COMMERCIO INTERNAZIONALE E NUOVE FORME DI INTERVENTO

dossier a cura dell'Associazione Ricerche Sette Nani - promosso dal CTM di Bolzano

versione provvisoria - primavera 1992


Pietro Campitelli

IL MERCATO DEL CAFFÉ IN ITALIA

Per trarre possibili indicazioni sullo sviluppo in Italia del commercio alternativo dei prodotti del Terzo Mondo, l'esempio del caffè sembra essere il più opportuno. E ciò sia per l'importanza assunta da tale prodotto nelle abitudini nutrizionali degli Italiani, sia soprattutto per le caratteristiche della domanda e dell'offerta, riscontrabili in molte delle "commodities" alimentari d'importazione, e dunque particolarmente ad hoc per cogliere gli aspetti più significativi del funzionamento dei mercati di generi coloniali nel nostro paese.

Non essendo un paese produttore, l'Italia dipende dall'estero per la fornitura della materia prima, occupando la quinta posizione nella graduatoria mondiale dei principali acquirenti di caffè dietro Stati Uniti, Germania, Francia e Giappone. In particolare, nel 1990 i paesi maggiori produttori ed esportatori verso l'Italia sono stati il Brasile (720.000 quintali, per un valore di 263 miliardi di lire, pari a circa 1/4 del totale), la Costa d'Avorio (426.000 q., pari a 113 miliardi), lo Zaire (377.000 q., pari a 96 miliardi) e la Colombia (112.000 q., pari a 47 miliardi). Fra questi, Brasile e Colombia sono i principali produttori di Arabica (la qualità più pregiata e costosa), mentre la Robusta proviene generalmente dall'Africa e dall'Asia.

Il grafico delle importazioni italiane di caffè presenta un andamento estremamente variabile sia dal punto di vista assoluto (come ultimo dato disponibile, nel 1989 si è registrato un incremento annuo del 4,2%, su un totale di 2,7 milioni di quintali importati), sia dal punto di vista delle quote relative agli acquisti dai paesi esportatori. Il fenomeno è spiegabile con le caratteristiche dei PVS produttori, in costanti condizioni di instabilità economica e politica che si ripercuotono sulle loro esportazioni di caffè crudo, spesso al primo posto fra le voci di entrata; la produzione risulta poi assai incerta a causa delle cangianti condizioni atmosferiche, che possono provocare la ricchezza o il fallimento di una miriade di piccoli coltivatori, e al tempo stesso contribuiscono a mutare il prezzo all'origine.

A questi rischi derivanti dalla variabilità dei rifornimenti (che contrasta, come vedremo, con l'andamento piuttosto regolare dei consumi), i torrefattori italiani reagiscono con adeguate politiche delle scorte, tendenti ad evitare, per quanto possibile, le conseguenze negative di eccessive oscillazioni dei prezzi sui mercati internazionali. Al riguardo, peraltro, occorre dire che attualmente non è più in vigore l'International coffee agreement (Inca), ovvero un accordo fra i produttori che, regolamentando il prezzo del caffè, ne contingentava l'offerta in base all'andamento della domanda mondiale. La liberalizzazione dei prezzi, nonostante la recente ripresa della richiesta internazionale, ha fatto sì che negli ultimi anni, vista l'abbondanza dei raccolti, le quotazioni del caffè siano sprofondate anche del 400%, con un collasso delle entrate finanziarie dei paesi produttori.

Così le importazioni italiane hanno potuto beneficiare della diminuzione dei prezzi all'origine, ulteriormente ribassati nel primo bimestre del 1991 fino a 2250 lire al kg.. A tale risultato, inoltre, ha contribuito anche il calo delle quotazioni del dollaro, valuta utilizzata per il fixing del caffè nelle borse merci a livello internazionale, ed il cui tasso di cambio costituisce pertanto un altro fattore di rischio.

Da questo quadro, dunque, considerati i molteplici elementi d'incertezza, si percepisce la difficoltà di conseguire una consistente penetrazione sul mercato italiano da parte di organizzazioni alternative quale la rete del commercio equo e solidale. Ancor più tenendo conto della sempre maggiore concentrazione dell'offerta nel settore, laddove predominano grandi strutture che basano la propria competitività sull'efficienza dei canali distributivi e su massicci investimenti promozionali.

Nell'ambito del territorio nazionale sono presenti circa 750 torrefattori, trattandosi per lo più di aziende a conduzione familiare di limitate dimensioni ed a carattere locale. Il fenomeno della concentrazione dell'offerta di caffè in Italia appare però subito evidente considerando che nel 1990 le prime cinque aziende (nell'ordine: Lavazza, Consorzio Sao Cafè, Segafredo, Procter & Gamble e Illycaffè) detenevano circa il 75% dell'intero giro d'affari (intorno ai 2000 miliardi di lire), e che l'alta parcellizzazione dei produttori risultava assai ridimensionata rispetto all'inizio degli anni '80 (quando erano circa 3000 le aziende operanti sul territorio).

Le piccole e medie torrefazioni, dislocate in massima parte nel Meridione, si servono per la distribuzione di un numero esiguo di agenti, spesso plurimandatari, che comunque operano in un'area molto ristretta, se non a livello regionale. Le grandi torrefazioni, invece, appaiono fortemente orientate al mercato, e ad un rapporto privilegiato con la distribuzione uniscono gli ingenti mezzi utilizzati per la promozione e la pubblicità (soprattutto televisiva) al fine di meglio colpire il target nazionale, particolarmente sensibile a questo tipo di messaggi.

L'importanza strategica della distribuzione e della promozione, evidenti barriere all'entrata per chiunque voglia intraprendere un discorso di espansione a livello nazionale privo delle risorse organizzative e finanziarie proprie dei maggiori gruppi, è accentuata dalla "maturità avanzata" raggiunta dal mercato italiano dal punto di vista della domanda. Infatti, ormai ben il 94% degli Italiani compresi tra i 15 e i 64 anni risulta consumatore di caffè (ed il 92% almeno una volta al giorno), per un consumo pro capite annuo di 4,4 kg..

Con una domanda sostanzialmente statica, dunque, è obiettivo delle aziende del settore consolidare la fedeltà alla marca di chi già consuma il prodotto, ed eventualmente sottrarre quote di mercato ai diretti concorrenti con politiche aggressive. Ecco quindi spiegati gli ingenti investimenti pubblicitari delle imprese leaders (170 miliardi di lire nel 1989, pari a circa l'8% del fatturato settoriale), nonché la tendenza ad una certa diversificazione dei marchi e dei prodotti offerti nell'ambito di una strategia "marketing oriented".

Essendo chiaro che le strutture alternative come il commercio equo e solidale non potranno mai competere con i market-leaders dal punto di vista delle spese pubblicitarie, conviene dunque analizzare meglio la struttura distributiva del mercato per cercare di individuare possibili spazi di penetrazione. Prima di ciò, occorre però precisare che l'obiettivo preliminare per i piccoli coltivatori di caffè del Terzo Mondo e per le organizzazioni ad essi collegate dovrà essere quello di riuscire ad accrescere la forza contrattuale nei riguardi degli importatori. In linea di massima, questi si possono suddividere in tre tipologie:

- i grandi torrefattori industriali, alcuni dei quali importano direttamente dai paesi d'origine per acquisire margini più ampi e garantirsi un approvvigionamento regolare;

- i brokers e gli agenti di società commerciali dei paesi produttori, veri e propri intermediari che svolgono anche attività di consulenza;

- gli agenti importatori, che importano il caffè crudo per rivenderlo direttamente a piccoli e medi torrefattori.

Tutti attori di un meccanismo che, in un modo o nell'altro, finisce per favorire le grandi società nazionali e multinazionali a scapito dei produttori diretti, tenuto conto, inoltre, della sempre minore incidenza (attualmente, circa 3/5) del costo della materia prima sul costo totale grazie alle innovazioni tecnologiche nei processi produttivi e nel confezionamento.

I canali di vendita utilizzati dagli operatori del settore sono essenzialmente: l'alimentare (68%), il bar e/o punto di degustazione (21%), il catering (distributori automatici, mense aziendali, caserme, ecc., 7%) e il non alimentare (4%, cfr. Fig. 1). Fra questi, almeno in una prima fase, solamente il canale alimentare sembra essere accessibile alle organizzazioni del commercio alternativo.

Infatti, escluso il non alimentare per la sua scarsa importanza, nonché il catering per problemi di carattere organizzativo-imprenditoriale, anche il canale bar appare difficilmente penetrabile, per la difficoltà del consumatore ad identificare una nuova miscela e, in special modo, per la particolarità del rapporto con il fornitore. La leadership è largamente nelle mani delle grandi aziende, poiché l'utilizzo di questo canale richiede una forza vendita distribuita in modo capillare sul territorio e visite con frequenza settimanale agli esercenti; i quali, sempre più "corteggiati", richiedono spesso "benefits" quali l'installazione gratuita dei macchinari, le tazzine con il logo della torrefazione, sino a giungere a forme di finanziamento agevolato. Solo le grandi torrefazioni possono permettersi tali investimenti, che risultano tuttavia premianti nel lungo periodo.

Considerando allora il canale alimentare, che monopolizza quasi i 2/3 del totale del prodotto commercializzato, si hanno essenzialmente tre forme di distribuzione: il negozio alimentare specializzato e la grande distribuzione moderna, preferiti dalle torrefazioni maggiori, e i punti vendita del dettaglio tradizionale, in cui è presente gran parte delle piccole aziende (cfr. Tab. 1).

É evidente che solo i maggiori produttori hanno il potere contrattuale necessario per garantire alla grande distribuzione un'elevata rotazione della merce, una consegna frequente e puntuale su tutto il territorio nazionale (tramite proprie reti di vendita o, seguendo l'attuale tendenza, attraverso i canali indiretti), e spesso l'allestimento di stands promozionali e di differenti azioni di "merchandising". Ormai il supermercato rappresenta il canale d'acquisto preferito dai consumatori (44% del totale), e per le organizzazioni minori l'unica via possibile di penetrazione in questa moderna forma di distribuzione potrebbe essere la costituzione di consorzi che sfruttino un unico marchio, anche per poter usufruire di sinergie tali da permettere forti investimenti promozionali e pubblicitari.

Negli ultimi anni, poi, è sempre più frequente la commercializzazione dei propri marchi da parte di molte catene di supermercati (ad es. Esselunga e Coop) che puntano sul contenimento dei prezzi di vendita quale fattore di successo (il ricarico della grande distribuzione è del 10-15% rispetto al prezzo del grossista, ed è inferiore di circa 5 punti a quello praticato dai dettaglianti). Proprio questa commercializzazione del marchio all'interno dei supermercati, evitando così gli oneri derivanti dall'organizzazione di una rete distributiva, potrebbe costituire una delle strategie di successo del commercio equo e solidale; magari realizzando una serie di cooperative, o alleandosi con le grandi torrefazioni che vogliano perseguire un'accentuata diversificazione del prodotto utilizzando il "marchio Terzo Mondo".

Altrimenti, puntando su una miscela migliore rispetto alla media, potrebbero emergere buone prospettive dalla commercializzazione nei negozi specializzati, il cui numero è in costante aumento, e dove la clientela (principalmente di ceto e reddito medio-alto) è disposta a spendere una cifra più elevata pur di gustare un caffè di qualità superiore. È però vero che tale strategia necessiterebbe di un adeguato supporto pubblicitario (vedi il caso della Illycaffè), ché al contrario il successo rimarrebbe circoscritto a pochi consumatori sofisticati.

Paradossalmente, se non su scala ridotta, sembra invece molto più problematica la penetrazione dei mercati locali attraverso la distribuzione nei punti vendita del dettaglio tradizionale. E ciò in quanto, soprattutto nel Sud Italia, le piccole torrefazioni, puntando sul contenimento dei costi e sull'elevata qualità, sono riuscite ad assicurarsi nell'ambito locale (provinciale e regionale) notevoli livelli di vendita e di diffusione territoriale, che rappresentano una sorta di barriera all'entrata nelle aree "controllate" difficilmente valicabile perfino dalle leaders.

Analizzando meglio le caratteristiche della domanda, bisogna comunque sottolineare che, a fronte di un andamento assoluto piuttosto stabile (con una crescita media annua mai superiore all'1%), si ha d'altro canto una certa variabilità per quanto concerne la scelta dello specifico prodotto. Più precisamente, da recenti indagini di mercato risulta che, accanto ad un'abitudinarietà nel consumo ormai consolidata, esiste una sostanziale infedeltà alla marca da parte del consumatore italiano di caffè; ciò che lascerebbe aperte buone possibilità all'introduzione sul mercato dei prodotti del commercio equo e solidale, sempre se validamente supportati (per es., con pochi ma mirati investimenti pubblicitari sulle televisioni commerciali a carattere locale).

Sembra al contrario difficile poter prevedere un'impennata significativa della domanda totale, per poi riuscire a sfruttare eventuali nuovi spazi di mercato. Sia perché, come visto, il ciclo di vita del caffè non decaffeinato è giunto nella fase di maturità avanzata, sia perché in Italia non sembrano imminenti nel breve periodo nuove tipologie di consumo (vedi ad esempio il caffè "lungo", bevanda tipica degli altri paesi occidentali).

Negli ultimi tempi, sull'onda delle mode salutiste (non si deve dimenticare che la caffeina, se ingerita in gran quantità, è dannosa per l'organismo), è notevolmente aumentata la richiesta di caffè decaffeinato (ora pari al 3% del mercato). Peraltro, questa tendenza potrà favorire solamente le grandi aziende detentrici delle necessarie tecnologie (in Italia, la Crippa & Berger è in posizione di quasi monopolio con il marchio Hag), ancor più in caso di successo del nuovo caffè cosiddetto "decerato" (cioè ad alta tollerabilità gastrica, anche se non decaffeinato).

Stesso discorso, infine, riguardo alla diffusione del caffè solubile istantaneo, che oggi copre l'1% della domanda italiana, ed il cui monopolio è detenuto dalla multinazionale Nestlè attraverso il marchio Nescafè (cfr. Fig. 2). Al limite le organizzazioni alternative potranno in futuro commercializzare caffè decaffeinato o istantaneo servendosi di industrie che producano per conto terzi, ma rimanendo in tal modo evidentemente subordinate

Insomma, concludendo, almeno per ora in Italia sembrano essere abbastanza ridotti gli spazi in cui innestare una struttura capillare di commercio alternativo del caffè. D'altronde, appare quantomai opportuno continuare nell'opera intrapresa, anche alla luce di alcuni segnali positivi. Non bisogna ad esempio dimenticare la sempre maggiore domanda di qualità da parte dei consumatori, che oltretutto potrebbero essere ulteriormente invogliati attraverso adeguate campagne di sensibilizzazione ed informazione sui problemi dei coltivatori del Terzo Mondo.

FONTI BIBLIOGRAFICHE
 

- "Databank", dicembre 1989

- "Largo consumo", gennaio 1991

- "Il giornale", 21 ottobre 1991

- "Qualità", ottobre 1991

- "Pianeta caffè", trimestrale, dal settembre 1991
 
 
 
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ultimo aggiornamento: 21 settembre 1997

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