Cari compagni de il manifesto, dopo aver letto l’ennesimo
articolo denigratorio contro l’ipotesi astensionista ai referendum del
21 maggio, è d’obbligo chiedervi la possibilità di una replica.
L’articolo di Dino Greco di domenica 27, infatti, è soltanto
l’ultimo di una serie nei quali l’offesa gratuita nei confronti di posizioni
politiche non condivise l’ha fatta da padrone.
Si può certamente essere contrari alle ragioni
di chi propone l’astensione, ma il tentare di ridurre tutte queste ragioni
a mere "furbizie tattiche" o ad una fuga dal "campo di battaglia"
(si vince o si perde sul campo) significa voler evitare il confronto
sulla reale posta in gioco e, quindi, sulle risposte politiche da dare.
In fondo, si tratta di un approccio alle questioni tipico della sinistra
"realista", che sa rinunciare con facilità alle battaglie sui principi
per accontentarsi del risultato minimo. Che poi di risultato minimo in
risultato minimo si rimanga con le mani vuote, senza per altro avere più
principi ai quali appellarsi, è un dettaglio di poco conto.
Bene, oggi a questa sinistra "realista" diciamo che bisogna
schierarsi chiaramente, perché la posta in gioco è il risultato
massimo o non è.
Ma andiamo con ordine, cercando di dirci e spiegarci cosa
saremo chiamati a votare il 21 maggio.
Paradossalmente, su questo non ci sono problemi da chiarire, tutti
concordi nel definire i referendum radicali (e di AN) un attentato alla
democrazia, al pluralismo, ai diritti, ai principi costituzionali.
Il merito politico di questi referendum, infatti, va ben
oltre la semplice legge che si chiede di abrogare, ed è questa la
posta in gioco.
La logica che sottende a questi referendum è un modello di società
dove gl’individui s’incontrano per dividersi in tanti piccoli gruppi d’interesse,
un "tutti contro tutti" ad esclusivo vantaggio dei meccanismi di riproduzione
del mercato. Il tecnicismo economico che s’impone alla politica attraverso
la disgregazione del "corpo sociale" in tanti piccoli interessi individuali.
L’uso del referendum come strumento totalitario attraverso
il quale costituire tante maggioranze diverse quanti sono i diritti delle
minoranze da sopprimere. Il "popolo delle partite IVA", i disoccupati,
i precari e i non occupati in genere contro gli occupati; per poi finire
con il referendum elettorale, con il quale la maggioranza viene chiamata
a decidere se cancellare o meno le minoranze politiche dalla rappresentanza
parlamentare.
Il tutto nella consapevole assenza di garanzie costituzionali
in grado di tutelare i soggetti più deboli.
E’ possibile, di fronte ad un attacco di tale portata ai
più elementari principi democratici, accettare di stare al gioco,
legittimare con la nostra partecipazione una simile operazione di "antidemocrazia"?
Qui non sono in discussione le furbizie tattiche in grado di
garantire la sconfitta dei referendum, qui si pone un problema di legittimità
dell’intera operazione e, quindi, del risultato stesso.
Se si è convinti di trovarsi di fronte ad una partita
truccata, non c’è altra via che quella di dichiarare già
da ORA che non si riconoscerà alcuna legittimità al risultato
vittorioso di questi referendum. Si cominci da subito, anzi, a porre la
questione della vertenza politica da aprire nei posti di lavoro nel caso
di vittoria dei sì per il quesito che abroga l’art. 18.
E’ questa l’occasione da non perdere: alzare i toni del conflitto per
ricondurlo nei giusti binari, ribaltando la logica di un’agenda politica
con la quale alle minoranze viene concesso, troppa grazia, di contarsi.
Infine, alcune considerazioni sulle previsioni di voto
partendo dal risultato del referendum elettorale dello scorso anno.
Come si ricorderà, gran parte dei partiti maggiori si schierò
per il sì, in questo largamente sostenuti dai media e dalla confindustria.
Anche lo scorso anno, di fronte ad un simile schieramento, la parola astensione
era considerata, dai tanti che oggi riprongono i comitati per il no, poco
meno di una parolaccia e una follia: memori del plebiscito del ’93, l’obiettivo
dichiarato era quello di ottenere, nella sconfitta, un buon risultato per
il no.
La realtà gli ha poi dato torto, al punto che li abbiamo ritrovati
tutti a festeggiare la vittoria dell’astensione, un risultato che non avevano
perseguito e che avevano, per quanto era stato nelle loro possibilità,
osteggiato.
Ma come e perché la realtà dovrebbe invece
essere diversa in occasione di questa nuova tornata referendaria? Non ci
troviamo di fronte ad uno schieramento per il voto più o meno identico
a quello dello scorso anno, compresi, purtroppo, i comitati per il no?
Può la scesa in campo del sindacato condizionare a tal punto
la partecipazione?
E se anche fosse, non è questa una sfida da raccogliere?
Una sfida che va ben oltre la necessità politica,
in ogni caso, di distinguersi da un sindacato screditato e portatore di
quella "concertazione sindacale" che, più di ogni altra cosa, ha
contribuito ad erodere gran parte delle conquiste dei lavoratori.
La sfida è al meccanismo del referendum inteso
come strumento totalitario e disgregante. La vittoria dei no contro l’abrogazione
dell’art. 18 non può valere la sconfitta dei no sul quesito elettorale.
La difesa di un diritto o diventa patrimonio genetico a tutela di tutti
i diritti o non ha senso tentare di ridurre i danni guardando al numero
dei referendum vinti e persi.
Certo, non sarà facile contrastare la macchina
propagandistica che verrà messa in campo da confindustria, partiti,
sindacati e media, ma non è evitando di affrontare i problemi che
si può pensare di fermare la deriva a destra e l’omologazione della
società ai valori del mercato.
Nessuna furbizia e nessuna fuga dalle responsabilità
politiche, quindi: oggi siamo chiamati a scegliere se ripartire dai nostri
valori o da quello che potrebbe concedere la benevolenza dell’alleato di
turno per l’ennesima battaglia di "difesa".
Franco Ragusa (CO.P.A.R. – Comitato politico per l’astensione ai referendum)
http://web.tiscalinet.it/astensione