Il disturbo borderline di personalità in adolescenza

Quesiti diagnostici ed evolutivi

Massimo Ammaniti, Sergio Muscetta

Introduzione

      Il concetto di disturbo borderline nell'infanzia e nell'adolescenza, nonostante una crescente mole di studi e di ricerche, continua a rimanere un concetto a tutt'oggi controverso sia perchè non disponiamo di dati empirici sufficienti a sostenere il concetto di disturbo borderline di personalità come entità diagnostica definita nell'infanzia e nell'adolescenza sia perchè, se si tiene presente che stabilità e pervasività per i disturbi di personalità sono le caratteristiche generali dei modelli disadattivi di confrontarsi con le esperienze e con le relazioni, ebbene è noto che proprio in adolescenza si è in una fase del ciclo vitale in cui la tendenza al continuo cambiamento è la regola ed in questo senso è difficile parlare di stabilità e pervasività. Ma anche se si potesse agevolmente fare la diagnosi di disturbo borderline in adolescenza, rimarrebbe il problema della non documentata continuità clinica ed evolutiva tra bambini borderline, adolescenti ed adulti borderline.

      I punti controversi sono numerosi. Ad esempio, quando si parla di borderline ci si riferisce ad un livello dell'organizzazione evolutiva, come vari autori tra cui Kernberg (1975) propongono o si intende invece un disturbo discreto come suggeriscono il DSM III R ed il DSM IV? O ancora, (Adler, 1985) si tratta di un continuum con altri disturbi di personalità o si tratta invece di una diagnosi dimensionale con forme a vario grado di gravità? E che legame c'è con le diagnosi dell'Asse I cosė frequentemente rilevate nei disturbi borderline come i disturbi della condotta, i disturbi da deficit di attenzione, i disturbi alimentari, l'abuso di sostanze ecc. (Bleiberg, 1994). A complicare le cose c'è il frequente riscontro nella storia dei borderline di traumi prolungati e ripetuti, in particolare di abusi sessuali, per cui c'è chi si domanda (Herman et al. 1989; Herman, 1992) se "borderline" non sia solo un termine peggiorativo da usare per quegli individui che soffrono di una sindrome postraumatica da stress come conseguenza di un abuso protratto e come conseguenza della vittimizzazione.

      La molteplicità di queste controversie ha probabilmente contribuito alla necessità di elaborare nuovi modelli concettuali in campo psicopatologico come ad esempio quello di comorbilità in base al quale (Klerman,1990) si possono evidenziare più disturbi o sindromi che si verificano nello stesso periodo o in fasi successive nella stessa persona. Più sottile e sfumato è il concetto di spettro psicopatologico che sottolinea piuttosto la continuità e la mancanza di confini fra un quadro clinico ed un altro, per cui si verifica un'associazione di sindromi e sintomi diversi che hanno una comune base patogenetica. Altro concetto rilevante è quello di diagnosi multidimensionale nei disturbi di personalità (Paris, 1996), un concetto che è stato introdotto in alternativa a quello di diagnosi categoriale e consente di valutare i tratti di personalità implicati nel disturbo psicopatologico. In questo senso, la diagnosi rifletterebbe un maggior numero di informazioni sicuramente utili per la comprensione dell'evoluzione e del trattamento dei disturbi di personalità. Rispetto a quest'ultimo concetto alcuni clinici hanno sollevato delle perplessità, relative al fatto che un modello di questo genere potrebbe sfumare le differenze fra patologia e normalità, oltre al fatto che i fattori che determinano i tratti di personalità non sono gli stessi che sono alla base dei disturbi.

      Di questi problemi tuttora non risolti ci occuperemo in questo lavoro discutendo prima degli aspetti nosografici sia nell'età adulta che in adolescenza per affrontare poi il tema della patogenesi e della psicodinamica dando un rilievo particolare al trauma come fattore di rischio ormai riconosciuto nei disturbi borderline. Ricorderemo, infine, l'importanza della comunicazione affettiva nello sviluppo normale e nella patologia un punto a cui teniamo in maniera particolare, convinti come siamo che nella psicoterapia un importante fattore trasformativo e curativo è rappresentato proprio dalla regolazione affettiva col terapeuta, auspicabilmente diversa da quella disadattiva con le figure di accudimento primario.

Aspetti nosografici

Il Disturbo Borderline di Personalità (DBP) nell'età adulta

      Concepito originariamente per denotare una condizione di transizione tra nevrosi e psicosi, il termine disturbo borderline, che sembrava impreciso e poco specifico, è invece venuto ad assumere referenti sempre più definiti in sistemi come il DSM-IV e nelle formulazioni di studiosi di varia estrazione culturale che hanno contribuito alla sua crescente popolarità. C'è un accordo piuttosto generale sul fatto che esso costituisca una particolare sindrome clinica, almeno per gli adulti. Riguardo ai bambini e agli adolescenti, invece, il quadro è meno definito, sebbene anche qui le descrizioni e le ipotesi etio-patogenetiche siano numerose. La maggiore parte della letteratura sul disturbo borderline, almeno in lingua inglese, viene trovata nelle pubblicazioni americane: gli psichiatri inglesi hanno avuto molto poco da dire su questa patologia. è probabile che questa situazione dipenda dalla maggiore influenza della psicoanalisi sulla psichiatria americana. In ogni caso la letteratura su questo argomento ha raggiunto proporzione notevolissime da quando, invece, proprio uno psichiatra inglese, Hughes, nel 1884, parlò della "borderland" della pazzia.

      Il primo tentativo analitico di definire più chiaramente il gruppo di pazienti che non poteva essere compreso nei gruppi psico-neurotici o psicotici è stato fatto da Stern nel 1938 nel suo lavoro "Ricerca e terapia psicoanalitica nel gruppo borderline delle nevrosi". In tale lavoro egli si occupò di un gruppo di pazienti resistenti al trattamento, un gruppo di pazienti in crescita che non rientravano né nel gruppo degli psicotici né in quello degli psiconevrotici.

      Da allora la letteratura psicoanalitica e psicoterapeutica ha raggiunto proporzioni enormi. Credo però che sia preliminarmente doveroso ricordare che è grazie a Melanie Klein col suo studio sulle ansie e sui meccanismi psicotici della primissima infanzia, descritti nei suoi lavori sulla "Psicogenesi degli stati maniaco-depressivi" (1935) e soprattutto nel lavoro "Sui meccanismi schizoidi" (1946), che è stato possibile l'approccio psicoanalitico agli stati "borderline" ed alle condizioni psicotiche. Le sue osservazioni sia in merito ai processi mentali della primissima infanzia che alla loro relazione con le gravi malattie mentali di periodi di vita successivi, sono molto dettagliate e ben illustrate sul piano clinico. Molto del suo lavoro è poi passato nell'approccio di altri psicoanalisti a cominciare da Herbert Rosenfeld, e poi a psicoanalisti di tutto il mondo, specialmente grazie al contributo di Otto Kernberg che sottolinea l'importanza dei primitivi meccanismi di scissione del Sé, della idealizzazione primitiva, della negazione, dell'onnipotenza ed in particolare delle primitive identificazioni proiettive. Il lavoro di Kernberg sui disturbi borderline e su quelli narcisistici è in realtà strettamente basato sia sulla teoria del narcisismo di Rosenfeld sia sulla teoria di Melanie Klein concernente l'importanza degli stati del narcisismo.

      Come dicevamo, in campo psicoanalitico sono stati elaborati contributi senz'altro rilevanti nell'area dei DBP (Kohut, 1971; Masterson, 1976; Searles, 1986). Probabilmente i contributi più sistematici sono quelli di Kernberg (1975) e Clarkin (1993) che hanno raccolto ampie casistiche cliniche e si sono confrontati con altri ambiti della ricerca psichiatrica. Clarkin e Kernberg (1993) partendo da una critica ai criteri diagnostici del DSM, che, a loro parere, non sarebbero utili per la ricerca e per l'intervento terapeutico, propongono tre cluster (organizzazioni funzionali) di sintomi (identità, affetti ed impulsività) che caratterizzerebbero l'organizzazione borderline di personalità che avrebbe uno spettro più ampio del DBP. Tale scelta di ampliare l'organizzazione di personalità, secondo i due Autori citati, sarebbe giustificata dal riscontro della frequente sovrapposozione del DBP con altri disturbi dell'Asse II.

      Anche la psichiatria psicodinamica ha fornito un contributo importante allo studio dei DBP soprattuto per quanto riguarda la definizione dei criteri descrittivi attendibili per porre diagnosi di DBP. Se sono state sviluppate ipotesi consistenti per quanto riguarda i fattori psicodinamici, biologici, familiari e traumatici ancora oggi, tuttavia, manca un consenso per quanto riguarda l'etiologia di questo disturbo (Goldman,1993). Tale prospettiva è personificata soprattutto da Gunderson (1984) che ipotizza che il DBP sia una forma specifica di disturbo della personalità che può essere distinto dagli altri disturbi dell'Asse II del DSM. Allo stesso tempo Gunderson, pur accettando il contributo di Kernberg, se ne differenzia perchè si pone ad un minor livello di inferenza clinica e più vicino al piano descrittivo-sintomatologico. Sempre in quest'area si colloca la prospettiva sviluppatasi negli anni '60-'70, che considera il disturbo borderline nell'ambito dello spettro schizofrenico (Wender, 1977).

      Un'ulteriore variante offerta dalla psichiatria psicodinamica è quella secondo cui il DBP si collocherebbe nell'ambito dello spettro affettivo, come dimostrerebbe la presenza della disforia cronica e della labilità affettiva (Akiskal, 1981; Stone, 1980). Infine, sempre nella stessa prospettiva, si pone il lavoro di Zanarini (1993) che colloca il disturbo nell'ambito dello spettro degli impulsi, affine all'abuso di sostanze e al disturbo antisociale della personalità.

Il DBP durante l'adolescenza.

      Se questi sono alcuni quesiti rilevanti per la diagnosi di sindrome borderline nell'età adulta, in campo infantile ed adolescenziale essa diventa ancora più complessa per vari motivi che cercheremo di discutere. In questo campo, gli interrogativi più pertinenti sono formulati da Bleiberg (1994) che si chiede se il disturbo borderline si riferisca ad un'organizzazione evolutiva oppure ad una diagnosi definita, come sostenuto dal DSM-III-R e dal DSM-IV o ad uno spettro che comprenda altri disturbi della personalità come ipotizza Adler (1985). O piuttosto dovrebbe essere considerata una diagnosi dimensionale, che copre l'ambito dei disturbi meno gravi, rappresentati dai disturbi dell'identità, fino a quelli più gravi in cui l'impulsività gioca un ruolo centrale?

      In primo luogo, durante lo sviluppo, il piano dei sintomi e dei comportamenti osservabili è ancora più problematico, dal momento che questi non hanno il carattere definito e stabile, come si verifica nella patologia degli adulti; essi, infatti, tendono a modificarsi in base all'influenza delle trasformazioni cognitive, affettive e dell'organizzazione del sé. In questa ottica è possibile leggere il lavoro di Rey (1995) che ha messo in luce un'associazione significativa fra disturbi da deficit dell'attenzione ed iperattività in adolescenza e diagnosi di disturbo borderline in età adulta. Questo potrebbe spiegare il fatto che non è stata dimostrata una continuità significativa fra disturbi da deficit dell'attenzione ed iperattività con il disturbo borderline in età adulta, mentre si potrebbe ipotizare che entrambe le patologie si collochino nell'area dello spettro impulsivo, la cui espressività può evolvere nel corso delle varie fasi dello sviluppo. In secondo luogo, anche l'organizzazione strutturale della personalità, che, secondo Kernberg (1984), consentirebbe di distinguere in modo chiaro, in età adulta, l'organizzazione borderline rispetto a quella nevrotica e psicotica, potrebbe generare possibili confusioni diagnostiche proprio nelle fasi in cui avvengono revisioni e trasformazioni dell'organizzazione strutturale della personalità, come ad esempio durante l'adolescenza.

      Come mette in luce lo stesso Kernberg (1984) per tal motivo, durante l'adolescenza, le nevrosi sintomatiche possono avere un effetto disorganizzante sul funzionamento personale e, d'altra parte, le stesse crisi d'identità possono comportare rapidi cambiamenti identificatori che possono far sospettare una ben più grave sindrome di dispersione dell'identità, presente nei disturbi borderline. Le stesse caratteristiche di incostanza e di impulsività tipiche dell'adolescenza, già sottolineate da Masterson (1968), potrebbero ugualmente limitare o quanto meno ostacolare la validità della diagnosi di sindrome borderline in questa fase. A questo proposito gli studi di follow-up effettuati in pazienti borderline di età media di 17 anni hanno fornito evidenze poco consistenti; infatti, due anni dopo solo il 33% manteneva un quadro stabile (Garnet, 1994), confermando le precedenti osservazioni di Bernstein (1993). Vi sarebbe una notevole fluidità dei sintomi e solo i sentimenti cronici di vuoto e di noia e la rabbia intensa ed inappropriata sarebbero sintomi più stabili. Lo stesso Garnet appare dubbioso sulla validità della diagnosi di disturbo borderline, mentre probabilmente diagnosi meno specifiche, come ad esempio il disturbo dell'identità, potrebbe avere una maggiore validità temporale, fornendo un supporto a quanto ha sostenuto Kernberg.

      Ricostruendo il percorso per definire la diagnosi di sindrome borderline nei bambini e negli adolescenti, si è assistito, soprattutto in passato, ad un suo frequente uso clinico, tuttavia in assenza di precisi criteri diagnostici.

      Storicamente la diagnosi "borderline" è stata utilizzata in età evolutiva per designare bambini "atipici" che si collocavano al confine tra la nevrosi e la psicosi (Fast, 1972; Pine, 1974), come era già avvenuto nel campo della patologia degli adulti. Solo negli ultimi anni si è cercato di adottare criteri diagnostici uniformi, paralleli a quelli degli adulti. Ad esempio, Bradley (1979) ha fornito l'evidenza che è possibile utilizzare i criteri proposti da Gunderson nel campo della clinica infantile e adolescenziale. Anche Greenman (1986) ha utilizzato i criteri diagnostici dell'Intervista Diagnostica per i Borderline (DIB) di Gunderson in una popolazione ospedalizzata fra i 6 e i 12 anni. Va segnalato inoltre che, rispetto a gruppi clinici con diagnosi diverse, il disturbo borderline in questa fascia d'età è frequentemente associato ad un tasso più elevato di separazioni dalla madre prima dei 5 anni d'età.

      In uno studio più recente di Ludolph (1990), in cui sono stati confrontati adolescenti borderline con adolescenti che presentavano depressione, disturbi alimentari e altri disturbi della personalità, si è messo in luce che nel primo gruppo erano significativamente presenti rischi materni (malattie psichiatriche, perdite, separazioni o abusi), rischi nel periodo pre-edipico (parto prematuro, infanzia difficile, separazioni e perdite prima dei 5 anni, abuso fisico o sessuale prima dei 5 anni) ed infine esperienze di perdite dei legami di attaccamento (separazioni e perdite, espulsioni dalla famiglia, ricoveri in istituti, presenza di sostituti materni o paterni). Sulla base di questi criteri Ludolph conclude che è possibile una validazione diagnostica della sindrome borderline in adolescenza. Sempre in questa prospettiva si colloca il contributo successivo di Goldman (1992) che ancora una volta riconferma che nel 38% degli adolescenti borderline è presente una storia di abusi rispetto al 9% dei campioni clinici di controllo.

      Altro criterio utilizzato per la validazione diagnostica è quello dell'aggregazione familiare, ossia la presenza di quadri psicopatologici nei parenti di primo grado degli adolescenti borderline. I risultati degli studi familiari in questa fascia d'età confermerebbero la validità delle diagnosi di disturbi di personalità dell'Asse II, in particolare dei disturbi borderline ed evitanti (Johnson,1995).

      Se, come abbiamo visto, la stabilità del piano sintomatologico è piuttosto problematica durante l'età adolescenziale, più stabile è il piano che considera gli spettri psicopatologici, in questo caso quello impulsivo. La comune base patogenetica, alla base dello spettro psicopatologico, non può non considerare l'organizzazione della personalità, in cui convergono aspetti temperamentali e relazionali. Come hanno confermato le ricerche in campo infantile e adolescenziale sono già presenti in queste fasi, come ha sostenuto Paulina Kernberg (1990), tratti distintivi e pattern che si mantengono nel tempo, relativi alle percezioni, alle relazioni e ai processi di pensiero che possono diventare rigidi e disadattivi provocando delle significative limitazioni accompagnate da sofferenze personali. Questi tratti disadattivi, in particolare durante l'adolescenza, si riflettono sull'identità e costituiscono una vera e propria "ancora dei tratti di personalità" (P.Kernberg, 1990) e si esprimono tipicamente in quelle manifestazioni cliniche (diffusione dell'identità, sensazione di vuoto e noia, scarsa tolleranza alla solitudine) che Clarkin e Kernberg (1993) pongono nell'ambito del cluster dell'identità, centrale nell'organizzazione borderline di personalità.

      Non tutti gli psicoanalisti si trovano d'accordo con la posizione di Kernberg. Problematico è il punto di vista di Theodor Shapiro (1990), che sottolinea piuttosto la necessità di adottare i principi dinamici, quali quelli proposti da Pine che parla di stabile instabilità,anche se mancano al momento studi longitudinali per verificarne gli esiti evolutivi. Per tal motivo Shapiro esclude la possibilità di usare l'etichetta di "personalità borderline" come un "passe-partout".

Patogenesi e Psicodinamica

      Il dibattito fra chi sostiene l'utilità di una diagnosi descrittiva in età adolescenziale e chi sostiene piuttosto l'utilità di tener presente l'organizzazione evolutiva della personalità è dunque aperto.

      Kernberg (1975) aveva inizialmente collegato l'etiologia e la patogenesi della sindrome borderline con lo schema evolutivo della Mahler e sottolineva da una parte l'importanza dell'aspetto costituzionale (parlava infatti di un eccesso di aggressività orale) anche se non mancava di evidenziare le problematiche materne legate alla funzione genitoriale, valorizzando quindi l'ambiente. I pazienti, secondo Kernberg, avrebbero superato la fase simbiotica ma non quella della separazione-individuazione. Da questo punto di vista la formulazione più categorica è quella di Masterson e Risley (1975) secondo la quale una specifica fissazione si verifica nella sottofase del riavvicinamento del processo di separazione-individuazione. Questo arresto di sviluppo è indotto nel bambino da una madre che, soffrendo essa stessa di una patologia borderline, incoraggia e ricompensa i comportamenti di attaccamento e scoraggia o punisce la separazione o i movimenti verso l'autonomia. Il quadro clinico descritto riflette in definitiva un disturbo nello sviluppo della personalità che è stato variamente concettualizzato: è stato spiegato ad esempio come arresto evolutivo o fissazione o regressione difensiva da posizioni più avanzate.

      La Mahler stessa tuttavia ha obiettato a questa posizione, ritenendo importante considerare anche i contributi allo sviluppo di tutte le sottofasi. Questo tipo di ipotesi etiopatogenetica sarebbe dunque derivata essenzialmente da un modello della psicopatologia del conflitto, una posizione ovviamente molto diversa da quella di altri autori (ad esempio Adler, 1985) che privilegiano una ipotesi di modello di psicopatologia legato al "deficit" o all'"insufficienza" ambientale e che seguono il modello evolutivo di Kohut. Giovacchini (1986) considera la patologia borderline in adolescenza una conseguenza del fallimento materno nel fornire un caretaking coerente e competente. L'incoerenza della madre genera una "confusione primaria" tra frustazione e gratificazione ed interferisce con lo stabilirsi della costanza oggettuale. In favore dei propri bisogni narcisistici e simbiotici, molte di queste madri trattano i figli come "oggetti transizionali" e, disumanizzandoli, si oppongono alla conquista di una loro autonomia. In contrasto con l'enfasi posta sul contributo genitoriale al disturbo strutturale del borderline, Kernberg, come abbiamo già detto, tende a sottolineare l'aspetto intrinseco dell'organizzazione patologica del paziente nel produrre una disfunzione familiare. L'enfasi di Kernberg su ciò che egli considera un'insolita intensità costituzionale delle pressioni pulsionali aggressive nella patologia borderline si colloca dunque in considerevole contrasto con la ormai più comune attribuzione di tale aggressività alle reazioni che il bambino presenta alle offese o alla deprivazione genitoriale. Ma su questo Kernberg ha, potremmo dire, una posizione contraddittoria più che univoca perchè non mancano in realtà gli accenni all'importanza della famiglia nello strutturarsi della sindrome borderline e, recentemente, sta cambiando decisamente rotta (1994).

      Ma, a ben pensare, il problema ci sembra essere di ordine generale piuttosto che riguardare la etiopatogenesi delle sindromi borderline e quanto, in questa specifica patologia, debba essere attribuito all'innato e quanto all'ambiente nella strutturazione dei modelli evolutivi ai quali i vari clinici fanno esplicitamente o implicitamente riferimento. C'è in effetti una generale difficoltà a coniugare gli aspetti maturazionali dello sviluppo, di più consolidata tradizione, con quelli relazionali,che oggi sembrano cosė determinanti sul processo di crescita dell'essere umano, da aver contribuito a privilegiare sempre di più un'ipotesi che la patologia sia legata non solo e non tanto al conflitto ma piuttosto ai disturbi della regolazione affettiva che si struttura sulla base di una sistematica e ineludibile reciprocità interattiva tra i genitori e i bambini. I nuovi approcci allo studio del legame adulto/bambino hanno evidenziato la funzione primaria degli affetti ed è pertanto indispensabile, trattandosi di pazienti, i borderline, che tra le varie caratteristiche hanno certamente quella di un disfunzionamento affettivo, soprattutto nel senso della difficoltà a regolare l'intensità delle loro emozioni, è indispensabile, appunto, cercare di capire come sono state le transazioni con le figure di accudimento primario perchè è documentato che è nel contesto del rapporto con esse che si strutturano le capacità regolative degli stati affettivi.

      L'approccio evolutivo-osservativo è oggi possibile grazie ai dati che ci vengono dalla ricerca sulla prima infanzia e dalla ricerca nel campo dell'attaccamento.

L'importanza della comunicazione affettiva nello sviluppo normale e nella patologia

      Una considerazione importante che ci viene dalla ricerca sull'infanzia è il concetto di regolazione. Stern ha notato l'effetto regolatorio positivo di una madre che dialoga col bambino e ne ha tratto un'analogia con l'effetto terapeutico positivo che può avere il fatto che l'analista si adatti allo stato potenziale dell'analizzando. E questo con i malati borderline è assolutamente essenziale. In effetti, quale che sia l'approccio usato per lo studio di questi pazienti, un elemento che viene sempre sottolineato è la marcata disregolazione affettiva che essi presentano.

      All'inizio della vita è indubbiamente la madre che comincia ad imitare le segnalazioni affettive del bambino stesso e dal canto suo il bambino ha una capacità innata di imitare le espressioni facciali della madre. I bambini sono capaci di essere sensibili a ciò che avviene al di fuori di loro ben prima che essi siano verosimilmente in grado di essere capaci di attività introspettiva. Come dice Fonagy (1995) è plausibile ipotizzare che il significato di esperienze esterne, associato con l'affetto che il Sè, di volta in volta, contestualmente sperimenta, sia acquisito dal bambino mediante il coordinamento dell'osservazione delle emozioni negli altri con le sensazioni fisiologiche create dal rispecchiamento di queste esperienze nel proprio corpo. È probabile che il bambino viva inizialmente in un caos emotivo interno al quale non riesce a dare un significato e un ordine .Un caos che egli è tuttavia forse capace di cominciare ad organizzare utilizzando l'osservazione di ciò che le proprie espressioni emotive determinano nel genitore. Meno il genitore è sintonizzato sulle emozioni del bambino più povera sarà, da parte del bambino, la comprensione delle proprie emozioni e più il potenziale di autocontrollo sarà impoverito con conseguente aumento delle probabilità che si stabiliscano quelle disregolazioni affettive cosė tipiche dei pazienti borderline.

      Per ciò che concerne in particolare le distorsioni dei modelli di attaccamento, lavorando con una popolazione clinica, Lieberman e Pawl (1988) si sono serviti del concetto "base sicura" per spiegare alcuni patterns comportamentali disadattivi ripetutamente osservati tra bambini gravemente disturbati e le loro madri. Essi possono essere visti come adattamenti difensivi, che proteggono il bambino dall'angoscia per la non disponibilità della madre ad offrirsi come base sicura da cui esplorare. Lieberman e Pawl hanno descritto tre principali patterns di distorsione nel comportamento "base sicura": l'imprudenza ed l'inclinazione all'incidente, l'inibizione dell'esplorazione e la precoce competenza nella protezione di sè, comportamenti spesso presenti negli adolescenti borderline (Muscetta, 1992).

Il trauma come fattore di rischio per le sindromi borderline

      La regolazione degli affetti dunque, cosė profondamente distorta nei pazienti borderline, viene oggi con chiarezza collegata alle peculiarità della loro storia relazionale. Si stanno infatti delineando le prime ipotesi sui meccanismi etiopatogenetici della disregolazione affettiva. La capacità del bambino di controllare l'espressione degli affetti potrebbe considerarsi collegata allo sviluppo di una rappresentazione interna delle espressioni dei genitori come reazione alla espressione dei suoi stessi affetti. Ciò ha profonde implicazioni evolutive e cliniche: ad esempio un bambino ansioso la cui paura spaventa una madre poco protettiva potrà tendere a determinare una interiorizzazione esagerata, intendiamo da parte del bambino, della reazione impaurita del caregiver. Ciò sarebbe in linea con quanto sostenuto dai terapisti cognitivi che sostengono, ad esempio, che individui che hanno degli attacchi di panico hanno un deficit a livello cognitivo particolare poichè tendono ad interpretare i segni fisiologici di ansia come estremi disturbi fisici: come un attacco cardiaco, ad esempio. Ed è proprio questa drammatizzazione delle loro reazioni che li porta al panico.

      Oltre a questo aspetto dell'esagerazione nella introiezione della modalità di reazione del caregiver ci sembra da sottolineare che quello che in realtà sta avvenendo è una vera e propria fusione del Sé del bambino con il suo oggetto, una fusione che tende ad essere tanto maggiore quanto più la ricerca di rispecchiamento e contenimento del bambino fallisce. Secondo Fonagy (1993?) è proprio questa tendenza alla confusione del Sé con l'oggetto ad essere responsabile dell'oscillazione nei pazienti borderline tra la lotta per l'indipendenza e il desiderio terrificante di una estrema vicinanza e di una unione fantasticata. L'ipotesi più plausibile di questa tendenza alla fusione con l'oggetto è quella di un deficit di accudimento e in particolare a una carenza di quella funzione di "contenimento" (Bion, 1962) in base alla quale la madre restituisce al bambino il proprio Sé (Winnicott, 1967). Come è noto, la madre è impegnata in un costante monitoraggio degli stati affettivi del bambino e, nell'ambito di un processo continuo di reciproca imitazione, il bambino quando guarda il viso della madre vede non solo la madre ma anche come la madre "legge" il suo stato affettivo. Questi complessi processi di mentalizzazione del bambino sono profondamente distorti se questo particolare rispecchiamento della madre è per qualsiasi ragione alterato: i processi di internalizzazione sono disturbati e, più sono disturbati i processi di individualizzazione, più il bambino cerca di diventare se stesso, più invece tende a diventare il suo oggetto. Questo regime conflittuale ma inscindibile con le figure di accudimento può portare poi alle difficoltà, ben note nei borderline, di lasciare l'ambiente di accudimento primario a cui finiscono per rimanere vincolati nonostante possa essere profondamente maladattivo.

      Come dicevamo, la tendenza a fondersi con l'oggetto è tanto più intensa quanto più è difficile per il bambino la contemplazione della mente dell'altro. Questo processo è legato alla possibilità di instaurare dei legami intimi con un oggetto pensante, ma è proprio questo che può essere impossibile tutte le volte che il bambino registra intenzioni ostili da parte dei genitori.

      Questo è veramente un punto di cambiamento rispetto alle tradizionali posizioni psicoanalitiche che erano basate su un modello pulsionale dello sviluppo: non esiste solo l'oggetto cattivo reso tale dalla proiezione degli impulsi aggressivi. Esiste anche un oggetto cattivo reale. Le ricerche epidemiologiche legate agli studi sull'attaccamento sono su questo punto inequivocabili, anche sulle dimensioni del fenomeno. Somministrando a degli adulti l'intervista semistrutturata sull'attaccamento (Adult Attachment Interview) risulta, da uno studio metanalitico eseguito su ricerche effettuate in vari paesi del mondo (von Ijzeendorn e Bakermans-Kranenburg, 1996), che, in popolazioni normali, ben il 19% delle persone non è stato in grado di elaborare degli episodi traumatici avvenuti nella prima infanzia (lutti, abusi fisici e/o sessuali). La stessa intervista somministrata in popolazioni cliniche dà risultati drammaticamente diversi: ben il 40% dei casi presenta la non risoluzione del trauma. Il trauma sembra dunque destinato a ritornare all'attenzione dei clinici con la stessa forza con cui inizialmente Freud lo aveva proposto per l'etiologia delle nevrosi.

      Per ciò che concerne i pazienti borderline, in particolare, sta emergendo (Fonagy, 1995) che nel 75% dei casi essi avrebbero un particolare modello di attaccamento con i loro genitori (nella classifica della Main: E3). Questi pazienti hanno anche una funzione riflessiva del Sé particolarmente bassa che può ben spiegare una serie di sintomi tra cui i sentimenti cronici di vuoto che caratterizzano molti borderline. Questi disturbi hanno origine nella impossibilità, da parte del bambino, di essere vicino alla mente del proprio genitore quando la "traumaticità" dei suoi comportamenti fa inevitabilmente scattare meccanismi di difesa nel bambino che gli consentono si quel disimpegno dalla relazione indispensabile per la sopravvivenza psichica e/o fisica ma che lascerà in lui dei segni permanenti. In particolare, è stato documentato che esiste un legame specifico tra la storia di maltrattamento infantile e il disturbo di personalità borderline e, ancora più specificatamente, è in rapida espansione la letteratura sull'abuso infantile come dato anamnestico nei pazienti borderline (van der Kolk et al., 1994a e 1994b; Oldahm et al., 1996; Guzder et al., 1996; Dubo et al., 1997). L'ipotesi che formula Fonagy (1995) è che quei soggetti che hanno avuto un'esperienza di grave maltrattamento durante la loro infanzia e che hanno reagito a questa esperienza con un'inibizione della funzione riflessiva del Sè hanno minori probabilità di elaborare e risolvere l'abuso e hanno maggiore probabilità di manifestare una psicopatologia di tipo borderline.

      Abbiamo oggi a disposizione delle convincenti analisi neurobiologiche sugli effetti dell'esposizione ai traumi nella prima infanzia (Perry et al. 1996) che riguardano in particolare l'effetto che i traumi hanno sui sistemi "attacco-fuga" e "congelamento o resa". Sembra, in particolare, che le regioni cerebrali coinvolte nella risposta da iper-arousal indotta dalla paura svolgano un ruolo di importanza critica nel regolare l'arousal, la vigilanza, l'affetto, l'irritabilità comportamentale, la locomozione, l'attenzione, la risposta allo stress ed il sonno. Inizialmente, in seguito alla risposta di paura acuta, questi sistemi cerebrali saranno riattivati tutte le volte che il bambino sarà esposto a qualcosa che gli ricordi in modo specifico l'evento traumatico. Ma in seguito queste parti del cervello possono essere riattivate anche quando il bambino semplicemente pensa o sogna questi eventi e quindi l'apparato di risposta allo stress viene continuamente riattivato. Il fatto particolarmente importante è che esistono dei periodi critici e particolarmente sensibili, nella prima infanzia, durante i quali avverrebbe una specie di formattazione di alcune delle strutture cerebrali tanto che si può pensare a uno sviluppo organizzazionale del cervello distorto. L'analisi di Perry e coll. implica, in particolare, che il sistema delle catecolamine è uno dei sistemi particolarmente alterato in seguito ad esposizioni traumatiche. Sono studi che indirettamente concorrono alla validazione dell'ipotesi dell'importanza del trauma nella genesi dei BPD in cui il metabolismo catecolaminico è sovrapponibile a quello dei PTDS (Yeuda et.al, 1994).

      Naturalmente, tenendo presente la multifattorialità della genesi della psicopatologia, bisogna guardarsi dal fare delle ipotesi meccaniche di relazione causa-effetto. I dati sugli effetti a lungo termine dei traumi sono complessi. Sappiamo, ad esempio, che le persone possono subire dei traumi fisici o sessuali ed essere tuttavia in grado di elaborarli.

La psicoterapia come nuova opportunità di sviluppo

      Perchè alcuni individui "sopravvivono" al trauma ed altri no? Quali sono i fattori di protezione che permettono la costruzione di un modello "integrato" di reazione all'abuso?

      L'ipotesi di Fonagy (1995) è che questa opportunità si definisce quando il bambino ha delle relazioni di attaccamento significative e tali da fornire una base intersoggettiva adeguata per le capacità di mentalizzazione: per questo sarà in grado di superare l'esperienza traumatica. Una conferma, insomma, dell'affermazione della Selma Fraiberg che diceva: "la Storia non è destino". Ciò che conta è l'elaborazione soggettiva dell'esperienza, non è tanto importante "il fatto" ma come esso viene elaborato. L'assoluta necessità di sperimentare una relazione di accudimento positiva per la possibilità di superare il trauma fa fare, ovviamente, delle considerazioni su quanto può essere importante un trattamento psicoterapeutico. La cura psicoterapeutica in generale, come dice Fonagy (1995), e quella psicoanalitica in particolare, costringe la mente del paziente a concentrarsi sullo stato mentale di un altro: un altro diverso dal genitore abusante, un altro "benevolo".

      La psicoterapia basata sul transfert (Clarkin, Yeomans e Kernberg, 1999) consente di valutare le relazioni d'oggetto prevalenti del paziente, di effettuare un monitoraggio del role-reversal che si stabilisce di continuo tra paziente e terapeuta e di mantenere sempre presente l'obbiettivo di realizzare l'indispensabile integrazione delle concezioni positive e negative del Sè e delle persone che hanno importanza per il paziente. Le reazioni emotive del terapeuta sono particolarmente importanti nel caso del trattamento dei pazienti borderline. Proprio per questo Gabbard e Wilkinson (1994) hanno dedicato un intero volume allo studio e all'utilizzazione a scopo terapeutico del controtransfert in questa specifica patologia. L'interpretazione frequente e regolare dello stato mentale sia dell'analista che dell'analizzando, è essenziale per cercare di creare una rappresentazione mentale sia di se stesso che dell'analista sia dal punto di vista del pensiero che del sentimento. Questo lavoro, indispensabile per formare un senso di Sé individuale e indipendente, è quindi l'unico in grado di diminuire quella confusione tra il Sé e l'oggetto tipica del paziente borderline e per realizzare una regolazione affettiva diversa da quella che si era stabilita con le figure di accudimento primarie.


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