Blu cobalto

Pinacoteca del '900

Alina : Un'altra vita oltre il parco       

Quel pomeriggio di novembre era particolarmente freddo e piovoso, ma Alina non rinunciò alla sua solita passeggiata tra i viali alberati del parco pubblico.  Indossò con serena rassegnazione il suo vecchio pastrano irto e spinoso come il saio di un frate conventuale, allacciò tutti e tre i grandi bottoni di corno, sollevò i baveri fin sugli zigomi e si tirò la porta alle spalle,  lasciando che i battenti si chiudessero  con un leggero tonfo. Alina era  una creatura malinconica e solitaria, parlava poco, perché pensava che a nessuno potessero interessare le sue opinioni, vivere per lei significava lavorare e chi la conosceva, sapeva bene quante fatiche celava quel fragile corpo. Felicità, per Alina, era un vocabolo, una parola, che non aveva alcun significato, un miraggio, e come tale, irraggiungibile. Vivere un’esistenza che assomigliava ogni giorno di più ad un ripido sentiero sempre in salita, a cosa serviva o a chi? Quando sarebbe giunta alla sommità di quel Calvario? Domande senza risposta, le sue, bisognava andare avanti, farsi coraggio. Chi le rispondeva così, spesso, viveva il suo stesso malessere, condivideva le sue debolezze, ma sperava, sperava sempre in un giorno migliore. Finché c’era stata sua madre, ogni fatica, ogni problema era stato diviso per due, ma ora, che era rimasta completamente sola, privata di quell’unico affetto, abbandonata dal conforto che soltanto una mamma può dare, Alina non si sentiva più parte di un mondo così crudele. La vita, purtroppo,  non le aveva riservato molte gioie,  di veramente suo aveva solo i ricordi, in cui gli episodi dolorosi  superavano e schiacciavano i pochi momenti di felicità dell’infanzia.  Un’età assaporata appena, fagocitata da privazioni e sacrifici. Le ultime ore di spensieratezza che Alina ricordava,  le aveva trascorse con Titina, una vecchia bambola di pannolenci e risalivano appena ad una decina di anni prima, di quel breve periodo le restavano solo  immagini sfocate e troppo lontane. Si sa, che in una famiglia di operai non si hanno mai molte opportunità  per giocare e lei aveva smesso di essere una bambina quando suo padre aveva preso una brutta malattia e aveva dovuto abbandonare il lavoro agli altiforni. Per questo e per altri mille motivi Alina sentiva la necessità  di dover recuperare tutto quel tempo rubato ai sogni della fanciullezza, giorno dopo giorno, passo dopo passo. Così aveva iniziato ad uscire tutti i santi pomeriggi, dopo il lavoro. Lasciava esausta i lavatoi dell’Albergo Imperiale e, nonostante avesse le mani gonfie, i piedi martoriati dai geloni e le ossa a pezzi, non c’era verso che Alina potesse rinunciare a quell’unico svago. Con ogni tempo, con la pioggia, come con il sole, con la grandine come con la brezza primaverile, lei si trascinava fuori ignorando stanchezza ed affanni.  Non era follia,  piuttosto si trattava di un’esigenza forte quanto la fame o la sete, perché si era accorta che durante le sue camminate nella villa comunale, ogni peso, ogni malessere  si alleggeriva e svaniva come nebbia al sole. Sotto le fulve chiome dei frassini Alina non provava più quel disagio che l’assaliva, ad esempio, quando si trovava al di là, oltre il  parco. Le grandi vie del centro, che era obbligata a percorrere giornalmente quando andava a lavorare,  con le  boutiques, le vetrine lucide dei gioiellieri, l’opulenza dei caffè, aumentavano il contrasto tra lei ed il bel mondo. Era vero, Alina,  si vergognava di essere così logora e misera, la infastidiva essere osservata dalle belle signore eleganti, si era stancata di leggere in quei volti, il disgusto, la pietà, la compassione.  Anche a lei sarebbe piaciuto profumare di violetta o di colonia, impazziva per i cappellini con la veletta, desiderava un manicotto di pelliccia per nascondere le mani deformate dalla fatica, invece le toccava vivere  ai limiti della miseria. In quel pomeriggio di novembre, Alina passeggiava lentamente lungo i viali del parco municipale assorta nei suoi pensieri, in bilico tra sogno e realtà, si consolava ascoltando il rumore dei propri passi sulla ghiaia e respirando a pieni polmoni l’aria densa e fredda  che odorava di pioggia e di mirto. Immersa in quel  paesaggio autunnale così malinconico e poetico,  vagava senza contare i minuti, le ore, con la rassegnazione di una prigioniera che abbia abbandonato ogni tentativo di fuga.  Le piaceva credere che quello fosse un luogo incantato,  come si diceva fossero i  tenebrosi boschi delle fiabe e non si sarebbe meravigliata se, d’un tratto, avesse fatto capolino qualche spiritello silvestre tra i cespugli di bosso. In realtà udiva solo il battito del suo piccolo cuore, incapace di emozioni, vuoto, quasi sul punto di scoppiare dilaniato dal nulla assoluto.  Sospinta dai suoi salti di immaginazione, Alina si allontanava sempre più da una realtà che viaggiava freneticamente a pochi passi da lei e di cui percepiva a tratti i suoni  striduli; la città,  attenuata dalla coltre frusciante degli alberi, spariva lentamente. Alina si sentiva protetta,  tutto era così ovattato  ed etereo, anche i grandi tronchi globosi dei platani apparivano soffici e rassicuranti.  Ecco, ora udiva lo scorrere placido dell’acqua, aveva raggiunto la vasca dei licheni;  qui il viale  proseguiva compiendo un mezzo giro intorno  alla fontana  per poi inoltrarsi in un tunnel di ferro battuto ricoperto interamente di vegetazione.  Quello era il punto preferito dalle giovani coppie di innamorati, se ne contavano diverse abbracciate sulle panchine. Su una di esse si era appoggiato uno strano tipo completamente avvolto in un mantello scuro. Che questi fosse un pittore Alina ne ebbe la certezza soltanto quando vide degli schizzi di colore appesantire il volo di una foglia e trascinarla a terra  come una farfalla verde smeraldo. Se non fosse stato per il convulso volteggiare delle sue mani, a prima vista, si poteva pensare che il pittore fosse un fantoccio messo lì dall’Intendenza Comunale per attirare i passanti,  inchiodato a terra, immobile come una quercia secolare.  Le sue dita plasmavano spasmodicamente i pastelli su di una grande tela con un susseguirsi di movimenti così veloci da far pensare che fossero animate di vita propria. Ogni gesto sembrava scaturire da una fonte d’energia misteriosa,  un uomo comune, sebbene abile ed allenato, non sarebbe stato in grado di  muoverle compiendo simili  evoluzioni.  Alina,  attraversò  il raggio d’azione dell’insolito artista e si avvicinò a lui  per osservare la magia delle sue mani vibranti. Vide che il pittore procedeva  come ipnotizzato, in preda ad una specie di estasi artistica. Stupita  si domandò quale genio ispiratore potesse guidare in modo così vertiginoso i suoi movimenti. Non c’era da stupirsi se sulla tela non si stava delineando nessuna immagine che assomigliasse al paesaggio circostante, il risultato, difatti,  era un ammasso informe di colori. Fu quando una goccia di tinta blu cobalto cadde sul bavero del cappotto che Alina decise di  proseguire il suo silenzioso peregrinare, lasciando il pittore al suo delirio.  Stava procedendo lungo un percorso lineare nel folto dei rami intrecciati, in un  buio quasi profondo, quando improvvisamente le giunse la netta sensazione di essere osservata, qualcuno, una presenza indefinibile, la stava scrutando al di là, tra i cespugli scossi dal vento, ne era certa.  Appena fuori dal tunnel,  Alina ritrovò  il grande viale alberato e si trovò immersa  in un chiarore irreale,  si guardò intorno e vide che tutto era identico a tutto e, nonostante fosse ormai sera,  come si spiegava il fatto che i raggi del sole, seppure filtrati dalle piante, potessero delineare quel percorso  che si stagliava luminoso davanti a lei?  Sebbene tutto l’insieme la inquietasse,  fece appello al suo buon senso per allontanare ogni alone di mistero e continuò a passeggiare seguendo proprio quel tragitto.  Ben presto si accorse che quel percorso la stava portando in un una parte assolutamente sconosciuta del parco, fece per tornare indietro ma vide che  non raggiungeva mai zone conosciute, anzi, era come se un qualcosa la spingesse a ritornare su quel viale preciso. Ciò che poco prima l’aveva tanto incuriosita, iniziava a spaventarla sempre di più.  Quanto tempo era trascorso da quando aveva fatto ingresso nel parco? A quell’ora il sole doveva essere già tramontato e quella luce che penetrava oltre i rami appariva troppo fredda per essere solare, sembrava piuttosto frutto di un qualcosa di artificiale.  Stava riflettendo proprio su questa singolarità, quando avvertì come una leggera brezza, un odore diverso che assomigliava quasi ad un respiro. La  sua mente parve farsi piano piano più  leggera, sino a galleggiare sospinta da un soffio caldo. No, non era  più sola, sapeva che quella presenza percepita poco prima nell’oscurità, non era illusione,  da qualche parte,  invisibile, c’era un qualcosa  di indefinito che forse voleva avere un contatto con lei.  Si girò intorno, scrutò ogni zona d’ombra,  ma  non intravide nessuno, allora diresse il suo sguardo in alto, verso le folte cime di un gruppo di lecci, ma oltre ai soliti fruscii, non vide nulla che giustificasse le sue impressioni. Alina sapeva di essere una creatura suggestionabile e ricca di fantasia e quindi non si lasciò condizionare da un istinto che le ordinava di tornare indietro e correre via,  proseguì  il suo lento cammino. Ma all’improvviso, proprio dietro di lei, si sentì come un lamento, o per meglio dire, un leggero sospiro, si fermò e lo udì di nuovo. Si  voltò di scatto pensando di sorprendere uno sconosciuto che la seguiva, ma si sbagliò, perché non vide nessuno dietro di lei.   Istintivamente cominciò a correre, atterrita da tutta una serie di lugubri supposizioni che andavano sovrapponendosi nella sua mente già troppo confusa.  Ma più cercava di accelerare il passo e più sentiva le gambe farsi pesanti, le sembrava che una energia misteriosa la stesse risucchiando verso di lei. Nel tentativo di opporsi Alina fece appello a tutte le sue forze per contrastare quanto più poteva quella morsa poderosa, ma ogni sforzo risultò inutile.  L’affanno le toglieva il respiro, le tempie stavano per scoppiarle ed il cuore impazzito le rimbombava nelle orecchie. Alina esausta si abbandonò al  feroce richiamo e venne trascinata  in un vortice fatto di colori e di suoni distorti. Tra lei ed il mondo si era aperto un baratro dal quale, forse, non sarebbe più riemersa.  La sua sostanza corporea sembrava essere svanita in un turbinio di luci ed ombre,  non poteva più guardarsi né toccarsi, stremata si abbandonò all’oblio. Quando la danza di colori  cessò, si sentì nuovamente viva e padrona del proprio corpo,  dei propri pensieri.

Il parco era sparito.                                    

Elisa : colori e sensazioni

Quale immensa tristezza provava  Elisa ogniqualvolta si ritrovava al cospetto del grande dipinto, unico ricordo di sua nonna e della grande casa di famiglia.  Come sua nonna, Elisa si soffermava spesso ad osservare quella vecchia tela,  rammentava ancora quando le venne recapitata, anni prima, insieme ad una enigmatica lettera in cui era scritto :          

  Mia carissima Elisa,  

mi  sto avvicinando irrimediabilmente verso la fine dei miei giorni,  sei la mia unica sensibilissima nipote e non voglio che tu debba soffrire per la nostra (purtroppo) inevitabile separazione. Ben poco è rimasto del nostro patrimonio di famiglia, come già sai, ma tra le poche cose che mi appartengono desidero che tu conservi con grande amore, come feci anch’io ai miei tempi, questo carissimo quadro, perché per me ha significato molto.  Noi non sempre siamo dove siamo e come sembriamo, ricordalo! La vita è piena di emozioni da vivere, vivile sempre intensamente, non fuggire mai di fronte ad un dolore e sappi che la nostra mente non conosce confini. Esiste un modo per vivere oltre la vita, fatti trascinare dalle correnti dell’anima e potrai dire di aver vissuto  mille vite! Addio mia piccola adorata Elisa.               

Tua nonna Brunilde

Quante e quante volte aveva riletto quelle righe tra le lacrime, l’ultimo pensiero sua nonna lo aveva dedicato  a lei, difatti,  la sera dello stesso giorno in cui aveva scritto la lettera, Brunilde moriva.  L’avevano ritrovata il mattino seguente  rannicchiata sulla grande poltrona di velluto rosso, lo sguardo trasognato rivolto al  quadro posto  sopra il camino di pietra grigia. Elisa si chiedeva cosa rappresentasse veramente quel dipinto per la nonna? Un suo amico esperto di anticaglie, non gli aveva attribuito alcun valore, un olio qualunque di un pittore sconosciuto della fine del secolo scorso, questa la sua lapidaria definizione.  Ma Elisa sapeva in cuor suo che, anche se anonimo, quel paesaggio descritto con tinte così cupe e tormentate, nascondeva uno strano segreto e sua nonna forse ne aveva posseduto la chiave. A suggerirle tutto ciò  era la convinzione che il quadro si presentava alquanto diverso da quello posseduto dalla nonna. Inizialmente aveva pensato che in realtà non le fosse stato consegnato l’originale, bensì una copia somigliante e di minor valore. Ipotesi che scartò subito perché pensò che effettuare questa sostituzione in un solo giorno, non era un’impresa facile, considerando che le dimensioni della tela con tutta la cornice erano davvero imponenti. Sulla cornice, poi, non nutriva dubbi, era certa al cento per cento, che si trattava della stessa cornice recante gli stessi graffi ed ammaccature negli stessi punti. Eppure qualcosa era avvenuto con la morte di nonna Brunilde, il quadro si era modificato, doveva ancora individuare bene come, ma ci sarebbe arrivata scandagliando nei ricordi e sfogliando le foto di famiglia in cui certamente era stato ritratto. Inoltre c’era la lettera scritta in punto di morte, che sicuramente poteva celare un significato ben superiore a qualsiasi umana aspettativa.  Ma forse le sue erano solo delle  sciocche fantasticherie,  la nonna era una donna talmente vitale che era difficile immaginarla alle prese con teorie metafisiche sui poteri reconditi della mente.  Nella sua famiglia non si erano mai discussi argomenti che sfiorassero minimamente il paranormale, tutti erano estremamente razionali e concreti. Vite come tante altre, previste e prevedibili in ogni piccolo particolare, persone che si erano fatte clonare  da una società ipocrita ed opportunista.   Ma Elisa era diversa dai suoi familiari, per questo la nonna  aveva sempre cercato di proteggerla e ricoprirla  di affettuose attenzioni, perché lei, diceva, era una bambina davvero speciale.  Nei momenti in cui la nostalgia si faceva insostenibile,  Elisa era solita fermarsi in religioso silenzio ad osservare quel caro oggetto, perché riteneva che fosse il modo migliore per accostarsi al ricordo di nonna Brunilde. Rammentava  di  averla sorpresa parecchie volte con quei suoi grandi occhi scuri persi nei riflessi e nei giochi di luce riprodotti nel dipinto. Come  per poter ristabilire un qualsiasi contatto con la sua cara nonna, Elisa trascorreva sempre più tempo a studiare ogni immagine, ogni particolare del quadro, che sembrava mostrarle giorno per giorno aspetti sempre diversi.  Divorata come da una delirante ossessione, andava ripetendo a se stessa che, quello, doveva essere il mezzo destinato a ridare pace alla sua anima tormentata.  L’istinto aveva sempre guidato ogni sua azione e, da quando quel dipinto era entrato a far parte della sua vita,  era fermamente convinta che in  esso si nascondesse uno specchio proiettato su un’altra dimensione d’esistenza e che sua nonna lo aveva offerto a lei con  l’intenzione di farle varcare la soglia di questo mondo,  per consentirle di viaggiare oltre gli schemi che la razionalità impone.  Nessuno immaginava che non erano lo stress né la depressione i mali  da cui era afflitta.  Elisa si stava consumando nell’inutile corsa dietro ad un sogno impossibile. Che fosse una donna romantica e ricca di immaginazione era ormai noto in famiglia, ma da un po’ di tempo Elisa faceva discorsi strani, parlava di un certo terzo occhio, di energie, auree e via dicendo. Credendo che si fosse fatta plagiare da qualche setta non ben identificata, i suoi fratelli decisero di comune accordo di rivolgersi ad uno psicanalista. Furono consigliati di persuadere Elisa a sottoporsi ad una terapia di psicanalisi ed usarono tutte le tecniche di convinzione possibili, ma fallirono in pieno. Elisa si trincerò ancora di più dietro quel muro di silenzi che aveva eretto intorno a sé e loro, sconfitti, dopo averla ricoperta di ultimatum, la lasciarono sola e finalmente in pace. La vita di Elisa si era come rallentata, le sue uscite diventavano sempre meno frequenti. Quando non ne poteva proprio fare a meno si tuffava di malavoglia nella confusione di uno dei tanti centri commerciali  e questo accadeva una volta al mese, allorché nel frigo e nella dispensa restava soltanto la polvere. Riempiva il carrello al punto di non riuscire più nemmeno a sospingerlo,  caricava tutto nella sua vecchia utilitaria e si precipitava a casa. Giunta nel suo rifugio,  si distendeva sul sofà,  metteva  un sottofondo musicale che l’aiutava a rilassarsi e si lasciava andare alla meditazione, la sua palestra dei pensieri.  Dopo qualche minuto di concentrazione scivolava in una specie di limbo dal quale si risvegliava sempre con lo stesso desiderio,  riuscire a capire cosa vedeva sua nonna in quel paesaggio autunnale. Soggiogata come da una sottile melodia, accarezzava con gli occhi la figura femminile che si intravedeva sola  tra gli alberi, ne subiva il suo fascino, in lei c’era un qualcosa di inquietante e nel contempo di particolarmente familiare.  Quel volto appena accennato chi doveva ritrarre?  Viaggiare con la mente non le era servito a saperne di più, forse doveva ancora perfezionarsi oppure la soluzione era ancora troppo lontana. E pensare che tutte queste sue smanie di conoscenza  avevano avuto origine un giorno di marzo, per caso.  Ricordava che era un sabato pomeriggio, pioveva a dirotto ed Elisa era stata costretta a ripararsi in una  libreria del centro.  Si inoltrò nella semi-penombra del locale e  fu subito accolta da uno strano odore di polvere mista ad un aroma intenso, che doveva essere l’essenza del legno lucidato a nuovo. Ispezionò velocemente la sala e si accorse che era  interamente rivestita di scaffali di legno massiccio che si innalzavano sino al soffitto,  lavorato a cassettoni. L’atmosfera era densa, quasi palpabile, gli unici rumori  che perforavano questa coltre fuliginosa erano il ticchettio della pioggia sull’asfalto ed i continui colpettini di tosse intonati dall’anziano libraio, il quale probabilmente aveva i polmoni  intrisi di polvere.  Ad Elisa, che non amava i luoghi chiusi, parve  quasi di soffocare, per cui decise che era molto meglio  tornare fuori e magari affrontare l’acquazzone piuttosto che restare lì  in apnea.  Uscì velocemente come era entrata e cercò in qualche modo di  scusarsi per aver infranto quel religioso silenzio con il “cik-ciak” delle sue scarpe di gomma sul parquet, acquistando il primo libro che le capitò tra le mani. Dopodiché corse via. Giunta a casa si preoccupò di scoprire ciò che aveva comprato così alla cieca e constatò che si trattava di un volumetto intitolato “I grandi iniziati”, dalla copertina arabescata e mezza scolorita.  Passarono diverse settimane prima che Elisa si ricordò di averlo depositato sulla mensola dei libri “in attesa”,  ma una mattina, mentre era impegnata nelle sue pulizie periodiche si ritrovò ancora una volta il libro tra le mani ed incuriosita iniziò a leggerlo. Fu il primo gesto verso quel processo di introspezione che la allontanò dal suo modo di vivere abituale. Da quel momento il suo obiettivo divenne ampliare la panoramica sulla spiritualità umana.  A quel primo libro ne seguirono tanti altri,  parecchi dei quali furono acquistati proprio in quella libreria del centro. Smise di frequentare gli amici di sempre per rintanarsi in casa e sprofondarsi nella lettura. Fortunatamente il suo lavoro non le creava problemi,  fare la decoratrice nella piccola fabbrica di ceramiche di sua cognata le consentiva di estraniarsi senza che nessuno se ne accorgesse più di tanto. Ormai gli ornamenti e le volute le riuscivano automaticamente e senza sbavature. I problemi sorgevano quanto giungeva l’ora di staccare e tornare a casa, i suoi colleghi, spesso, erano costretti a chiamarla più volte, perché ad Elisa, con il walkman a tutto volume, era difficile sentire la sirena. Le risultava molto complicato spiegare a chi la conosceva ciò che provava da un po’ di tempo.  Aveva la sensazione che un qualcosa le stesse crescendo dentro, stava interiorizzandosi troppo, percepiva il flusso della sua linfa vitale, i canali di energia che le attraversavano il corpo durante lo stato di concentrazione. Bisognava ammetterlo, non era più la stessa, la sua visione del mondo era totalmente mutata. La verità, forse, era che  nella sua famiglia aleggiava il gene della follia, ma era difficile ammetterlo a  se stessa. Figurarsi pazza e priva di coscienza, la terrorizzava, cosa le sarebbe capitato? Ogni giorno che passava sentiva quel malefico seme germogliare in lei,  solleticarle l’anima, appropriarsi della sua volontà tanto da  lasciarla indifesa e confusa. L’allegria ed il buon umore dell’Elisa di un tempo erano svanite lentamente. Tutto il suo essere si era  frantumato in tante piccole tessere e lei non aveva più la facoltà di ricostruirsi. La parte vigile della sua coscienza le chiedeva aiuto, cercava una via di scampo per non affondare nell’alienazione, per non azzerare quel briciolo di razionalità che le restava.  Ma il tempo passava e  per Elisa era sempre più difficile sottrarsi al richiamo del  quadro di nonna Brunilde, il dipinto  era lì,  appeso davanti a  lei, occupava gran parte della parete principale della sala da pranzo e sembrava chiamarla, desiderava la sua attenzione, esisteva per un suo sguardo!  E venne  un giorno in cui Elisa  fu assalita da una strana sensazione, nell’analizzare l’immagine ormai protagonista di ogni suo pensiero, provò un leggero sbandamento, le mancò l’equilibrio e decise che era molto meglio distendersi sul divano.  Non le servì chiudere gli occhi ed abbandonarsi alle tecniche di rilassamento. Il malessere aumentava, si faceva strada nel suo corpo  travolgendo ogni resistenza, Elisa temeva che questo strano fuoco le potesse divorarle l’anima. Si fece forza per cercare di non perdere i sensi e nonostante fosse scossa da ondate di brividi e tremori, come in preda alla febbre alta, continuò tenacemente a fissare l’oggetto del suo tormento.  Stava lottando contro un ignoto avversario, non sapeva se ne sarebbe uscita, ma lei non mollava la presa, ora no, ora che era giunta alla risoluzione di questa enigma.  Pensava di essersi preparata abbastanza per affrontare una simile circostanza, così spalancò  gli occhi ricordando ciò che le aveva raccomandato sua nonna. No, non sarebbe mai fuggita di fronte a nulla!  Sotto l’intensità del suo sguardo la materia di cui era composto il quadro iniziò a contorcersi, deformandosi in un qualcosa di indefinito. La possente cornice dorata si mise a scricchiolare minacciando di rompersi in mille pezzi, anche il resto della tela sembrava che stesse quasi per esplodere animata da una potenza invisibile.  Il contatto si era stabilito,  Elisa ed il quadro erano un tutto unico e non era più possibile tornare indietro. Se fosse sopravvissuta a quell’esperienza, di certo non avrebbe più osservato quadri in vita sua, maledicendo la sua ostinazione Elisa cercava di prepararsi al peggio. Mentre restava galvanizzata sul divano,  tutta la stanza sembrò essere stata presa d’assedio da un ciclone di suoni e colori. Quanto tempo trascorse in quello stato, Elisa non lo seppe mai, ma giunse finalmente il momento in cui quel brulicare di forme cessò. Contemporaneamente la stanza fu invasa da una ventata di aria fredda ed un penetrante odore di muschio,  Elisa, con gli occhi ancora spalancati e quasi paralizzati dalla tensione, avvertì una presenza, ma impiegò qualche secondo per  focalizzare bene le immagini. Non si sbagliava, nella stanza non era più sola e chi le era dinanzi le sorrideva amorevolmente. Ora Elisa sapeva che un tempo sua nonna Brunilde  era stata Alina. 

Il quadro era sparito.

FINE

Arthemisia