SBOBINATURA INTERVENTI SEMINARIO ARSENA SU COOPERAZIONE MULTILATERALE

Roma, Università La Sapienza 15.4.94

Prefazione

Il seminario nasce da un lato dalla necessità di approfondire la conoscenza di una tipologia di cooperazione, quella multilaterale, della quale si parla poco e spesso in modo frammentario; dall'altro dal bisogno di giungere a un contatto più immediato e ricco con la FAO, l'agenzia dell'ONU per l'alimentazione e l'agricoltura, basata a Roma e proiettata, come è ovvio, nei paesi in via di sviluppo (PVS).

L'iniziativa si svolge il 15.4.94, nell'arco di una giornata e nei locali della Facoltà di Economia e Commercio dell'Università di Roma "La Sapienza".

L'Associazione ricerche sette nani (ARSENA) annovera al proprio interno alcuni esperti in materia di cooperazione allo sviluppo; sono loro a fornire, nel corso della mattinata, il quadro della situazione, sotto il duplice profilo qualitativo e quantitativo, con particolare riferimento alla posizione dell'Italia nel contesto della cooperazione multilaterale. Due esperti indipendenti di cooperazione allo sviluppo, uno della FAO e un funzionario del Ministero degli affari esteri vengono invitati per spiegare l'attività delle organizzazioni di appartenenza e il loro punto di vista sull'evoluzione recente e sulle scelte del nostro paese in materia.

Nel corso del pomeriggio si offre ai partecipanti al seminario un approfondimento circa i progetti di cooperazione allo sviluppo messi in atto dalle agenzie delle Nazioni unite. In altri termini si intende, attraverso un esempio concreto e alcune nozioni di carattere generale, trasmettere alla platea una conoscenza più precisa circa l'ideazione, la stesura, la realizzazione e la valutazione dei risultati di un progetto di cooperazione allo sviluppo multilaterale. Ciò viene fatto con l'aiuto di un esperto della FAO.

Una parziale sbobinatura degli interventi del seminario viene ora messa on - line, nella certezza che possa costituire una risorsa utile per molti, nonché una base di discussione.

Gli interventi non sono stati sottoposti a revisione degli autori.

Per commenti e approfondimenti, e-mail a

Marco Zupi

Cos'è ARSENA

A.R.SE.NA (Associazione ricerche sette nani) si è costituita a Roma nel gennaio 1993, per iniziativa congiunta di giovani laureati in discipline economico - internazionali, sociali e dello sviluppo che già operavano sul territorio, e all'Università in particolare, dal 1989.

L'Associazione è nata in risposta all'esigenza di costituire un punto d'incontro per il dibattito culturale - scientifico fra tutti coloro (università, scuola, ONG, enti locali, associazionismo, fondazioni) che operano e fanno ricerca nel campo delle molteplici problematiche che riguardano i paesi in via di sviluppo e gli "equilibri" che regolano i rapporti nord - sud.

L'Associazione si è impegnata a realizzare ricerche, convegni, seminari, formazione interna ed esterna per svolgere un'azione di sensibilizzazione e di collegamento fra le iniziative scientifiche, universitarie e la società civile.

Interventi contenuti nel file:

1) "Le politiche di cooperazione allo sviluppo della CEE: un approccio davvero efficace ed efficiente ?"

prof. Gervasio Antonelli

docente di Economia e politica agraria all'Università di Urbino

2) "L'attività della FAO negli anni '90 e l'apporto dell'Italia"

Maurizio Malogioglio, Senior programme officer FAO

3) "Gli orientamenti dell'Italia circa la cooperazione multilaterale. La collaborazione con la FAO"

Laura De Clementi, funzionario della Direzione generale cooperazione allo sviluppo del Ministero Affari Esteri

4) "Quale ruolo per le ONG nel multilaterale?"

Gildo Baraldi, presidente COCIS

"Le politiche di cooperazione allo sviluppo della CEE: un approccio davvero efficace ed efficiente ?"

prof. Gervasio Antonelli

docente di Economia e politica agraria all'Università di Urbino

Ringrazio l'Associazione per l'invito che mi ha rivolto e che ho accettato con entusiasmo perché sono molto interessato a parlare di questi temi, che peraltro conosco da studioso e non da addetto ai lavori. In proposito ho appena ultimato la stesura, insieme alla Prof. Elisabetta Basile, di un libro di prossima pubblicazione presso Franco Angeli sulla cooperazione allo sviluppo (uscito nella primavera 1995, N.d.R.).

Io credo che in Italia ci sia bisogno di un maggiore coinvolgimento degli studiosi sui problemi della cooperazione e dello sviluppo. Rispetto agli altri paesi, infatti, scontiamo un ritardo storico, che non siamo riusciti a colmare nemmeno durante gli anni '80, quando il forte impegno dell'Italia nella cooperazione internazionale aveva creato delle premesse storiche importantissime per un coinvolgimento anche degli studiosi. Purtroppo, e questa è una mia personale impressione, la Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo del Ministero affari esteri ha agito come un organismo a sé, chiuso. Le recenti inchieste giudiziaria e parlamentare sulla cooperazione offrono la conferma del fatto che la DGCS è stato un organismo privato che non ha consentito un rapporto dialettico col mondo universitario e della ricerca. Gli studiosi sono rimasti molto isolati anche quando l'Italia è diventato un importante paese donatore.

Premesso questo, vorrei entrare nel merito del tema che mi è stato assegnato e che ritengo sia un argomento molto ambizioso nel titolo - perché è molto difficile tentare analisi dell'efficacia e dell'efficienza dell'intervento della cooperazione allo sviluppo - e nella pretesa di trattarlo in modo generale. Più semplice sarebbe tentare delle analisi a livello più specifico di paese e infatti in quest'ottica sono stati pubblicati diversi contributi nei quali si cerca di dare una valutazione.

Permettetemi però di fare alcune considerazioni generali che, in parte, ne richiamano alcune già sollevate da Campitelli nell'intervento precedente e che servono per inquadrare meglio l'aspetto specifico di questo intervento. Vorrei soffermarmi dapprima sul tipo di approccio seguito sinora nell'affrontare il tema della cooperazione allo sviluppo. Se noi guardiamo alla letteratura pubblicata dagli anni '80 ad oggi, vi sono tre tipi di approcci sostanzialmente seguiti.

1) L'approccio che raccoglie più consensi, e che è più interessante dal punto di vista dei paesi donatori, è quello che guarda alle dinamiche dell'aiuto. Campitelli ci ha dato alcune indicazioni relative all'ammontare degli aiuti negli anni '90 - '91. Attraverso l'analisi dei flussi d'aiuto si cerca di individuare quali sono i fattori sociali, strategici, economici e politici che poi determinano l'ammontare dei flussi stessi. Nell'arco di tempo che abbiamo preso in considerazione, dal 1975 al 1991, si è rilevato l'andamento dei trasferimenti complessivi dal Nord al Sud e come, al loro interno, si sia mosso l'aiuto pubblico allo sviluppo. Quest'ultimo sostanzialmente rimane stabile negli anni '80, dopo una significativa crescita negli anni '70, nonostante la netta diminuzione di risorse affluite nei PVS, in ragione della crisi debitoria. Inoltre, entrando più nello specifico dell'atteggiamento dei donatori, si è avuto un riposizionamento di diversi di essi in materia di aiuti e di dinamica generale dello sviluppo. Si è fortemente ridimensionato il ruolo degli Stati Uniti, a favore di un accrescimento di quelli del Giappone e dell'Italia. I paesi del Nord-Europa hanno sostanzialmente e continuamente aumentato il proprio impegno in materia di cooperazione allo sviluppo: qui l'aiuto è una costante. Poi ci sono i grandi paesi tradizionalmente donatori, come Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Australia, Belgio, Olanda, paesi con tradizioni coloniali che hanno ridotto i loro impegni in termini relativi. Infine alcuni paesi, come Italia e Germania, hanno fatto registrare un impegno discontinuo che riflette la congiuntura interna dell'economia e della politica.

2) L'approccio che cerca di individuare i criteri in base ai quali l'aiuto viene concesso è un filone d'analisi che evidenzia, sulla scorta delle esperienze recenti, due grandi modelli: il modello dei bisogni dei riceventi e il modello degli interessi del paese donatore. Il primo modello individua un legame tra bisogni del paese e aiuto, indipendentemente dagli interessi del donatore, che invece vengono analizzati dal secondo modello come motivazioni dell'aiuto (ad es. umanitarie, commerciali, politiche, militari...). Dagli studi compiuti emergerebbe che l'aiuto multilaterale è meglio classificabile all'interno del primo modello - come diceva Campitelli -, mentre gli aiuti bilaterali si inquadrerebbero nell'approccio incentrato sulle motivazioni dei donatori.

In uno studio compiuto da Bellucci, Sernia e Paoncello nel 1991, vengono messe a confronto le esperienze di Francia e Svezia. Vi si evidenziano le differenze tra due approcci bilaterali; quello della Svezia è assimilabile ad un approccio multilaterale, perché la tipologia dell'aiuto riflette assai bene il modello dei bisogni del ricevente, mentre la Francia ha un approccio spiegabile sulla base delle strategie del donatore.

3) L'approccio basato sulla valutazione del progetto all'interno del paese ricevente è un filone d'analisi relativamente recente sul quale va concentrandosi gran parte degli sforzi. Esso studia l'efficacia dell'aiuto e il suo impatto sullo sviluppo, valutabile in termini di effetti, diretti e indiretti. Avere una misurazione dell'impatto degli aiuti risponde ai bisogni e dei donatori e dei riceventi. La stessa OCSE, nel 1986, aveva pubblicato un volume sui metodi e le procedure per la valutazione dell'aiuto. Diversi altri lavori sono poi seguiti: Cassen scrisse nel 1987 il libro "Does Aid Work?", la Banca Mondiale nel 1991 ha pubblicato un volume a cura di Uma Lele, che riporta esperienze di aiuto allo sviluppo, da parte di diversi paesi del Nord nei confronti di sei paesi africani (Camerun, Malawi, Kenya, Tanzania, Senegal, Nigeria). Vi sono ancora molti altri contributi che cercano di dare una risposta al quesito che ci eravamo posti all'inizio, se l'aiuto sia efficace per il paese ricevente.

Il quadro che emerge da tali lavori non è incoraggiante, e l'impatto degli aiuti sui paesi riceventi è giudicato poco significativo in termini complessivi. Il che è tanto più grave oggi, quando, dinanzi ad una sostanziale stabilità dei flussi di aiuti nel corso degli anni '80, è aumentato il numero dei paesi bisognosi d'aiuto. La crisi in particolare dei paesi dell'Est europeo ha posto in rilievo il problema di paesi che non sono in via di sviluppo e che pure richiedono aiuti alla comunità internazionale. E ciò ha sollevato serie preoccupazioni tra i PVS. In occasione del rinnovo della IV Convenzione di Lomè tra CEE e 69 PVS è emerso il timore che questi, tradizionali beneficiari degli aiuti occidentali, potessero perdere il rapporto privilegiato fino ad allora mantenuto, a favore di paesi ex - socialisti più legati, per ragioni storiche, culturali oltreché geografiche, ai paesi donatori. E' ancora più importante dunque avere una strumentazione per la valutazione dell'efficacia degli interventi d'aiuto, per razionalizzare una disponibilità finanziaria che, in ragione di vincoli di bilancio dei maggiori paesi donatori, va assottigliandosi.

L'analisi di tipo descrittivo per la valutazione degli aiuti si può affiancare ad un'analisi più "accademica" che abbia dei modelli teorici di riferimento. L'unico modello teorico di riferimento adottato finora per la valutazione degli aiuti è il modello "a due gap" di Chenery e Stood, che considera l'aiuto come la componente estera del risparmio e rimanda al modello di Harrod - Domar, dove il risparmio ha un ruolo essenziale per lo sviluppo. Molti contributi sono poi intervenuti a cercare di chiarire se il flusso di aiuti inteso come risparmio estero spiazzasse o meno il risparmio interno, andando a finanziare consumi improduttivi (compreso l'acquisto di armi) anziché investimenti. Il quadro finale non è incoraggiante nemmeno seguendo questo approccio.

Una contraddizione emerge proprio confrontando il quadro macroeconomico, sulla base ad esempio dell'impostazione di Harrod - Domar, con l'analisi che viene fatta, a cominciare dalle agenzie internazionali, sulle microrealizzazioni, sui singoli progetti: il tasso di rendimento interno - cioè la produttività - del microprogetto non ha ripercussioni significative sul piano macroeconomico. Le ipotesi suggerite per spiegare questo apparente paradosso si richiamano alle differenti procedure di valutazione del progetto e dell'impatto macroeconomico, che fra l'altro prendono in considerazione variabili diverse. Inoltre si fa notare che a volte la struttura economica non è tanto flessibile da consentire la traslazione dei benefici dal micro al macro; o l'aiuto non viene fornito dai paesi donatori in modo da poter avere un impatto sull'intera economia; infine, il più delle volte esso viene usato per altri scopi. Si potrebbe insomma arrivare a mettere in discussione la validità dei processi con i quali vengono costruiti i singoli progetti.

Utilizzando i dati disponibili per 49 paesi beneficiari, nel libro di prossima pubblicazione cui accennavo in precedenza, si è cercato di fare una valutazione complessiva.

C'è una differenza tra aiuto multilaterale e aiuto bilaterale, anche sulla scorta di un'analisi quantitativa che abbiamo compiuto. L'aiuto multilaterale si orienta di più verso i paesi maggiormente bisognosi, il contrario avviene per l'aiuto bilaterale. La valutazione ex - post interessante è che non c'è nessuna correlazione fra l'allocazione dell'aiuto bilaterale da parte dei paesi donatori e gli squilibri macroeconomici dei paesi riceventi. Si vede insomma che l'aiuto bilaterale segue delle direzioni non correlate con i bisogni e si conferma il modello della prevalenza dell'interesse del paese donatore. In sostanza quello che viene fuori, in termini molto schematici, è che l'aiuto è stato un puntello dell'economia di molti paesi ma non uno strumento efficace per lo sviluppo.

Vorrei ora venire al tema principale del mio intervento, al quale ho ritenuto di dover premettere questo quadro generale: la CEE come paese o agenzia donatore.

Il volume di aiuti non è irrilevante. Nella tab. 3 si vede che l'insieme di CEE e paesi membri fornisce il 43% dell'aiuto mondiale (media 90 - 91), contro il 18 o 18,5% degli USA e il 15,8% del Giappone: quasi la metà dell'aiuto allo sviluppo destinato ai paesi sottosviluppati. Come si ripartisce questo aiuto? Mi sembra che Campitelli facesse prima alcune valutazioni e parlando dell'aiuto bilaterale dicesse che gran parte dell'aiuto bilaterale è rivolto verso i paesi dell'Africa sub - sahariana. Se noi consideriamo l'allocazione dell'aiuto della CEE, vediamo che la CEE ha come area prediletta proprio i paesi dell'Africa sub - sahariana.

La tab. 4 riporta la ripartizione degli aiuti dei singoli paesi fornitori per grandi aree geografiche. Come vedete il 50% dell'aiuto della Comunità economica europea compreso quello dei suoi stati membri, va ai paesi dell'Africa sub - sahariana.

Nella tab. 5 ho riportato l'indice di preferenza geografica, ovvero il rapporto tra l'aiuto fornito dal paese o dall'agenzia multilaterale (es. CEE) e la percentuale dell'aiuto mondiale destinata alla stessa area. Anche questi dati evidenziano la preferenza geografica della CEE verso l'Africa sub - sahariana.

Questo perché la CEE aveva un debito con quest'area. Non solo i singoli paesi, i più importanti dal punto di vista degli aiuti bilaterali all'interno della CEE hanno con i paesi africani dei legami storici (soprattutto l'Olanda, il Belgio, la Germania, l'Italia) risalenti al passato coloniale. Tali legami hanno influenzato, al momento del Trattato di Roma nel 1957, l'impostazione data dalla CEE alla sua cooperazione allo sviluppo come entità sovranazionale.

La cooperazione allo sviluppo della CEE nasce con il Trattato di Roma del 1957, come una sanatoria del passato coloniale. E' una "misura transitoria" che si concretizza in alcuni accordi privilegiati con i paesi colonizzati dai membri della CEE ed è richiesta da alcuni paesi, in particolare la Francia, che ad essa aveva subordinato la propria adesione alla CEE. Da quella sanatoria c'è stata poi una grande evoluzione, soprattutto negli anni settanta, con la prima Convenzione di Lomè. Siamo passati dall'associazione dei paesi e territori d'oltremare prevista dal Trattato di Roma alla prima Convenzione di Lomè nel 1975 nella quale il numero di paesi che entra a far parte del rapporto di cooperazione privilegiato con la CEE aumentava notevolmente. Infatti nel frattempo, con l'ingresso nella CEE del Regno Unito è stata data la possibilità anche ai paesi ex - coloniali, come quelli del Commonwealth creato dal Regno Unito stesso, di entrare a far parte dell'accordo.

La tabella 6 mostra come dal Trattato di Roma in poi sono aumentati gli aiuti allo sviluppo della Comunità, sia in termini complessivi sia pro - capite, in termini nominali e reali.

Perché questa preferenza della CEE verso i paesi africani? Io non credo perché questi paesi siano più bisognosi. Il motivo è che riflettono quel passato storico che la CEE stessa ha poi sancito nella propria cooperazione allo sviluppo. C'è stata un'assunzione di responsabilità da parte della CEE del trascorso coloniale dei paesi che ne facevano parte.

Il problema dell'efficacia degli aiuti è stato preso in esame dalla CEE solo a metà degli anni ottanta, con la terza Convenzione di Lomè. Il problema viene affrontato sostanzialmente in termini di accordi politici; la CEE instaura con i paesi firmatari della Convenzione di Lomè un rapporto di dialogo in base al quale il paese ricevente, attraverso un processo molto complicato di programmazione, dovrebbe consentire la finalizzazione dell'aiuto e una sua forte concentrazione su alcuni settori strategici. Una condizione dell'efficacia diventa quindi la maggiore concentrazione dell'aiuto, specialmente nel settore agricolo che è il più bisognoso.

Nel frattempo esplodono i grandi deficit alimentari dell'Africa, che diventano un motivo di preoccupazione per l'opinione pubblica mondiale ed europea. L'individuazione delle priorità avviene attraverso un dialogo che il paese deve avere con la CEE. I paesi riceventi hanno adempiuto alle procedure previste dalla programmazione. Ma se andiamo ad analizzare i risultati, cosa è successo dal punto di vista del coordinamento degli interventi, che mi pare uno dei fattori di efficienza? Tale coordinamento manca nella cooperazione allo sviluppo della CEE.

Attorno anche allo stesso progetto ci sono più finanziatori che non riescono a coordinarsi. E' comprensibile che ciò accada se da una parte c'è la Banca Mondiale, dall'altra la Svezia o da una parte la Svezia, dall'altra il Giappone, anche se ad esempio il Giappone ha fatto sforzi in questo senso. Ma non è ammissibile che il coordinamento manchi all'interno della CEE, sotto un duplice profilo. Innanzitutto tra i due fondamentali strumenti della cooperazione di Lomè: agevolazioni commerciali e interventi finanziari e tecnici. Infatti, da una parte le merci esportate dai PVS firmatari sono ammesse sui mercati comunitari senza dover pagare franchigie di dogana ma questa misura non ha avuto, e lo conferma un'ampia letteratura, nessun impatto: le esportazioni dei PVS non sono aumentate nel periodo nel quale queste misure sono state applicate. Nessuno è mai riuscito a dimostrare che la franchigia doganale abbia fatto aumentare le esportazioni dei paesi membri della Convenzione. E questo perché per esportare bisogna fare del marketing, avere dei supporti logistici, bisogna saper esportare, secondo certi criteri e certi standard. Ma a questo avrebbe dovuto sopperire la cooperazione tecnica, la quale però prevede un capitolo di spesa di dimensioni minime per interventi di carattere commerciale. Insomma, so che sulla questione si potrebbe discutere a lungo, ma dal mio punto di vista non esiste nessun coordinamento tra questi due filoni.

Non esiste inoltre coordinamento tra intervento "multilaterale", della CEE, e intervento bilaterale dei singoli stati. L'Unione europea sul versante della cooperazione allo sviluppo non è un'unione ma una somma di paesi che mantengono ognuno una grande gelosia dei propri rapporti di cooperazione allo sviluppo. La CEE continua ad agire come un'agenzia internazionale, multilaterale, ma l'assenza di un coordinamento con i singoli paesi riduce notevolmente l'efficacia di tale azione.

Mi fermo qui, grazie per l'attenzione.

"L'attività della FAO negli anni '90 e l'apporto dell'Italia"

Maurizio Malogioglio

Senior programme officer FAO

Il mio intervento è centrato sulla FAO e sulle sue attività negli anni 90 e sull'apporto specifico dell'Italia. Sono quattro i punti principali:

1. Cos'è e cosa deve fare la FAO
2. Apporto dell'Italia nel periodo '82-'92
3. Cosa si spera sia la FAO negli anni '90
4. Quale potrebbe essere l'apporto dell'Italia negli anni '90

La FAO è essenzialmente 4 cose:
a) centro di informazione mondiale sull'agricoltura, quindi si occupa di statistiche, progetti, miglioramento sementi, tipo di stoccaggio, vaccino animale. Possiede centri specializzati di rilevamento che tramite l'uso di satelliti permettono di rilevare aspetti di carattere geografico - agricolo, come la copertura forestale ecc.;
b) consulente per i governi per delineare le politiche agricole;
c) punto di incontro neutrale e naturale per i problemi agricoli mondiali ; organizza conferenze, commissioni come quella del codex alimentarius che stabilisce gli standard alimentari e di qualità. Questo è un compito molto importante della FAO perché la competizione sui mercati mondiali e la penetrazione di nuovi mercati avvengono anche attraverso l'introduzione di nuove regolamentazioni sanitarie; di qui l'importanza di un forum neutrale;
d) ente dello sviluppo, fornisce quindi assistenza tecnica ai progetti nei PVS (sono più di 2.000 i progetti attualmente in corso) e promuove investimenti nel settore agricolo. Identifica congiuntamente con istituzioni come la Banca Mondiale quei progetti che poi saranno avviati in via bilaterale.
Il precedente della FAO era l'Istituto Internazionale di Agricoltura, creato a Roma nel 1905; la FAO nasce nel 1945 a Quebec e nel '51 si stabilisce a Roma.
Le operazioni sul terreno della FAO venivano finanziate dal Programma delle nazioni unite per lo sviluppo (UNDP) e per il 30% dai fondi fiduciari messi a disposizione della FAO dai paesi ricchi per attività sul territorio. Questa proporzione dei finanziamenti è cambiata e si arriverà a raccogliere da paesi come Francia, Germania, Italia, dalla CEE, dalle banche il 60% del finanziamento per alcuni dei progetti supportati. Il rapporto con i singoli donatori è dunque i importante e viene curato.
L'Italia è stata ed è estremamente importante per la FAO, anche se non ne è consapevole; infatti nel periodo '82-'93 è stato il maggior contribuente dei programmi di competenza della FAO, assieme all'Olanda che in quest'ultimo anno l'ha superata a causa della crisi finanziaria della cooperazione italiana di questi ultimi due anni.
Infatti nel periodo '82-'93 l'Italia ha finanziato oltre 140 progetti per un totale di 390 milioni di dollari. Anche i "Programmi Italia - FAO" hanno sofferto di un approccio forse troppo ambizioso. Venivano coperte tutte le aree geografiche e tutti i settori di intervento, quindi i progetti miravano ad assistere comunità di piccoli coltivatori, associazioni di donne, programmi di vaccinazione animale, di pianificazione agraria e rurale, di meccanizzazione agricola e di acquacoltura.
A partire dal '90 la FAO ha accolto l'indicazione italiana di riorientare il programma verso un numero limitato di paesi e limitato di settori.
La distribuzione geografica degli aiuti è stata: 27% Africa del Sahel, 20% Africa non del Sahel, 20% America Latina, 20% Asia, il resto a Medio Oriente e paesi dell'Est (in realtà solo all'Albania). Come settori tecnici: 2% sanità animale, 10% foreste e ambiente, 20% sviluppo rurale, 6% meccanizzazione, 7% sicurezza alimentare.
E' utile indicare la collaborazione tra FAO e istituzioni scientifiche (università, CNR, ENEA, ISTAT); tale rapporto non è mai stato formalizzato, ma cercheremo di farlo in futuro. Il Programma Italia - FAO è un modello di programma di cooperazione a livello multilaterale: esistono meccanismi di consultazione a livello politico, il comitato consultivo si riunisce una volta l'anno, stabilisce le politiche di cooperazione per l'anno o gli anni a venire e il relativo ammontare finanziario. Inoltre è assistito da un organismo tecnico di consultazione composto da esperti italiani e stranieri che esaminano i progetti e li raccomandano all'approvazione del donatore che li approva o meno. L'Italia stabiliva un contributo volontario, nel periodo '90-'93 è stato di 40 miliardi annuali nell'ambito del quale si iscrivevano i progetti da finanziare.
Questi meccanismi fino ad ora hanno funzionato bene. Negli anni '90 si è operato un miglioramento delle fasi di esecuzione e approvazione dei progetti. Oggi procedure come quelle della FAO permettono di far partire in 6 - 8 mesi un progetto, mentre le procedure della direzione generale della cooperazione sono molto più lunghe. Infatti se l'esecutore di un progetto veniva scelto col metodo della gara d'appalto potevano passare anche 2 o 3 anni e questo era uno dei motivi per i quali si usava il metodo della trattativa privata. Parlando di procedure gli organismi internazionali soffrono di eccessiva burocratizzazione, ma hanno procedure chiare. Questo è meglio di procedure non chiare e che cambiano spesso e molte cooperazioni multilaterali soffrono di questo problema. Per quanto riguarda i controlli la FAO ogni 2 anni affida la revisione dei suoi conti ad un paese membro, nel 1994 alla Francia. Non esistono controlli da parte dei singoli governi, ma il paese membro può fare le sue affermazioni nelle sedi appropriate.
Non è possibile il controllo parlamentare da parte dei singoli governi, ma il paese membro può fare le sue affermazioni nelle proprie sedi. Il settore principale di collaborazione Italia - FAO è stato lo sviluppo rurale integrato: sono stati finanziati 8 progetti per più di 100 milioni di dollari.
Due sono i progetti citati più di frequente:
progetto di sviluppo rurale integrato in Burkina Faso,
progetto di sviluppo rurale integrato in Niger (Keita) per 46-49 milioni di dollari.
Sono progetti interessanti perché aree Saheliane o pre-Saheliane sono state trasformate in zone con eccedenza di cereali, e il reddito della popolazione è aumentato. Si dicono integrati in quanto comprendono la realizzazione di piste rurali e pozzi, la costituzione di piccole cooperative di credito e di ammasso, interventi di sistemazione del territorio come le dune frangivento ancorate piantando alberi importati da altre zone. Questo intervento rurale è molto costoso e una delle critiche che ad esso si muove è proprio questa.
L'aspetto partecipativo è molto importante in questi progetti; per esempio quello di Keita in Niger all'inizio stentava a partire. Si erano portati i trattori e si chiedeva agli uomini di lavorare la terra; poi coinvolgendo le donne che hanno cominciato a lavorare in cambio di razioni di cibo è scattato un meccanismo grazie al quale tutti i villaggi hanno cominciato a partecipare.
Sono stati finanziati anche altri progetti in paesi africani: Ghana, Sudan, Uganda (dai 3 a 6 milioni di dollari ciascuno).
Tali progetti si dividono in 2 categorie:
1. progetti semplici di invio di trattori, motozappe in paesi carenti di valuta estera;
2. progetti in cui la meccanizzazione veniva vista in modo più concreto, oltre all'invio di trattori, si creano cooperative cui rivendere i trattori, si formano contabili ed esperti in gestione delle scorte e dei suoli.
Questi progetti, finanziati dall'Italia, non hanno avuto tutti dei buoni risultati specialmente quando il progetto si limitava solamente alla fornitura di trattori senza pensare a quello che c'era a valle, dalla mancanza di pezzi ricambio al corretto utilizzo dei mezzi. I progetti andati meglio sono quindi quelli con approccio più completo.
C'è stata inoltre una serie di progetti per sviluppare la produzione agricola, e migliorare le varietà di prodotti.
Altri progetti importanti sono quelli per la sicurezza alimentare. In quest'ambito con una forte schematizzazione si può dire che sono stati finanziati due tipi di progetti:
1) approccio fisico - meccanico: l'obbiettivo è di ridurre le perdite post - raccolta attraverso la costruzione di infrastrutture (come i magazzini di stoccaggio). E' un intervento efficace, in termini immediati, ma non garantisce la sostenibilità della sicurezza alimentare. Ci si è quindi resi conto già dagli anni '70 dell'importanza dell'ambiente macroeconomico (politiche dei prezzi corrette che favoriscono prodotti base nell'alimentazione);
2) programmi di "allerta precoce" basati su rilevazioni dei dati sia a terra che tramite satellite. Spesso questi progetti vengono criticati perché le carestie sono sempre presenti anche se non dipendono da eventi bellici. La risposta a tale critica è che le carestie vengono previste con un anno di anticipo, ma la comunità internazionale si muove quando gli effetti sono evidenti nei mezzi di comunicazione.
Attualmente sono in atto progetti nei paesi del Corno d'Africa per rafforzare un'istituzione regionale, la LIGAD, per la raccolta di dati e previsioni sul raccolto in determinate aree (Gibuti, Sudan, Uganda, Kenya).
Tale progetto non funziona molto, anche se è da sottolineare il ruolo pionieristico dell'Italia di investire in istituzioni regionali. Il sostegno a tali organismi è sempre stato debole pur riconoscendo l'importanza di organismi regionali di integrazione (CEE per esempio). Stessa cosa si può dire per l'Africa del Sud e i paesi del Sahel.
Altro settore importante è quello della sanità animale. L'Italia ha finanziato progetti contro la mosca tsè-tsè, e in America Latina per malattie esotiche, cioè tutte quelle malattie importate con alimenti, come le carni, che provengono da altre aree geografiche. I paesi che non sono attrezzati per riconoscere tali malattie subiscono effetti devastanti.
Vi sono inoltre progetti nei settori dell'acquacoltura, dell'ambiente e delle foreste. L'Italia finanzia programmi di pianificazione agricola, a sostegno delle istituzioni nazionali. Possiamo citarne tre.
Il primo è un progetto di assistenza alla riforma agraria nelle Filippine del dopo - Marcos, col quale si intende: creare un catasto; finanziare un progetto pilota nel territorio, elaborare analisi utilizzando Università locali, ma anche esperti internazionali; fornire modelli di intervento per la formazione di cooperative nei territori che vengono assegnati ai beneficiari della riforma agraria. Tale progetto funziona abbastanza bene, per merito anche dell'Italia.
Altro progetto interessante è la creazione di un centro di raccolta delle statistiche in Cina. Nel 1997 il Governo cinese dovrebbe lanciare il censimento agricolo ed è un compito grandioso. Negli ultimi 5 anni l'Italia ha finanziato questo centro di Pechino e la creazione di 6 centri regionali. Sono stati lanciati alcuni censimenti pilota e le metodologie sono state verificate anche attraverso procedure informatiche e software specifico.
E qui vorrei aprire una piccolissima digressione sul multilaterale e sul problema dell'aiuto legato o meno. Per il programma Italia - FAO, rilevante in termini finanziari per la FAO, quest'ultima in ogni caso tenta di fare il miglior utilizzo possibile dell'expertise e dei tecnici italiani e di acquistare in Italia, nei limiti del possibile. Non è vero quindi che il multilaterale permetta un aiuto slegato, in realtà noi cerchiamo sempre di favorire il paese donatore.
Un ultimo progetto da sottoporre alla vostra attenzione è quello di assistenza al ministero dell'agricoltura dell'Albania. Tecnici italiani e di altre nazionalità hanno il compito di ristrutturare il ministero dell'agricoltura, di fornire assistenza per la privatizzazione delle società statali e la ristrutturazione degli uffici regionali e soprattutto di identificare delle politiche agrarie. In questo progetto sono utilizzati molti economisti e tecnici italiani ed è un modello di intervento che cercheremo di adottare anche in futuro.
Adesso passiamo ad esaminare l'attività della FAO negli anni '90. La FAO sta ristrutturandosi e recentemente ha avuto un nuovo direttore generale. E' cominciata una riflessione, i dati dei problemi che la FAO deve affrontare sono noti, circa 800 milioni di persone che non hanno accesso adeguato agli alimenti, 200 milioni di bambini sotto i 5 anni che sono malnutriti. Questi 4 decenni di sviluppo hanno lasciato intatti i problemi di cui Myrdal aveva parlato; le "cause cumulative della povertà". La FAO è conscia di questi problemi. Durante le "decadi per lo sviluppo", si è passati dalla teoria del big push formulata da Rostow, contraddistinta da investimenti in infrastrutture fisiche, alla crescita con redistribuzione, ma non si è interrotto il circolo vizioso della povertà e il povero, soprattutto a livello agricolo diventa sempre più povero. Si è parlato di strategie basate sui bisogni essenziali (basic needs); la FAO segue questo dibattito con consapevolezza.
Quello che la FAO cercherà di fare è concentrarsi realisticamente solo su alcuni dei problemi principali, per i quali utilizzare tutte le nostre risorse fornite dai paesi donatori. In primo luogo viene la sicurezza alimentare di cui si è parlato tanto.
L'intervento della FAO negli anni '90 sarà di tipo tecnologico, bisognerà utilizzare le tecnologie conosciute a livello locale, verificarle, introdurre nuove tecnologie provenienti da altri paesi e, dopo averne verificato l'adattabilità, allargarne l'uso anche a zone vicine. Non viene però dimenticato l'aspetto macroeconomico, politiche nazionali fiscali, trasferimenti di redditi da aree rurali a aree urbane. Tutto questo dovrebbe portare ad una nuova rivoluzione verde. Si lanceranno progetti pilota in zone in cui non ci sono fattori limitanti come la scarsità d'acqua; perciò all'inizio la FAO si concentrerà nelle zone dei grandi bacini fluviali o dei laghi. Simmetricamente gli investimenti saranno in infrastrutture necessarie (strade, sistemi idrici, riforme agrarie). Non verranno più fatti programmi giganteschi, ma solo a livello regionale.
Altro settore importante è la cooperazione nell'ambito dei programmi di aggiustamento strutturale. Tutti i PVS sono caratterizzati da crisi del debito e deficit di bilancia dei pagamenti. Il nostro punto di partenza sarà il "prestito per l'aggiustamento strutturale" che non è legato a un progetto, ma è un prestito che la Banca Mondiale concede per sostenere mutamenti nelle istituzioni e nelle politiche economiche volti a modificare la struttura dell'economia e mantenere nel medio periodo i tassi di crescita stabili e la bilancia dei pagamenti in equilibrio. E' un argomento di vitale importanza, quando ci sono le rivolte del pane, c'è sempre dietro un prestito per l'aggiustamento strutturale. Le misure tipiche dell'aggiustamento strutturale includono la modifica del tasso di cambio, in genere la svalutazione, la diminuzione dei salari nel settore pubblico, la vendita o l'abolizione delle imprese pubbliche che si occupano della commercializzazione dei prodotti agricoli, la riduzione dei sussidi ai beni di consumo inclusi quelli alimentari e infine l'avvicinamento dei prezzi agricoli a quelli internazionali.
Ora la critica della FAO è che questi programmi di aggiustamento strutturale hanno per oggetto variabili macroeconomiche come tassi di interesse o crescita della massa monetaria. Chi negozia questi programmi di aggiustamento sono i ministeri economici e i ministeri di rilevanza agricola non sono coinvolti. La conseguenza sul settore agricolo è che gli effetti dell'aggiustamento strutturale sul settore agricolo non vengono visti ex-ante.
In pratica quando la Banca Mondiale o il FMI fissano degli obiettivi di crescita monetaria, di tasso di interesse o di spesa pubblica, l'effetto concreto è una diminuzione degli interventi statali nel settore agricolo, si tagliano i programmi di miglioramento dell'irrigazione, il credito agricolo si dissolve. Però subito dopo si chiede di favorire la crescita del paese aumentando la produzione agricola, in pratica come dicono molti critici dell'aggiustamento strutturale, si mette il carro degli aggiustamenti macroeconomici davanti ai buoi degli aggiustamenti settoriali.
La FAO sta cercando paesi donatori per poter fornire progetti di assistenza a PVS che stanno negoziando l'aggiustamento strutturale, aiutandoli con una serie di consulenze. Quindi non si tratta di seminare o costruire strade, ma fornire tecnici e consulenze a ministeri, enti di sviluppo o agronomici. Vorremmo proporre alcuni progetti di questo tipo anche all'Italia, nell'ambito della sicurezza alimentare e dell'aggiustamento strutturale con gli approcci precedentemente indicati. Quindi in futuro personale italiano specializzato in questo settore potrebbe essere utile.
Da ultimo vorrei accennare alla collaborazione con l'Italia, che è un paese mediterraneo caratterizzato da forti flussi migratori, al fine di porre in opera politiche concentrate su quei paesi dai quali proviene il maggior flusso di emigranti. Non è una proposta che abbia una valenza politica, per tenere lontano gli immigrati, ma piuttosto mira a far sì che chi ha scelto l'Italia come paese di immigrazione possa ricevere un aiuto per mantenere chi è rimasto a casa, per vivere in maniera accettabile nel proprio paese. E questo si fa identificando, a livello nazionale, adeguate politiche nazionali e sviluppando modelli di intervento che possano essere replicati nell'area mediterranea.
 
 
 
 

"Gli orientamenti dell'Italia circa la cooperazione multilaterale. La collaborazione con la FAO"

Laura De Clementi

Funzionario della Direzione generale cooperazione allo sviluppo del Ministero Affari Esteri

Vorrei riallacciarmi, per parlare della politica italiana verso il multilaterale, alla politica di cooperazione italiana più in generale, facendo un cenno alle tendenze "recessive" della cooperazione internazionale a livello mondiale. Come è già stato detto da altri relatori, nella situazione attuale lo slancio e l'impegno assunti dagli anni sessanta in poi con il lancio dei vari decenni per lo sviluppo stanno in una fase di abbastanza gravi ristagno e crisi, dovuti a vari fattori. Tra i fattori preminenti è la difficoltà economica che si vive a livello mondiale e la recessione in atto anche nei paesi industrializzati e quindi la diversa attenzione attribuita alla cooperazione, anche perché se ne sono tratti dei bilanci piuttosto negativi. Come è già stato ricordato, i vari decenni per lo sviluppo non hanno ottenuto i risultati sperati. I paesi poveri infatti sono diventati ancora più poveri mentre i paesi ricchi, oltre a essere diventati più ricchi, hanno anch'essi problemi di distribuzione della ricchezza e soprattutto di crisi recessiva nel mondo del lavoro. Mentre negli anni settanta e ottanta abbiamo assistito a un trend ascendente della cooperazione, oggi si assiste a una diminuzione dell'aiuto. Tale diminuzione in Italia in particolare sta assumendo dimensioni molto drastiche. Nelle ultime leggi finanziarie (specie in quella 1994) la riduzione dell'aiuto pubblico allo sviluppo è tale da porla a un quinto o un quarto di quello che è stato tradizionalmente negli anni ottanta. Mentre negli anni ottanta le erogazioni erano di 4.000 - 4.500 miliardi anni, oggi ci siamo ridotti a circa 1.000 miliardi, che è una riduzione considerevolissima. Tale riduzione è dovuta alla nostra crisi economica interna ma anche alle distorsioni alle quali la cooperazione è stata soggetta negli ultimi anni e quindi a un ripensamento in merito al fatto di impegnare ulteriore denaro pubblico in quantità molto considerevoli per un'impresa che, come la cooperazione, ha mostrato di non essere stata esente dalla stessa problematica di corruzione e di storno di fondi pubblici dai loro obbiettivi dichiarati per andare invece a profitto di singole persone o di gruppi di interesse. Per tutte queste ragioni ci siamo trovati di fronte a una riduzione importantissima della cooperazione e a puntare, per quanto riguarda l'operatività nei PVS, su dei Country programs, ovvero a concentrare la nostra attività in quei pochi paesi che la scarsa disponibilità dei fondi ci consente ancora di considerare prioritari. In pratica alcuni paesi dell'Africa, come la Somalia, l'Etiopia, l'Eritrea, tutto il Corno d'Africa, i paesi del bacino mediterraneo, per una particolare attenzione anche al problema dei flussi migratori, e alcuni paesi dell'Africa australe come il Mozambico in particolare, l'Albania e la Iugoslavia, come paesi dell'area dell'est dell'Europa. Per quanto riguarda l'intervento specifico nei paesi dell'est c'è una legge differente che non si chiama di cooperazione ma è finalizzata specificamente all'aiuto economico ai paesi dell'ex - Unione Sovietica e che viene gestita sempre dal MAE ma da un'altra Direzione generale che non è quella per la cooperazione allo sviluppo. Proprio per tutto questo panorama così ridotto e così difficile da gestire, perché per operare tutte queste drastiche riduzioni l'Italia ha dovuto ritirarsi da una serie di impegni che aveva già preso con tutta una serie di paesi. Perché negli anni ottanta la fase di espansione della nostra cooperazione aveva fatto sì che si prendessero molti più impegni formali con i paesi riceventi di quello che c'era disponibilità a fare fronte e che le susseguenti riduzioni hanno posto in estreme difficoltà sia i nostri ambasciatori che il nostro governo per dover rifiutare di compiere con impegni già presi. In questa fase si sta cercando, nonostante dal punto di vista quantitativo vi siano state grandi riduzioni, si sta cercando di dare particolare importanza al settore multilaterale, proprio per le ragioni già dette in questa sala. Infatti dare contributi a organismi multilaterali a livello di immagine e di garanzie è molto più credibile e spendibile sul piano esterno. E poi perché c'è una ragione più profonda e cioè che la Direzione generale per la cooperazione per operare correttamente dovrebbe fare gare d'appalto, cosa per la quale non è stata mai attrezzata e non è ancora attrezzata. Ovviamente il bilaterale ne viene quindi automaticamente escluso, perché potrebbe essere fruibile solo tramite il canale della gara d'appalto, che si potrebbe mettere in piedi ma che allo stato delle cose non è ancora pronto. Quindi la realtà della cooperazione italiana si articola su: multilaterale, emergenza, che è l'intervento di supporto immediato a catastrofi naturali o causate dall'uomo e che quindi permette di assegnare importi finanziari o a organismi internazionali all'AIMA oppure a imprese e a istituzioni italiane che possono operare a livello internazionale. Attualmente quindi il multilaterale sta assumendo un'importanza che precedentemente non aveva. Si sono prima fatte delle cifre. Vorrei dare quelle che io ho raccolto. Mentre nel 1981 il multilaterale assorbiva quasi il 55% del totale dell'aiuto allo sviluppo italiano. E questo perché nell'81 sono cominciati ad arrivare i soldi alla cooperazione italiana in grande quantità, e quindi non essendo in grado e non sapendo spenderli sul canale bilaterale, si era utilizzato il multilaterale onde canalizzare una grande quantità di fondi e aumentare la spesa. Mentre poi negli anni dall'83 al '90, che sono stati quelli più favorevoli al bilaterale e quindi a un'espansione immensa della nostra operatività sul territorio attraverso le ditte e le imprese italiane e quindi attraverso il bilaterale, questa percentuale era scesa al 32,2% del nostro aiuto pubblico totale. L'inversione di tendenza è invece rappresentata dal fatto che nel '93 l'aiuto multilaterale rappresentava il 42% del globale. Allora ora si potrebbe spiegare che l'Italia sta dando contributi non solo alla FAO, ma a una considerevole quantità di agenzie delle Nazioni unite, tra le quali le più importanti, l'UNDP, l'UNICEF, il Programma alimentare mondiale, l'UNHCR, ovvero l'Agenzia che si occupa dei rifugiati nei PVS e che quindi l'ammontare di contributi che si erogano ogni anno è stato intorno ai 300 miliardi, che vengono ripartiti in maniera molto eterogenea a seconda dell'importanza che si attribuisce all'Agenzia, tra le diverse Agenzie delle Nazioni unite. Comunque la cooperazione multilaterale italiana non si limita alle agenzie delle Nazioni unite. La cooperazione multilaterale si articola anche nella partecipazione italiana all'aiuto della Comunità economica europea e alla cooperazione attraverso le banche e i fondi di sviluppo internazionali. La terza voce è il contributo alle agenzie delle Nazioni unite e ad altri organismi internazionali. Nel 1992 sono stati distribuiti per contributi volontari a organismi internazionali 388 miliardi e nel 1993 390 di cui circa 108 e 121 per contributi obbligatori a organismi internazionali (ma saranno solo 300 nel 1994), 640 per la CEE e nel '92 770 e nel '93 793 a banche e fondi, per un totale di 1906 nel 1992 e 1944 miliardi nel 1993.

Quindi il panorama del multilaterale, come vedete, è piuttosto articolato. Le agenzie delle Nazioni unite sono solo uno dei suoi aspetti. Per quanto riguarda il programma con la FAO, posso dire che è uno dei programmi più importanti che abbia il nostro paese. Con la FAO esiste questa possibilità di entrare nel merito dei progetti e di poter congiuntamente elaborare le priorità geografiche e settoriali. All'interno di queste la FAO propone all'Italia alcuni documenti o temi di iniziativa e a partire da quello si va avanti nel processo valutativo e decisionale, finché si arriva all'approvazione del progetto. La FAO è sempre il protagonista di questo processo, laddove la Direzione per la cooperazione è di supporto e di indicatore politico per quanto riguarda gli aspetti fondamentali del paese e del settore ma poi si rimette alle capacità di elaborazione e propositive della FAO per quanto riguarda gli aspetti tecnici.

Dal punto di vista più interno il complesso dei circa trenta progetti che noi portiamo avanti annualmente con la FAO, molto è stato detto dal dr. Malogioglio. Mi limiterò, lasciando forse più tempo agli altri interventi e al dibattito, a dire che è molto interessante aver orientato il programma FAO su due temi fondamentali, che ci permettono di avere due assi di intervento abbastanza precisi, uno di supporto alle capacità istituzionali dei paesi nel settore dell'agricoltura e quindi un intervento che cerchi di coniugare quel problema di raccordo tra il micro e il macro a cui faceva cenno il professor Antonelli, e cioè un modello di progetto che partendo da esperienze pilota sul territorio, che possono essere sia esperienze sia per esempio di recupero di settori di produttori agricoli che hanno difficoltà di accesso al mercato, cioè individuare delle categorie, dei gruppi di interesse sociale che possano costituire un elemento di dinamismo e di verifica di determinate potenzialità che esistano all'interno del sistema e che quindi attraverso questo tipo di esperienze più specifiche, più pilota, si possano trarre elementi generali di economia da suggerire ai governi nel settore agricolo.

Questo è un tentativo che stiamo appunto cercando di portare avanti in svariati progetti che si stanno realizzando con la FAO e che evidentemente solo un organismo come la FAO può permettere di impostare proprio per questa sua caratteristica di organismo internazionale, la cui expertise è accettato che sia al di sopra delle parti e che quindi può fungere da tramite opportuno con i governi cercando di entrare nel dialogo con il governo anche per quanto riguarda l'aspetto agricolo di alcuni segmenti agricoli in bilico tra il diventare obsoleti o invece avere una possibilità di apertura allo sviluppo e che molto spesso i programmi di aggiustamento strutturale della Banca mondiale non prendono assolutamente in considerazione. La BM disegna processi di riaggiustamento strutturale che dettano anche le politiche economiche del paese e che però molto spesso tranciano in maniera troppo rigida le politiche agricole e che però impediscono che il sottosegmento agricoltura possa avere una propria articolazione più appropriata con l'intero processo di sviluppo.

E questo è un fatto gravissimo, perché appunto il problema rurale, il problema della produzione agricola nei paesi in via di sviluppo è uno dei problemi cruciali, sia perché ancora la maggioranza della popolazione vive nel mondo rurale, sia perché esiste il problema del difficile raccordo tra città e campagna e quindi di come nei PVS non si è andato instaurando un processo che invece da noi è andato consolidandosi progressivamente nel tempo e cioè di un sostanziale rifornimento in viveri dalla campagna alla città. Mentre invece nei PVS l'agricoltura è ed è rimasta prevalentemente un'agricoltura di sussistenza o latifondista, e quindi non produce i beni che servono alla città e questo crea il circolo vizioso della necessità dell'importazione di beni agricoli, e così via e quindi è un elemento di distorsione profondo di tutto lo sviluppo dei PVS. Questo è appunto uno degli aspetti che stiamo sperimentalmente cercando di portare avanti con estremo interesse sia da parte dei funzionari della FAO che dei vari esperti che si muovono attorno a questo progetto.

L'altro aspetto è quello dell'ambiente e dello sviluppo sostenibile in base a processi partecipativi. Infatti un'altra delle ragioni del disastro di molti progetti di cooperazione è stata la giustapposizione culturale tra innovazioni che le popolazioni locali non erano in grado di recepire perché non le sentivano proprie e non ero in grado di appropriarsene. Di qui le cattedrali nel deserto, le migliaia di trattori abbandonate nei deserti africani e quindi i disastri storici della cooperazione, che non sono stati soltanto la corruzione o l'usare la cooperazione un po' troppo come uno strumento di sussidio degli apparati statali dei PVS. Un po' la cooperazione è ed è stata anche questo: aiutare questi piccoli funzionari, è un piccolo supporto alla sopravvivenza di una classe media locale che altrimenti andrebbe a rotoli. Però appunto, per tutte queste ragioni, tutti questi programmi di sviluppo hanno avuto dei disastri notevoli sul territorio, anche perché non hanno mai misurato la quantità di innovazione che la popolazione recipiente era in grado di assorbire. E quindi hanno importato e apportato quantità di prodotti, expertise, tecnologie ma queste sono rimaste lettera morta in quanto non fatte proprie dalla gente.

Il tentativo di impostare i programmi in maniera partecipativa si va facendo da molto tempo ma che soltanto in tempi recenti è diventato un sistema metodologico più complesso, più articolato, proprio perché precedentemente i donatori non avevano la capacità di pensare a un processo partecipativo da parte dei locali, che includesse anche le fasi di programmazione e partecipazione. L'attitudine mentale, il razzismo mentale dei donatori, anche in buona fede, era sempre stata quella di pensare che la partecipazione dovesse avvenire quando il processo di programmazione e di ideazione era già effettuato. "Noi" pensiamo e programmiamo, "loro" partecipano. Ovviamente questo è un tipo di metodologia che non ha probabilità di riuscita perché non si può partecipare a un qualcosa dei cui principi non si ha nozione. Quindi direi che questi due filoni del programma FAO sono di un estremo interesse e il rapporto con la FAO è fecondo non solamente perché appunto noi siamo dei grandi donatori e quindi abbiamo uno spazio oggettivo che ci viene offerto ma perché la FAO è un'Organizzazione che, al di là dei difetti e dei limiti, ha comunque una capacità di esprimere una coralità di metodologie e di apporti che poi possono essere, in maniera molto appropriata e proficua, utilizzati dal donatore e che quindi sono un apporto in più che l'Organismo dà.

"Quale ruolo per le ONG nel multilaterale?"

Gildo Baraldi

Presidente COCIS

Sarò molto breve non perché ho il dono della sintesi ma perché onestamente sul tema assegnatomi ho molto poco da dire per il passato. Il tema assegnatomi è il rapporto tra le ONG e la cooperazione multilaterale, e abbastanza poco per le prospettive future. Anzi, mi era venuta voglia di fare come un noto ittiologo a una conferenza su come si sviluppato nelle varie specie lo scheletro, per arrivare ai vertebrati; al momento di parlare dello sterno, gli bastò dire "i pesci non hanno sterno" per potersene andare soddisfatto. Fino ad oggi infatti le ONG di cooperazione avevano sostanzialmente, sul piano istituzionale, due interlocutori: il MAE, che partecipava per circa l'80% all'entrata finanziaria dei contributi con cui le ONG realizzavano progetti. E un organismo multilaterale sì, ma cooperava con un'agenzia in qualche modo analoga e similare, la Commissione delle Comunità europee, che partecipava per la parte restante o poco meno. Tra l'altro su un solo canale. Parlo in generale: chiaramente esistono numerose eccezioni, di collaborazione di ONG italiane alle linee speciali di credito della CEE. Ma sostanzialmente su un solo canale che era quello analogo a quello aperto con il MAE, del cofinanziamento dei progetti ordinari.

Questo è dovuto a una serie di fattori, che rendono oggi le ONG italiane sostanzialmente assenti da una politica di cooperazione con le attività degli organismi multilaterali, sia quelli comunitari sia ancor di più quelli delle Nazioni Unite. Oggi ovviamente le ONG non vi illustro cosa sono, lo do per scontato, per ragioni di tempo, sono in una situazione di collasso, dovuto a vari fattori. Sono fattori esterni, come il venire meno della gran parte dei contributi pubblici, il venire meno di una serie di certezze esterne sulle modalità di operare, e il venire meno credo anche della ragion d'essere di uno schema operativo forse un po' troppo consolidato negli ultimi anni. Collasso esterno anche di tipo retroattivo, perché questo venire meno soprattutto sul piano finanziario si riferisce a finanziamenti già deliberati e già spesi e quindi con una serie di collassi.

Si trovano quindi a inseguire anche, con la logica dell'ultima spiaggia, che è un difetto questo delle ONG, i canali che appaiano aperti, quindi a rovesciarsi nei confronti di organismi multilaterali non con una logica di costruire delle prospettive diverse di modo di essere ma con una logica a mio avviso perdente e vuota di cercare dei canali sostitutivi più o meno alla pari, di quello che è il canale del MAE. Chiaramente questo non credo sia utile a nessuna forma di costruzione. Cito ad esempio il modo in cui molte ONG si stanno buttando sull'emergenza, interpretandola quasi come un'ultima spiaggia piuttosto che come una specializzazione specifica non di cooperazione ma di aiuto allo sviluppo.

Credo che un'altra delle difficoltà storiche nel passato, nei rapporti con gli organismi multilaterali, soprattutto quelli delle Nazioni Unite, fosse dovuta per esempio al fatto che questi rapporti, comunque allora poco proficui sul piano finanziario, avrebbero imposto ulteriori forme di burocratizzazione interna, differenziate e parallele rispetto a quelle già pesantissime imposte dal MAE e dalla CEE. Avrebbero posto dei problemi oggettivi sull'impiego proprio e autonomo di personale, fosse esso volontario o cooperante, e soprattutto che la gran parte di queste Organizzazioni internazionali, soprattutto quelle delle Nazioni Unite, non si presentavano come enti, questo era peraltro ed è ancora l'unico rapporto esistente e reale tra ONG ed enti di cooperazione pubblica, non come enti di finanziamento ma al contrario come enti operativi, cosa che le ONG per prime sono. Mi spiego: da parte dell'Organismo internazionale la proposta spesso era, benissimo, cara ONG, vuoi fare questa cosa bellissima in Niger? Finanziamela e te la faccio io, il che era l'esatto simmetrico di ciò che l'ONG andava a chiedere. Quindi non c'era possibilità d'accordo.

Pochi brevi appunti: intanto ho sentito stamattina quasi fare una divisione "etica" tra una, sì un po' fallimentare, ma più seria moralità delle Organizzazioni internazionali multilaterali rispetto a quelle bilaterali, in quanto sono rivolte ai più bisognosi. Io credo che questo sia vero, ma che non si debbano creare dei salti logici tra il livello dell'analisi e il livello etico. Credo che si debba aver ben chiaro che l'aiuto allo sviluppo è una cosa e la cooperazione allo sviluppo è un'altra. Le due cose hanno ovviamente delle interazioni ma non sono la stessa cosa. Non si possa confondere: l'aiuto allo sviluppo è qualcosa che, se scorrettamente inteso come spesso avviene, si riduce all'acquisto e dispersione di prodotti dell'Agrofin di Catania costruita appositamente dai famigerati fratelli Rendo, ma che se correttamente intesa ha una sua dignità e un suo senso e non può che essere rivolta alle popolazioni più bisognose, non necessariamente e non automaticamente la cooperazione allo sviluppo è rivolta alle fasce più bisognose del terzo mondo. Credo che queste due cose impongano strategie diverse.

Ancora ho sentito degli accenni a "la cooperazione italiana è collassata perché distrutta dalla corruzione", anche qui io credo che la corruzione ci sia stata, lo sapete tutti. La corruzione è stata un po' più elevata che in altre situazioni, ma cionondimeno la corruzione colpisce anche la cooperazione di altri paesi e colpisce anche gli organismi internazionali, io credo che l'elemento dirimente non sia tanto la gravità della corruzione, ma un altro fatto e cerco di spiegarmi. Se un paese o un'agenzia ha una propria politica di cooperazione o di aiuto, l'effetto della corruzione è di portare danni limitati, ovvero di portare a far sì che il trattore venga comprato dalla ditta A invece che dalla ditta B e che magari costi 120 milioni invece di 100.

La cosa diventa drammatica invece quando il Paese o l'Agenzia NON HA una politica di cooperazione, perché allora la pressione della corruzione non è quella di far prevalere una ditta rispetto all'altra o di portare a una dispersione ulteriore di costi, ma è quella di fatto, senza una strategia, di orientare la politica di cooperazione perché fa fare quelle scelte che sono immediatamente utili. E questo credo che sia il fatto grave della cooperazione bilaterale italiana. E quindi l'attenzione, e tengo a dirlo perché credo che questo sia l'aspetto minore di attenzione che oggi si pone, vada posta nella definizione delle politiche e delle strategie di cooperazione. Piuttosto che, ovviamente dovrei dire oltre che, sulla repressione degli elementi di corruzione che in qualche misura sono sempre presenti.

E' stato detto prima che l'Italia era un grande fornitore di aiuto pubblico. Io credo che non lo sia mai stata. Sono queste le riflessioni che volevo tirare fuori. L'Italia, anche quando arrivava a dare lo 0,4% del PIL come aiuto allo sviluppo, pari a circa 5.500 miliardi, mai erogati in questo importo ma comunque quantomeno stanziati, di fatto non ha mai usato questi soldi in modo funzionale né alle politiche sia di aiuto e cooperazione rivolte a paesi del terzo mondo come quelle di paesi come la Svezia, né a politiche di penetrazione commerciale razionali e intelligenti come quelle fatte dal Giappone, soprattutto di sostegno all'investimento giapponese in questi paesi, di cooperazione allo sviluppo reale o di sostegno all'export, che è una cosa diversa, sia chiaro, ma che ha una sua ragione d'essere, ma semplicemente li ha dedicati a operazioni parassitarie. Questo proprio perché prive di una propria politica di cooperazione. Questo credo sia l'elemento abbastanza determinante.

Vorrei rapidamente tornare al discorso delle ONG, che è il tema assegnatomi. Ho detto che il loro rapporto con gli organismi multilaterali è stato, salvo pochi episodi, sostanzialmente irrisorio e sostanzialmente limitato all'andare a cercare presso il canale di cofinanziamento ordinario presso la Comunità europea i fondi integratici rispetto al contributo prevalente degli Affari esteri, quali possono essere le prospettive, quali possono essere i modi di superamento degli schemi attuali?

Io credo che ci siano in essere oggi molti momenti, molti movimenti ampiamente contraddittori da parte delle ONG e che non sia possibile definire, delineare e interpretare una linea prevalente di rifondazione del modo di essere della cooperazione popolare delle ONG. Probabilmente quello che verrà fuori sarà un mix di tutto questo anche se contraddittorio tra sé, i fenomeni che osservo sono quello di un ritorno al solidarismo volontaristico degli anni sessanta, che consisteva sostanzialmente, scusate una breve parentesi, schematizzando in tempi rapidissimi, credo che la storia delle ONG italiane sia stata caratterizzata da una prima fase, nel decennio tra la fine degli anni sessanta e la fine degli anni settanta, di piccoli gruppi che operavano soprattutto su una politica di aiuto allo sviluppo piuttosto che di cooperazione allo sviluppo, con pochissimi apporti finanziari esterni, su una base di forte solidarismo e forte volontarismo, un po' spontaneista un po' improvvisato, con uno scarso livello di professionalità e con una fortissima carica di partecipazione.

Ci sia stata una fase evolutiva nel decennio successivo che ha portato le ONG a una forte crescita della capacità di fare cooperazione e di professionalità, di organizzazione, con uno spostamento dalla politica degli aiuti a una politica di cooperazione, non sempre riuscita, per carità ma con queste caratteristiche e per contro con una trasformazione almeno parziale delle ONG stesse in agenzia tecnica di cooperazione. E poi c'è stata la crisi, dovuta a tutti i fenomeni che conoscete negli ultimi tre quattro anni. Si parlava prima dei tempi, i tempi di approvazione da parte del MAE di un progetto ONG stanno arrivando oltre i tre anni. Peraltro i tempi di effettuazione delle gare non sono di due anni, sono infiniti, perché non ne è mai stata fatta una, e quindi il tempo diventa infinito, è chiaro che un progetto che aspetti tre anni per essere approvato una volta approvato, se mai lo sarà, diventi inutile perché andrebbe completamente rifatto: è una serie di fattori che ha portato al collasso.

Come stavo dicendo, uno dei fenomeni ai quali assistiamo è un ritorno alla prima fase, che credo non sia utile e non sia opportuno perché getta via un passo evolutivo importante che è stato il passaggio da una politica di aiuto a una politica di cooperazione. E un costruire una capacità di far cooperazione. Un altro fenomeno al quale assistiamo è una forma un po' scomposta e un po' isterica di buttarsi su un fund raising un po' indifferenziato, cioè andando in giro a cercare i soldi, mantenendo quindi uno schema che io credo non per fatti esterni ma anche per fatti interni è obsoleto, quello delle ONG agenzie in grado di operare con buoni progetti che si ripetevano quasi sempre uguali. Questo credo che andrebbe buttato via non solo perché non arrivano i soldi per farlo. E quindi qualsiasi tentativo di ritrovare altrove i soldi per fare questo schema sia poco utile a un'evoluzione delle ONG e tra l'altro credo che questo tipo di fund raising non possa in ogni caso arrivare, anche sul piano pratico, a sostituire il collasso dei fondi pubblici.

Esiste tutta un'elaborazione e una serie di tentativi che vanno sotto il nome di cooperazione orizzontale, intesa come superamento, e credo che questa sia forse la fase più importante dell'evoluzione, superamento dello schema categoriale ONG, quasi ghettizzate in sé stesse, l'ONG ente che opera e che sa fare i progetti in rapporto con una controparte e che vede all'esterno solo enti contribuenti. Questo schema si sta superando, esistono vari tentativi, varie forme di ricerca di come non considerare più le ONG soggetto unico, ma considerare la solidarietà come uno spaccato verticale della società che quindi coinvolge dalle autonomie locali, alla piccola e media impresa, alle comunità di immigranti, all'associazionismo nazionale, una serie di altri soggetti. In questa ricerca esiste anche la ricerca, che però è inibita dai fenomeni che dicevo prima, di rapporti diversi, quindi di collaborazione operativa, oltre che di trovare un'alternativa al finanziatore MAE che non c'è più, con gli organismi multilaterali.

Una cosa che ancora invece non osservo in Italia, nelle ONG italiane, a fronte di questa crisi, ho osservato tutti questi fenomeni, non osservo uno sforzo di internazionalizzazione rispetto allo schema strettamente italiano. Questo mi sembra molto molto più carente di quanto sarebbe logico aspettarsi oggi. Prospettive di cooperazione invece intese come rapporto con il multilaterale, io credo che vi siano cose piuttosto difficili. In quanto si osservano crescenti disponibilità anche se ancora seriamente non attuate, di apertura da parte di molti enti multilaterali, però su tipologie e schemi che non so quanto le ONG italiane vogliano accogliere e non so quanto sia bene vogliano accogliere.

Mi riferisco al fatto che, un po' meno il FMI e molto di più la BM, stanno rendendosi conto ovviamente della necessità di quelli che in politica interna chiameremmo ammortizzatori sociali, dei gravi danni provocati dalle politiche di riaggiustamento strutturale e si stanno quindi rivolgendo più all'estero che in Italia, ma sicuramente anche agli italiani se ci stanno, alle ONG perché svolgano un ruolo di lenimento, di "pomatina" su queste piaghe sociali. Ora io credo che evidentemente la contestazione che deve essere fatta alle politiche a mio avviso non solo moralmente sbagliate ma anche economicamente sbagliate, io credo che le politiche di riaggiustamento strutturale non siano solo da rifiutare in quanto hanno costi sociali troppo elevati, siano da rifiutare anche in quanto non portano a prospettive di sviluppo economico né nel Nord né nel Sud, quindi siano proprio costi sociali oltretutto inutili, perché non utili a venire fuori da una qualsivoglia crisi.

Dicevo, il contestare questo non implica automaticamente l'ignorare da parte delle ONG che queste politiche generano dei danni sulle popolazioni e quindi non debba significare il non volersi far carico anche dell'aiuto alle popolazioni così danneggiate, però questo non comporta automaticamente l'accettazione di svolgere un ruolo complementare e subordinato a queste politiche proposto io credo, sia pure con termini più eleganti e democratici dalla BM, che non dal FMI, proposto dalla BM. Peraltro sul piano multilaterale comunitario ho l'impressione che sia pure non con il collasso drastico del livello italiano, sia in corso un processo di graduale ridimensionamento e di ghettizzazione oggettiva delle ONG, quindi non credo che vi siano molte strade migliori in quel campo, del fronte italiano credo non sia il caso di parlarne a lungo, anche se le ONG in termini di accesso percentuale al bilaterale avranno una grossa crescita, questa sarà dovuta unicamente al fatto che il bilaterale italiano ha cessato di esistere e quindi diventa quasi il 100% in termini percentuali, quello delle ONG, peccato che diventi quasi nullo in termini di valore assoluto.

Un'ulteriore elemento di riflessione che volevo buttare è che nel rapporto tra organizzazioni non governative italiane e organismi multilaterali, sia comunitari che delle Nazioni Unite, ricade a rendere difficile questo rapporto, rispetto a ONG di altri paesi, la sostanziale, non dico totale, dico sostanziale mancanza di capacità di triangolazione che altri paesi hanno, che evidentemente si ripercuote anche nelle possibilità e nelle prospettive di rapporto tra ONG del paese e organismi internazionali.

DIBATTITO

Domanda ad Antonelli

Relazioni UE - Paesi dell'est. Fra gli ultimi programmi vi sono Phare e Tacis, che prevedono interventi in campo agricolo. Come si interverrà, quale peso avranno tali interventi rispetto al resto del programma?

Antonelli

Il quesito è troppo specifico. Volevo però sottolineare la preoccupazione di molti PVS che temono che lo smantellamento del "muro" porti a una maggiore attenzione della Comunità Europea verso i paesi ex - comunisti dell'Europa dell'est e a una minore attenzione verso i paesi del sud.

Domanda

Quale spazio trova nell'"aiuto legato" il condizionamento al rispetto dei diritti umani imposto dal paese donatore e dalle organizzazioni internazionali? Mi sembra che in Lomè III vi sia una clausola che preveda che i paesi beneficiari debbano dare maggiore spazio al rispetto dei diritti umani e alla democrazia. Secondo lei quanto c'è di strumentale in clausole di questo e quanto invece possono produrre effetti positivi?

Antonelli

In Lomè III ci sono moltissimi principi pienamente condivisibili. L'uomo diventa il soggetto protagonista attorno al quale dovrebbe costruirsi lo sviluppo. C'è una nuova filosofia dello sviluppo che riflette in sostanza il dibattito degli anni precedenti e il contenuto del rapporto Pisani. Naturalmente in questa visione di uno sviluppo autosostenuto, che facesse leva sui bisogni umani, trova spazio uno dei bisogni umani fondamentali, quello della libertà, della garanzia del rispetto dell'individuo. Nella convenzione di Lomè si dà molto peso a questo principio. Gli strumenti che la UE ha a disposizione per far rispettare questo principio sono deboli. Non esistono strumenti forti. Anche perché il meccanismo di programmazione prevede che l'assegnazione dei fondi venga fatta all'inizio del periodo quinquennale. Con l'ultima convenzione di Lomè il periodo di finanziamento è di cinque anni e la durata della convenzione è di dieci. Questo credo anche per dare una risposta alle preoccupazioni dei PVS che hanno sottoscritto e che temevano uno spostamento dei fondi verso i paesi dell'est. Se risulta che un paese non rispetta i diritti umani, non so se la UE possa intervenire altrimenti che sul piano finanziario.

Baraldi

Esiste il principio di poter legare l'aiuto al rispetto dei diritti umani, ma il principio a quanto mi risulta è inapplicato. A livello internazionale ci sono stati due tentativi. Il primo è quello collegato al secondo rapporto del PNUD sui criteri della democrazia, mi sembra del 1991. A mio avviso esso è stato molto giustamente contestato dai "paesi terzi" in quanto interpretava in modo discutibile il concetto di democrazia, secondo una serie di parametri tipici della democrazia rappresentativa occidentale e quindi imponendo un'applicazione non accettabile. Il quarto rapporto, quello del 1993, lo lega invece al concetto di sviluppo umano, con una formula molto complessa spiegata nell'appendice. E ha avuto la fortuna, o forse meglio la sventura, di avere entusiasmato un sacco di persone. Non faccio un'analisi della costruzione di quella formula. Vi faccio solo notare che la "stella" mondiale tra i paesi del terzo mondo nel perseguire coerentemente lo sviluppo umano risulta essere la Corea del sud. Siccome tutti sapete cos'è la Corea del Sud, forse è bene che ci facciamo qualche perplessità sull'uso di questi schemi. Credo che sia teoricamente corretto ma semplificatorio, e a un livello di semplificazione tale da renderlo inapplicabile, il concetto di collegare l'aiuto al rispetto dei diritti umani. Forse sarebbe preferibile il concetto di slegare l'aiuto dai rapporti con il governo del paese aiutato. Ciò è ben altra cosa e vuol dire mettere in piedi ben altre forme di collaborazione.

Di Clemente

Anche se non c'è un meccanismo rigido, per cui non appena ci sia una violazione dei diritti umani l'aiuto si interrompa, tuttavia fenomeni di questo genere si danno. Io ho vissuto in un paese tipicamente violatore di diritti umani, ovvero il Guatemala, e durante il periodo in cui queste violazioni .... c'è un tribunale a Ginevra che ogni anno fa dei rapporti sui paesi nei quali si violano i diritti umani e quando c'è una condanna a quel livello, ciò ha delle ripercussioni su chi aiuta. Per esempio il Guatemala per un po' di anni non ha ricevuto aiuti proprio perché era un paese violatore dei diritti umani. Certamente come diceva Baraldi, questo è uno strumento che può anche essere usato in maniera interessata. Si può dire che un paese sta violando i diritti umani semplicemente perché ha un regime che non è in empatia o in armonia con quello del paese donatore. Nei casi di estrema violazione dei diritti umani in genere c'è una ripercussione sui flussi di aiuto. E c'è da notare che gli aiuti per i PVS costituiscono un qualcosa di fondamentale, anche per il bilancio dello stato. Il venire meno degli aiuti è una sanzione piuttosto forte, che però non sempre riesce a provocare gli effetti voluti.

Fè d'Ostiani

Un esempio che abbiamo ahimé sotto gli occhi in questi giorni è quello del Ruanda dove continuando il conflitto tra il governo e l'opposizione, rappresentata da questo fronte patriottico di liberazione basato sostanzialmente in Uganda e costituito da Tutsi, contro il governo, che è a maggioranza Hutu, già nei giorni scorsi molti donatori, tra questi la UE, avevano incominciato a ritirarsi dal paese, in termini di imposizione alle autorità locali e alle parti contendenti a trovare un accordo e costituire finalmente un governo altrimenti si sarebbero ritirati, fino al cessare delle ostilità, come è successo.

Un altro esempio di imposizione, attraverso le politiche del FMI, molto spesso anche a grandi donatori, come la UE stessa, delle formule di democrazia o di rispetto dei diritti civili che sono sostanzialmente mutuate dalla nostra cultura. Un esempio concreto è il Burundi, dove un governo che aveva sicuramente una caratterizzazione dittatoriale, comunque di scarsa democrazia formale, in mano ai Tutsi, come da sempre, è stato sostanzialmente obbligato a indire delle elezioni, come quelle del giugno scorso, dove naturalmente ha vinto la maggioranza democratica ... . Questo ha scatenato una guerra civile che si calcola abbia causato circa 100.000 morti. In quel caso l'applicazione di criteri democratici da parte della comunità internazionale e dei donatori, lascia larghi dubbi. Credo che imporre modalità e tempi molto rapidi per accelerare questo processo di democratizzazione dall'esterno secondo formule precostituite ben lontane dalle circostanze locali, a volte crea dei danni che sono estremamente pesanti. Nel caso del Burundi un governo pur massimalista e di parte stava contribuendo a un processo di ricostruzione nazionale negli ultimi 5 - 6 anni estremamente positivo e unanimemente apprezzato dalla comunità internazionale, ma non rispettoso delle formule formali della democrazia.

Marinuzzi

Interessante l'idea di connettere donatori e comunità locali, senza passare per i governi. Secondo la mia impressione, le ONG italiane, abbiano mancato di un coordinamento, rispetto agli altri paesi. Non c'è un punto di riferimento centrale dove l'esperienza accumulata possa sedimentare e creare una ricerca sulle varie forme di cooperazione, come ce ne sono in Inghilterra (..), con ricerche sul campo e anche per la Banca mondiale. A parte le questioni politiche, uscire un po' dalla frammentazione, facendo pesare la propria esperienza anche nelle università, facendo sentire la propria voce anche per avere più peso politico.

Baraldi

Sulla prima cosa mi limito a dire che certo, la soluzione dovrebbe essere di slegare la politica di cooperazione dai governi locali. Però non scambiamo un facile slogan con una difficile strategia. Anche perché lo scavalcamento ha una serie di controindicazioni piuttosto forti. Non a caso le ONG e io in particolare ci siamo opposti al tentativo di consentire per legge l'azione diretta di scavalcamento da parte del governo italiano nei confronti di ONG locali perché in Africa di ONG locali ne posso far nascere 49 al giorno. Sul secondo punto: non è vero che le ONG italiane manchino di capacità di ricerca. E' vero che hanno una storia di totale frazionismo. Questo sì. Credo che processi aggregativi siano inevitabili. Si scontrano due strategie. Una secondo me in qualche misura anche pilotata a livello centrale dal MAE che è quella di ridurre il numero delle ONG a poche. Secondo me è sbagliata.

Un'altra, che è quella di portare l'Italia alla situazione di altri paesi nei quali il numero di ONG è, in proporzione alla popolazione, anche più elevato che in Italia, ma esistono forme di aggregazione operativa e di aggregazione programmatica che consentono a ogni ONG di mantenere la sua individualità operando però come tessere di un mosaico articolato. Questa è la soluzione da spingere. Credo che in Italia le federazioni, anche la FOCSIV, abbiano svolto un grosso lavoro di ricerca di riflessione di meditazione di proposta di elaborazione e anche di tentativo di costruire dei - come li chiamo un po' presuntuosamente - dei "country programs non governativi" in rapporti organici con altri paesi.

Questo fino ad oggi ha però avuto poco impatto per due aspetti: l'eccessivo frazionamento e il protagonismo delle singole ONG, che è un aspetto reale, e questa realtà che vi ho descritto prima, di una politica fortemente condizionata dal flusso finanziario proveniente dal Ministero, facilitata dal fatto che noi s'era anche seguito una politica di frazionamento sistematico, rifiutando categoricamente di accogliere, con gli incentivi necessari e riconoscendone la maggiore ampiezza e le priorità, ogni forma di consorziamento, ogni forma di articolazione sinergica ecc.. Credo che questo forse sarà più facile in futuro, perché l'aspetto in questo senso deteriore del Ministero perde di influenza da un lato e l'altro aspetto incentivante il protagonismo separazionista viene compresso dalla difficoltà di operare da soli. Si tratta di due aspetti entrambi negativi, che però quest'effetto positivo potrebbero averlo.


ultimo aggiornamento: 8.10.00

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