce privatizzazioni in vari settori industriali. Sono stati eliminati i sussidi statali e è stato smantellato, nella primavera del 1990, l'"Instituto brasileiro do cafè" (Ibc) che, oltre a produrre studi e ricerche economiche e agrarie, aveva come principale compito quello di manovrare gli stock in modo tale da mantenere il prezzo a livelli accettabili. Durante la sua gestione si erano formati enormi ammassi che oggi nessuno osa vendere non solo per timore di un'ulteriore caduta dei prezzi, ma anche per la scarsa qualità del prodotto conservato.

Nel frattempo però gli esportatori - riuniti nella Febec -, i caffeicoltori e i proprietari di aziende di trasformazione hanno fatto pressione, ognuno per sé e tutti insieme attraverso il neonato "Consiglio brasiliano del caffè", affinché lo stato riprenda la politica dei sussidi. La potente lobby ha infine ottenuto, sul finire dell'autunno 1991, finanziamenti per duecento miliardi di lire (al cambio, peraltro solo indicativo, del novembre 1991) e la promessa di una campagna volta a aumentare il consumo interno di caffè.
 

3.1. Cafè do Brasil e tazzine italiane

Nel 1989 il valore delle esportazioni brasiliane di caffè verde verso l'Europa ha toccato il minimo quinquennale, nonostante la quantità sia rimasta sui valori abituali: il sacco è sceso in media a quota 100 dollari. L'Italia è il terzo importatore nel vecchio continente, dopo la Repubblica federale tedesca e la Francia, con 82187,4 tonnellate entrate nei nostri confini nel 1989 e 62.970 nel 1990. Del tutto marginale resta invece l'export di caffè solubile verso il nostro paese, che non è neanche interessato da grandi correnti di commercio di transito: il valore del venduto all'estero dai nostri operatori non superava nell'88 i 65 miliardi di lire attuali, a fronte di importazioni per circa 800 miliardi.

Con l'Italia opera un numero ristretto di aziende esportatrici. Alle prime cinque nel '90 toccava un fatturato di circa il 10% ciascuna, per un totale del 47%; le successive 5 si aggiudicavano invece il 22% della torta, mentre il restante 31% era fornito da un nutrito gruppo di "fazendas", non necessariamente marginali, ma probabilmente solo più fortunate su altri mercati (dati del Dipartimento esportazioni del ministero dell'economia brasiliano).

Un posto di rilievo è occupato, fra gli esportatori che commerciano con l'Italia, dalla cooperativa regionale dei caffeicoltori di Guaxupé (Cooxupé), che riunisce 5.000 piccoli produttori in 48 comuni, negli stati di Minas Gerais e San Paolo. Nel 1990 la Cooxupé deteneva una quota di mercato del 4,5% nel nostro paese.

3.2. La presenza delle aziende italiane in Brasile

Fra i pochissimi investimenti diretti di imprese italiane nel settore caffeicolo del Brasile, risalta la fattoria "Mogno", nello stato di Minas Gerais, di proprietà della Ferruzzi finanziaria. Vi lavorano circa 1000 persone, solo in parte dedite alla coltivazione del caffè, piantato su un migliaio di ettari. Secondo testimoni oculari, le condizioni di lavoro sono simili a quelle delle altre fattorie della zona, mentre dal punto di vista dell'investimento e della tecnologia la "fazenda" Ferruzzi si colloca nettamente al di sopra dello standard brasiliano. Altre aziende italiane presenti nel settore agricolo sono le Partecipazioni statali, la Pirelli, la Star della famiglia monzese Fossati, anche se attraverso la holding svizzera Findim.

Molto recente e ancora in fase di realizzazione è invece un importante investimento in forma di joint - venture tra l'italiana Silocaf, detentrice di una sostanziosa fetta di mercato nel commercio del caffè e di tecnologie avanzate per il trattamento della materia prima, da un lato; e dall'altro la Companhia Vale do Rio Doce, che intende diversificare così le proprie attività e sfruttare gli impianti di trasporto, ora utilizzati solo per l'estrazione e la commercializzazione di minerali, che resta la principale attività del gruppo, il maggiore del Brasile nel settore.

L'impianto, che si prevede entri in funzione nel giugno 1992, costerà 30 miliardi di lire e servirà a separare, pulire, lavare, seccare e brillare i chicchi di caffè, con procedimenti automatici e, a detta delle aziende, in grado di preservare le qualità del prodotto. I sacchi di caffè prenderanno la strada del porto di Tubarao e da lì verranno imbarcati verso Trieste, patria delle due imprese fondatrici della Silocaf, la Finporto e la Pacorini. L'operazione porterà senza dubbio a un rafforzamento dei legami tra imprenditoria italiana e brasiliana del settore; frutterà però al Brasile, in termini di tecnologia, il semplice miglioramento di attività già svolte in loco e non, come sarebbe auspicabile, il consolidamento delle fasi di torrefazione e commercializzazione, saldamente controllate dalle multinazionali alimentari. Si stima che le prime quattro aziende - General Foods, Nestlé, Procter and Gamble e Jacobs - detengano il 40% delle vendite mondiali (Oxfam).
 

4. I riflessi sulla produzione dell'andamento del mercato mondiale del caffè

La crisi delle vendite, provocata come si diceva più sopra non da avvenimenti naturali ma da una serie di fattori di natura economica, ha influenzato in maniera determinante investimenti e modello di produzione del settore caffeicolo: i primi si sono ridotti, il secondo è dunque regredito. Agli inizi del 1990 l'Ibc ha reso noto che il parco caffeicolo brasiliano aveva subìto una perdita assoluta di 184 milioni di piante, pari al 4,3% del totale, mentre la perdita netta - sradicamenti meno nuove messe a dimora - si aggirava intorno ai 102 milioni di alberelli. Secondo il presidente dell'Ibc Jorio Dauster si trattava di normale avvicendamento, anzi la sostituzione delle piante avrebbe favorito un aumento della produttività. Ma Dauster non poteva fare a meno di ricordare che la mancanza di migliorie delle coltivazioni, specialmente nei due anni precedenti, non era affatto un segnale positivo (Gazeta mercantil 13/2/90).

Anche i soci della Cooxupé hanno avuto notevoli problemi a far quadrare i conti nel 1989 - 90, all'indomani della sospensione delle clausole economiche dell'accordo Oic e con l'aggravante del blocco di risorse e sussidi deciso dal governo Collor col piano economico lanciato nel 1990. La maggior parte degli agricoltori, non avendo diversificato le coltivazioni, è ancora strettamente dipendente dall'andamento dei mercati esteri: se, come negli ultimi due anni, i costi fissi superano il ricavato, il ricorso all'indebitamento è indispensabile e si profila la possibilità di chiudere, mentre i rendimenti scendono nettamente per mancanza di investimenti. Insomma, l'attuale congiuntura sta avendo effetti paragonabili, secondo fonti qualificate, alle terribili gelate degli anni 1975 e 1981 e alla siccità del 1985.
 

5. Conclusioni

E' sempre più evidente che ci troviamo, non solo in Brasile ma un po' dappertutto, davanti a una crisi di sovrapproduzione che comporterà una ristrutturazione del settore con forti rischi per i piccoli e medi produttori arretrati dal punto di vista qualitativo e/o non in grado di portare la produttività dei propri campi a livelli ottimali. Mentre non si può escludere che una fascia di produttori si appiattisca su standard qualitativi inadeguati, continuando a percepire prezzi sempre più bassi, deve invece ritenersi più probabile l'espulsione di molti coltivatori dal mercato. Una delle forme di difesa è senz'altro la gestione cooperativa, laddove possibile.

Quello caffeicolo è stato sinora in Brasile un settore protetto da due ombrelli: uno dell'Ibc e l'altro dell'Oic. Nonostante le belle parole del governo Collor in favore del liberismo economico, i fatti lasciano intendere che la protezione governativa non cesserà. Ciò non comporta automaticamente una condizione di arretratezza per insufficienza di competizione, specie in un mercato nato per l'export come quello del caffè: ma il rischio di un andamento piatto della produttività anche in futuro viene a aumentare col crescere del livello di protezione.

La redistribuzione di risorse attuata da una pluralità di paesi industrializzati nella fase del proprio sviluppo economico, dal primario agli altri due settori, sta realizzandosi in modo strisciante anche in Brasile. I rischio è che un paese ampiamente dotato di terre e manodopera, ma indebolito dalla scarsità di valuta estera, dovuta anche al peso del debito estero, non riesca a reggere una simile corsa all'industrializzazione e alla specializzazione produttiva, volgendo così al peggio le condizioni di vita di immense masse di persone. Diversi studi hanno sottolineato che la malnutrizione in Brasile è andata aumentando durante tutto lo scorso decennio. Vi sono dunque fondati dubbi che la negligenza del governo nei confronti dell'agricoltura, e in specie nei confronti dei piccoli e medi produttori, possa portare a uno sviluppo organico del paese basato sull'implicito incentivo, in termini di disoccupati agricoli disponibili e di risorse finanziarie, messo a disposizione di industria e servizi.

In una simile situazione, e fatte le debite proporzioni tra ampiezza dei problemi e mezzi necessari a risolverli, può essere efficacemente studiato un intervento di imprese specializzate in commercio equo e solidale, che troverebbero fra l'altro un terreno socio - culturale vivo e disponibile a iniziative di solidarietà, non solo in virtù della congiuntura economica negativa, ma anche grazie a motivazioni politiche e etiche comuni a europei e brasiliani.
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ultimo aggiornamento: 21 settembre 1997

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