Alina : Un'altra vita oltre il parco
Quel
pomeriggio di novembre era particolarmente freddo e piovoso, ma Alina non
rinunciò alla sua solita passeggiata tra i viali alberati del parco pubblico.
Indossò con serena rassegnazione il suo vecchio pastrano irto e spinoso
come il saio di un frate conventuale, allacciò tutti e tre i grandi bottoni di
corno, sollevò i baveri fin sugli zigomi e si tirò la porta alle spalle,
lasciando che i battenti si chiudessero
con un leggero tonfo. Alina era una
creatura malinconica e solitaria, parlava poco, perché pensava che a nessuno
potessero interessare le sue opinioni, vivere per lei significava lavorare e chi
la conosceva, sapeva bene quante fatiche celava quel fragile corpo. Felicità,
per Alina, era un vocabolo, una parola, che non aveva alcun significato, un
miraggio, e come tale, irraggiungibile. Vivere un’esistenza che assomigliava
ogni giorno di più ad un ripido sentiero sempre in salita, a cosa serviva o a
chi? Quando sarebbe giunta alla sommità di quel Calvario? Domande senza
risposta, le sue, bisognava andare avanti, farsi coraggio. Chi le rispondeva così,
spesso, viveva il suo stesso malessere, condivideva le sue debolezze, ma
sperava, sperava sempre in un giorno migliore. Finché c’era stata sua madre,
ogni fatica, ogni problema era stato diviso per due, ma ora, che era rimasta
completamente sola, privata di quell’unico affetto, abbandonata dal conforto
che soltanto una mamma può dare, Alina non si sentiva più parte di un mondo
così crudele. La vita, purtroppo, non
le aveva riservato molte gioie, di
veramente suo aveva solo i ricordi, in cui gli episodi dolorosi
superavano e schiacciavano i pochi momenti di felicità dell’infanzia.
Un’età assaporata appena, fagocitata da privazioni e sacrifici. Le
ultime ore di spensieratezza che Alina ricordava,
le aveva trascorse con Titina, una vecchia bambola di pannolenci e
risalivano appena ad una decina di anni prima, di quel breve periodo le
restavano solo immagini sfocate e
troppo lontane. Si sa, che in una famiglia di operai non si hanno mai molte
opportunità per giocare e lei
aveva smesso di essere una bambina quando suo padre aveva preso una brutta
malattia e aveva dovuto abbandonare il lavoro agli altiforni. Per questo e per
altri mille motivi Alina sentiva la necessità
di dover recuperare tutto quel tempo rubato ai sogni della fanciullezza,
giorno dopo giorno, passo dopo passo. Così aveva iniziato ad uscire tutti i
santi pomeriggi, dopo il lavoro. Lasciava esausta i lavatoi dell’Albergo
Imperiale e, nonostante avesse le mani gonfie, i piedi martoriati dai geloni e
le ossa a pezzi, non c’era verso che Alina potesse rinunciare a quell’unico
svago. Con ogni tempo, con la pioggia, come con il sole, con la grandine come
con la brezza primaverile, lei si trascinava fuori ignorando stanchezza ed
affanni. Non era follia,
piuttosto si trattava di un’esigenza forte quanto la fame o la sete,
perché si era accorta che durante le sue camminate nella villa comunale, ogni
peso, ogni malessere si alleggeriva e svaniva come nebbia al sole. Sotto le fulve
chiome dei frassini Alina non provava più quel disagio che l’assaliva, ad
esempio, quando si trovava al di là, oltre il
parco. Le grandi vie del centro, che era obbligata a percorrere
giornalmente quando andava a lavorare, con
le boutiques, le vetrine lucide dei
gioiellieri, l’opulenza dei caffè, aumentavano il contrasto tra lei ed il bel
mondo. Era vero, Alina, si
vergognava di essere così logora e misera, la infastidiva essere osservata
dalle belle signore eleganti, si era stancata di leggere in quei volti, il
disgusto, la pietà, la compassione. Anche
a lei sarebbe piaciuto profumare di violetta o di colonia, impazziva per i
cappellini con la veletta, desiderava un manicotto di pelliccia per nascondere
le mani deformate dalla fatica, invece le toccava vivere
ai limiti della miseria. In quel pomeriggio di novembre, Alina
passeggiava lentamente lungo i viali del parco municipale assorta nei suoi
pensieri, in bilico tra sogno e realtà, si consolava ascoltando il rumore dei
propri passi sulla ghiaia e respirando a pieni polmoni l’aria densa e fredda
che odorava di pioggia e di mirto. Immersa in quel
paesaggio autunnale così malinconico e poetico,
vagava senza contare i minuti, le ore, con la rassegnazione di una
prigioniera che abbia abbandonato ogni tentativo di fuga.
Le piaceva credere che quello fosse un luogo incantato,
come si diceva fossero i tenebrosi
boschi delle fiabe e non si sarebbe meravigliata se, d’un tratto, avesse fatto
capolino qualche spiritello silvestre tra i cespugli di bosso. In realtà udiva
solo il battito del suo piccolo cuore, incapace di emozioni, vuoto, quasi sul
punto di scoppiare dilaniato dal nulla assoluto.
Sospinta dai suoi salti di immaginazione, Alina si allontanava sempre più
da una realtà che viaggiava freneticamente a pochi passi da lei e di cui
percepiva a tratti i suoni striduli;
la città, attenuata dalla coltre
frusciante degli alberi, spariva lentamente. Alina si sentiva protetta,
tutto era così ovattato ed
etereo, anche i grandi tronchi globosi dei platani apparivano soffici e
rassicuranti. Ecco, ora udiva lo
scorrere placido dell’acqua, aveva raggiunto la vasca dei licheni;
qui il viale proseguiva
compiendo un mezzo giro intorno alla
fontana per poi inoltrarsi in un
tunnel di ferro battuto ricoperto interamente di vegetazione.
Quello era il punto preferito dalle giovani coppie di innamorati, se ne
contavano diverse abbracciate sulle panchine. Su una di esse si era appoggiato
uno strano tipo completamente avvolto in un mantello scuro. Che questi fosse un
pittore Alina ne ebbe la certezza soltanto quando vide degli schizzi di colore
appesantire il volo di una foglia e trascinarla a terra
come una farfalla verde smeraldo. Se non fosse stato per il convulso
volteggiare delle sue mani, a prima vista, si poteva pensare che il pittore
fosse un fantoccio messo lì dall’Intendenza Comunale per attirare i passanti,
inchiodato a terra, immobile come una quercia secolare.
Le sue dita plasmavano spasmodicamente i pastelli su di una grande tela
con un susseguirsi di movimenti così veloci da far pensare che fossero animate
di vita propria. Ogni gesto sembrava scaturire da una fonte d’energia
misteriosa, un uomo comune, sebbene
abile ed allenato, non sarebbe stato in grado di muoverle compiendo simili
evoluzioni. Alina,
attraversò il raggio
d’azione dell’insolito artista e si avvicinò a lui
per osservare la magia delle sue mani vibranti. Vide che il pittore
procedeva come ipnotizzato, in
preda ad una specie di estasi artistica. Stupita
si domandò quale genio ispiratore potesse guidare in modo così
vertiginoso i suoi movimenti. Non c’era da stupirsi se sulla tela non si stava
delineando nessuna immagine che assomigliasse al paesaggio circostante, il
risultato, difatti, era un ammasso
informe di colori. Fu quando una goccia di tinta blu cobalto cadde sul bavero del cappotto
che Alina decise di proseguire il
suo silenzioso peregrinare, lasciando il pittore al suo delirio.
Stava procedendo lungo un percorso lineare nel folto dei rami
intrecciati, in un buio quasi
profondo, quando improvvisamente le giunse la netta sensazione di essere
osservata, qualcuno, una presenza indefinibile, la stava scrutando al di là,
tra i cespugli scossi dal vento, ne era certa.
Appena fuori dal tunnel, Alina
ritrovò il grande viale alberato e
si trovò immersa in un chiarore
irreale, si guardò intorno e vide
che tutto era identico a tutto e, nonostante fosse ormai sera,
come si spiegava il fatto che i raggi del sole, seppure filtrati dalle
piante, potessero delineare quel
percorso che si stagliava luminoso
davanti a lei? Sebbene tutto l’insieme la inquietasse, fece appello al suo buon senso per allontanare ogni alone di
mistero e continuò a passeggiare seguendo proprio quel tragitto.
Ben presto si accorse che quel percorso la stava portando in un una parte
assolutamente sconosciuta del parco, fece per tornare indietro ma vide che
non raggiungeva mai zone conosciute, anzi, era come se un qualcosa la
spingesse a ritornare su quel viale preciso. Ciò che poco prima l’aveva tanto
incuriosita, iniziava a spaventarla sempre di più.
Quanto tempo era trascorso da quando aveva fatto ingresso nel parco? A
quell’ora il sole doveva essere già tramontato e quella luce che penetrava
oltre i rami appariva troppo fredda per essere solare, sembrava piuttosto frutto
di un qualcosa di artificiale. Stava
riflettendo proprio su questa singolarità, quando avvertì come una leggera
brezza, un odore diverso che assomigliava quasi ad un respiro. La
sua mente parve farsi piano piano più
leggera, sino a galleggiare sospinta da un soffio caldo. No, non era
più sola, sapeva che quella presenza percepita poco prima nell’oscurità,
non era illusione, da qualche
parte, invisibile, c’era un
qualcosa di indefinito che forse
voleva avere un contatto con lei. Si
girò intorno, scrutò ogni zona d’ombra,
ma non intravide nessuno,
allora diresse il suo sguardo in alto, verso le folte cime di un gruppo di
lecci, ma oltre ai soliti fruscii, non vide nulla che giustificasse le sue
impressioni. Alina sapeva di essere una creatura suggestionabile e ricca di
fantasia e quindi non si lasciò condizionare da un istinto che le ordinava di
tornare indietro e correre via, proseguì il suo lento cammino. Ma all’improvviso, proprio dietro di
lei, si sentì come un lamento, o per meglio dire, un leggero sospiro, si fermò
e lo udì di nuovo. Si voltò di
scatto pensando di sorprendere uno sconosciuto che la seguiva, ma si sbagliò,
perché non vide nessuno dietro di lei.
Istintivamente cominciò a correre, atterrita da tutta una serie di
lugubri supposizioni che andavano sovrapponendosi nella sua mente già troppo
confusa. Ma più cercava di
accelerare il passo e più sentiva le gambe farsi pesanti, le sembrava che una
energia misteriosa la stesse risucchiando verso di lei. Nel tentativo di opporsi
Alina fece appello a tutte le sue forze per contrastare quanto più poteva
quella morsa poderosa, ma ogni sforzo risultò inutile. L’affanno le toglieva il respiro, le tempie stavano per
scoppiarle ed il cuore impazzito le rimbombava nelle orecchie. Alina esausta si
abbandonò al feroce richiamo e
venne trascinata in un vortice
fatto di colori e di suoni distorti. Tra lei ed il mondo si era aperto un
baratro dal quale, forse, non sarebbe più riemersa.
La sua sostanza corporea sembrava essere svanita in un turbinio di luci
ed ombre, non poteva più guardarsi
né toccarsi, stremata si abbandonò all’oblio. Quando la danza di colori
cessò, si sentì nuovamente viva e padrona del proprio corpo,
dei propri pensieri.
Il parco era
sparito.
Elisa : colori e sensazioni
Quale
immensa tristezza provava Elisa
ogniqualvolta si ritrovava al cospetto del grande dipinto, unico ricordo di sua
nonna e della grande casa di famiglia. Come
sua nonna, Elisa si soffermava spesso ad osservare quella vecchia tela,
rammentava ancora quando le venne recapitata, anni prima, insieme ad una
enigmatica lettera in cui era scritto :
Mia carissima Elisa,
mi
sto avvicinando irrimediabilmente verso la fine dei miei giorni,
sei la mia unica sensibilissima nipote e non voglio che tu debba soffrire
per la nostra (purtroppo) inevitabile separazione. Ben poco è rimasto del
nostro patrimonio di famiglia, come già sai, ma tra le poche cose che mi
appartengono desidero che tu conservi con grande amore, come feci anch’io ai
miei tempi, questo carissimo quadro, perché per me ha significato molto. Noi non sempre siamo dove siamo e come sembriamo, ricordalo!
La vita è piena di emozioni da vivere, vivile sempre intensamente, non fuggire
mai di fronte ad un dolore e sappi che la nostra mente non conosce confini.
Esiste un modo per vivere oltre la vita, fatti trascinare dalle correnti
dell’anima e potrai dire di aver vissuto
mille vite! Addio mia piccola adorata Elisa.
Tua nonna Brunilde
Quante
e quante volte aveva riletto quelle righe tra le lacrime, l’ultimo pensiero
sua nonna lo aveva dedicato a lei,
difatti, la sera dello stesso
giorno in cui aveva scritto la lettera, Brunilde moriva.
L’avevano ritrovata il mattino seguente
rannicchiata sulla grande poltrona di velluto rosso, lo sguardo
trasognato rivolto al quadro posto
sopra il camino di pietra grigia. Elisa si chiedeva cosa rappresentasse
veramente quel dipinto per la nonna? Un suo amico esperto di anticaglie, non gli
aveva attribuito alcun valore, un olio qualunque di un pittore sconosciuto della
fine del secolo scorso, questa la sua lapidaria definizione.
Ma Elisa sapeva in cuor suo che, anche se anonimo, quel paesaggio
descritto con tinte così cupe e tormentate, nascondeva uno strano segreto e sua
nonna forse ne aveva posseduto la chiave. A suggerirle tutto ciò
era la convinzione che il quadro si presentava alquanto diverso da quello
posseduto dalla nonna. Inizialmente aveva pensato che in realtà non le fosse
stato consegnato l’originale, bensì una copia somigliante e di minor valore.
Ipotesi che scartò subito perché pensò che effettuare questa sostituzione in
un solo giorno, non era un’impresa facile, considerando che le dimensioni
della tela con tutta la cornice erano davvero imponenti. Sulla cornice, poi, non
nutriva dubbi, era certa al cento per cento, che si trattava della stessa
cornice recante gli stessi graffi ed ammaccature negli stessi punti. Eppure
qualcosa era avvenuto con la morte di nonna Brunilde, il quadro si era
modificato, doveva ancora individuare bene come, ma ci sarebbe arrivata
scandagliando nei ricordi e sfogliando le foto di famiglia in cui certamente era
stato ritratto. Inoltre c’era la lettera scritta in punto di morte, che
sicuramente poteva celare un significato ben superiore a qualsiasi umana
aspettativa. Ma forse le sue erano
solo delle sciocche fantasticherie,
la nonna era una donna talmente vitale che era difficile immaginarla alle
prese con teorie metafisiche sui poteri reconditi della mente.
Nella sua famiglia non si erano mai discussi argomenti che sfiorassero
minimamente il paranormale, tutti erano estremamente razionali e concreti. Vite
come tante altre, previste e prevedibili in ogni piccolo particolare, persone
che si erano fatte clonare da una
società ipocrita ed opportunista. Ma
Elisa era diversa dai suoi familiari, per questo la nonna
aveva sempre cercato di proteggerla e ricoprirla
di affettuose attenzioni, perché lei, diceva, era una bambina davvero
speciale. Nei momenti in cui la
nostalgia si faceva insostenibile, Elisa
era solita fermarsi in religioso silenzio ad osservare quel caro oggetto, perché
riteneva che fosse il modo migliore per accostarsi al ricordo di nonna Brunilde.
Rammentava di
averla sorpresa parecchie volte con quei suoi grandi occhi scuri persi
nei riflessi e nei giochi di luce riprodotti nel dipinto. Come
per poter ristabilire un qualsiasi contatto con la sua cara nonna, Elisa
trascorreva sempre più tempo a studiare ogni immagine, ogni particolare del
quadro, che sembrava mostrarle giorno per giorno aspetti sempre diversi.
Divorata come da una delirante ossessione, andava ripetendo a se stessa
che, quello, doveva essere il mezzo destinato a ridare pace alla sua anima
tormentata. L’istinto aveva
sempre guidato ogni sua azione e, da quando quel dipinto era entrato a far parte
della sua vita, era fermamente
convinta che in esso si nascondesse
uno specchio proiettato su un’altra dimensione d’esistenza e che sua nonna
lo aveva offerto a lei con l’intenzione
di farle varcare la soglia di questo mondo,
per consentirle di viaggiare oltre gli schemi che la razionalità impone. Nessuno immaginava che non erano lo stress né la depressione
i mali da cui era afflitta.
Elisa si stava consumando nell’inutile corsa dietro ad un sogno
impossibile. Che fosse una donna romantica e ricca di immaginazione era ormai
noto in famiglia, ma da un po’ di tempo Elisa faceva discorsi strani, parlava
di un certo terzo occhio, di energie, auree e via dicendo. Credendo che si fosse
fatta plagiare da qualche setta non ben identificata, i suoi fratelli decisero
di comune accordo di rivolgersi ad uno psicanalista. Furono consigliati di
persuadere Elisa a sottoporsi ad una terapia di psicanalisi ed usarono tutte le
tecniche di convinzione possibili, ma fallirono in pieno. Elisa si trincerò
ancora di più dietro quel muro di silenzi che aveva eretto intorno a sé e
loro, sconfitti, dopo averla ricoperta di ultimatum, la lasciarono sola e
finalmente in pace. La vita di Elisa si era come rallentata, le sue uscite
diventavano sempre meno frequenti. Quando non ne poteva proprio fare a meno si
tuffava di malavoglia nella confusione di uno dei tanti centri commerciali
e questo accadeva una volta al mese, allorché nel frigo e nella dispensa
restava soltanto la polvere. Riempiva il carrello al punto di non riuscire più
nemmeno a sospingerlo, caricava
tutto nella sua vecchia utilitaria e si precipitava a casa. Giunta nel suo
rifugio, si distendeva sul sofà,
metteva un sottofondo
musicale che l’aiutava a rilassarsi e si lasciava andare alla meditazione, la
sua palestra dei pensieri. Dopo qualche minuto di concentrazione scivolava in una specie
di limbo dal quale si risvegliava sempre con lo stesso desiderio,
riuscire a capire cosa vedeva sua nonna in quel paesaggio autunnale.
Soggiogata come da una sottile melodia, accarezzava con gli occhi la figura
femminile che si intravedeva sola tra
gli alberi, ne subiva il suo fascino, in lei c’era un qualcosa di inquietante
e nel contempo di particolarmente familiare.
Quel volto appena accennato chi doveva ritrarre?
Viaggiare con la mente non le era servito a saperne di più, forse doveva
ancora perfezionarsi oppure la soluzione era ancora troppo lontana. E pensare
che tutte queste sue smanie di conoscenza avevano
avuto origine un giorno di marzo, per caso.
Ricordava che era un sabato pomeriggio, pioveva a dirotto ed Elisa era
stata costretta a ripararsi in una libreria
del centro. Si inoltrò nella
semi-penombra del locale e fu
subito accolta da uno strano odore di polvere mista ad un aroma intenso, che
doveva essere l’essenza del legno lucidato a nuovo. Ispezionò velocemente la
sala e si accorse che era interamente
rivestita di scaffali di legno massiccio che si innalzavano sino al soffitto,
lavorato a cassettoni. L’atmosfera era densa, quasi palpabile, gli
unici rumori che perforavano questa
coltre fuliginosa erano il ticchettio della pioggia sull’asfalto ed i continui
colpettini di tosse intonati dall’anziano libraio, il quale probabilmente
aveva i polmoni intrisi di polvere.
Ad Elisa, che non amava i luoghi chiusi, parve
quasi di soffocare, per cui decise che era molto meglio
tornare fuori e magari affrontare l’acquazzone piuttosto che restare lì
in apnea. Uscì velocemente
come era entrata e cercò in qualche modo di
scusarsi per aver infranto quel religioso silenzio con il “cik-ciak”
delle sue scarpe di gomma sul parquet, acquistando il primo libro che le capitò
tra le mani. Dopodiché corse via. Giunta a casa si preoccupò di scoprire ciò
che aveva comprato così alla cieca e constatò che si trattava di un volumetto
intitolato “I grandi iniziati”, dalla copertina arabescata e mezza
scolorita. Passarono diverse
settimane prima che Elisa si ricordò di averlo depositato sulla mensola dei
libri “in attesa”, ma una
mattina, mentre era impegnata nelle sue pulizie periodiche si ritrovò ancora
una volta il libro tra le mani ed incuriosita iniziò a leggerlo. Fu il primo
gesto verso quel processo di introspezione che la allontanò dal suo modo di
vivere abituale. Da quel momento il suo obiettivo divenne ampliare la panoramica
sulla spiritualità umana. A quel
primo libro ne seguirono tanti altri, parecchi
dei quali furono acquistati proprio in quella libreria del centro. Smise di
frequentare gli amici di sempre per rintanarsi in casa e sprofondarsi nella
lettura. Fortunatamente il suo lavoro non le creava problemi,
fare la decoratrice nella piccola fabbrica di ceramiche di sua cognata le
consentiva di estraniarsi senza che nessuno se ne accorgesse più di tanto.
Ormai gli ornamenti e le volute le riuscivano automaticamente e senza sbavature.
I problemi sorgevano quanto giungeva l’ora di staccare e tornare a casa, i
suoi colleghi, spesso, erano costretti a chiamarla più volte, perché ad Elisa,
con il walkman a tutto volume, era difficile sentire la sirena. Le risultava
molto complicato spiegare a chi la conosceva ciò che provava da un po’ di
tempo. Aveva la sensazione che un
qualcosa le stesse crescendo dentro, stava interiorizzandosi troppo, percepiva
il flusso della sua linfa vitale, i canali di energia che le attraversavano il
corpo durante lo stato di concentrazione. Bisognava ammetterlo, non era più la
stessa, la sua visione del mondo era totalmente mutata. La verità, forse, era
che nella sua famiglia aleggiava il
gene della follia, ma era difficile ammetterlo a
se stessa. Figurarsi pazza e priva di coscienza, la terrorizzava, cosa le
sarebbe capitato? Ogni giorno che passava sentiva quel malefico seme germogliare
in lei, solleticarle l’anima,
appropriarsi della sua volontà tanto da lasciarla
indifesa e confusa. L’allegria ed il buon umore dell’Elisa di un tempo erano
svanite lentamente. Tutto il suo essere si era
frantumato in tante piccole tessere e lei non aveva più la facoltà di
ricostruirsi. La parte vigile della sua coscienza le chiedeva aiuto, cercava una
via di scampo per non affondare nell’alienazione, per non azzerare quel
briciolo di razionalità che le restava. Ma
il tempo passava e per Elisa era
sempre più difficile sottrarsi al richiamo del quadro di nonna Brunilde, il dipinto era lì, appeso
davanti a lei, occupava gran parte
della parete principale della sala da pranzo e sembrava chiamarla, desiderava la
sua attenzione, esisteva per un suo sguardo!
E venne un giorno in cui
Elisa fu assalita da una strana
sensazione, nell’analizzare l’immagine ormai protagonista di ogni suo
pensiero, provò un leggero sbandamento, le mancò l’equilibrio e decise che
era molto meglio distendersi sul divano. Non
le servì chiudere gli occhi ed abbandonarsi alle tecniche di rilassamento. Il
malessere aumentava, si faceva strada nel suo corpo travolgendo ogni resistenza, Elisa temeva che questo strano
fuoco le potesse divorarle l’anima. Si fece forza per cercare di non perdere i
sensi e nonostante fosse scossa da ondate di brividi e tremori, come in preda
alla febbre alta, continuò tenacemente a fissare l’oggetto del suo tormento.
Stava lottando contro un ignoto avversario, non sapeva se ne sarebbe
uscita, ma lei non mollava la presa, ora no, ora che era giunta alla risoluzione
di questa enigma. Pensava di
essersi preparata abbastanza per affrontare una simile circostanza, così
spalancò gli occhi ricordando ciò
che le aveva raccomandato sua nonna. No, non sarebbe mai fuggita di fronte a
nulla! Sotto l’intensità del suo
sguardo la materia di cui era composto il quadro iniziò a contorcersi,
deformandosi in un qualcosa di indefinito. La possente cornice dorata si mise a
scricchiolare minacciando di rompersi in mille pezzi, anche il resto della tela
sembrava che stesse quasi per esplodere animata da una potenza invisibile.
Il contatto si era stabilito, Elisa
ed il quadro erano un tutto unico e non era più possibile tornare indietro. Se
fosse sopravvissuta a quell’esperienza, di certo non avrebbe più osservato
quadri in vita sua, maledicendo la sua ostinazione Elisa cercava di prepararsi
al peggio. Mentre restava galvanizzata sul divano,
tutta la stanza sembrò essere stata presa d’assedio da un ciclone di
suoni e colori. Quanto tempo trascorse in quello stato, Elisa non lo seppe mai,
ma giunse finalmente il momento in cui quel brulicare di forme cessò.
Contemporaneamente la stanza fu invasa da una ventata di aria fredda ed un
penetrante odore di muschio, Elisa,
con gli occhi ancora spalancati e quasi paralizzati dalla tensione, avvertì una
presenza, ma impiegò qualche secondo per focalizzare
bene le immagini. Non si sbagliava, nella stanza non era più sola e chi le era
dinanzi le sorrideva amorevolmente. Ora Elisa sapeva che un tempo sua nonna
Brunilde era stata Alina.
Il quadro
era sparito.
FINE
Arthemisia