Non abbiamo mai nutrito grande simpatia politica per lo strumento “referendum”.
Anche quando abbiamo deciso di usarlo ( abrogazione art.19 ) l’ abbiamo
sentito più come un’occasione per far cir-colare idee e posizioni
che come strumento vero e proprio per conquistare spazi di libertà
e di uguaglianza. Abbia-mo sempre pensato che se qualche funzione potesse
averla era sul fronte della cosiddetta “società civile” : nel senso
che serviva a fotografare e stabilizzare lo stato dell’evoluzione della
società su alcune tematiche …… “culturali” ( aborto, divorzio, nucleare,
…. ). Mai pensavamo che lo strumento referendario potesse avere una qualche
utilità sul terreno dello scontro sociale o di classe.
La prossima tornata referendaria, prima ancora di entrare nel merito dei singoli quesiti, rappresenta da questo punto di vista una radicale e patologica devianza dell’ uso di questo strumento. Essa segna un’irruzione totale del re-ferendum su tutti i livelli della vita sociale e contiene l’aberrante messaggio che il punto più alto e definitivamen-te risolutivo dello scontro sociale è la verifica “democratica” del sovrano volere della maggioranza dei citta-dini.
E’ evidente che in questa quadro la “democrazia” è utilizzata come losco strumento per imporre il dominio di una maggioranza su una minoranza. Se coloro che sul lavoro degli altri fanno le proprie fortune dovessero diventare il 60% della popolazione, potrebbero decidere “democraticamente” che il restante 40% deve rassegnarsi a far loro da servi. I referendum sociali non sono molto lontani da questa aberrante logica. Per noi la schiavitù non può essere “messa ai voti”.
E’ pur vero che alcuni quesiti sfrugugliano sulle posizioni di monopolio sindacale ( tessere, patronati … ) contro le quali noi da anni combattiamo. Ma il quadro complessivo in cui sono inseriti svela il disegno di utilizzarli come spec-chietti per le allodole : si vuol cavalcare la sacrosanta rabbia dei lavoratori contro i confederali per nascondere che il vero obiettivo non è quello di abbattere i loro privilegi ma i diritti dei lavoratori. Resta comunque la constatazione che i privilegi e le posizioni di potere se non vengono combattuti da sinistra e dai lavoratori offrono prima o poi il fianco all’ attacco interessato della destra.
Non si può però far finta di cadere dalle nuvole. Il “brodo” culturale che ha permesso che i referendum radicali aves-sero anche solamente l’ardire di proporsi e di raccogliere firme, è il risultato di quella politica concertativa attraverso la quale Governi, Padroni e Sindacati da tempo ci propinano, col contagocce delle loro leggi, dei loro patti e dei loro accordi, le stesse cose che la destra e i radicali hanno in testa. Ad esempio, sui referendum legati alla “libertà di im-presa” , i più odiosi, come non ricordare che già adesso le infinite forme di assunzioni precarie concertate anno dopo anno condannano le prossime generazioni di lavoratori a decenni di soprusi e ricatti padronali. I padroni hanno ormai nelle mani tutti gli strumenti che vogliono per operare una scientifica selezione genetica dei lavoratori tenendosi, at-taccati solo quelli che avranno imparato, oltre che a lavorare, anche a “sottomettersi”. Tutto questo sembra non ba-stare ancora. Ma chi tutto questo ha voluto non ha una sola carta in regola per ergersi a difensore dei diritti dei lavoratori contro l’aggressione dei referendum. Tant’è vero che si preparano a aggirare il referendum sulla libertà di licenziare approvando la legge Debenedetti / Ichino che ne è la semplice trasposizione legislativa.
Questi referendum non sono nient’altro quindi che un semplice pungolo ( “uno strumento rozzo” dice Fossa) per arri-vare a realizzare un po’ più in fretta le politiche antioperaie che sono il progetto strategico dei nostri ultimi governi. Essi hanno semplicemente il pregio di svelare senza pudore il vero punto di arrivo a cui esse mirano. Non è pensa-bile che i “culi caldi” che li hanno promossi non sappiano cosa vuol dire lavorare sotto un padrone che ha la libertà di sbatterti fuori come e quando vuole, con un semplice cenno della testa. O costringerti per tutta la vita a subire infiniti contratti a termine.
Qui si mira a liquidare per il futuro qualsiasi possibilità di
riemersione della questione operaia.
E’ sintomatico che questa nostra progredita società civile che
si vanta di aver conquistato forme avanzate di libertà e di diritti
sociali, programmi svergognatamente il ritorno al feudalesimo e alla schiavitù
al di là delle mura delle fabbri-che e dei luoghi di lavoro. Con
buona pace di Fazio & C. che mentre proclamano scomparsa la “centralità
operaia” si stanno dannando l’anima per impedire ad ogni costo che ne possa
riemergere “la coscienza”.
E’ in questo quadro che ci si deve chiedere qual è la strada migliore per opporsi al significato politico comples-sivo che questi referendum fanno venire a galla.
Innanzitutto è fuori di dubbio che si deve mettere all’ordine del giorno una campagna capillare di informazione perché i lavoratori e gli strati sociali che ad essi sono materialmente collegati colgano il significato “di classe” di questa ma-novra referendaria. Occorre poi decidere se trasformare questa vasta sensibilizzazione in una massiccia partecipa-zione al voto sostenendo la scelta del NO oppure proporre di sabotare l’intera operazione rifiutando di partecipare.
Noi siamo fortemente convinti che la scelta di votare NO ( o distinguere quesito da quesito) sia politicamente nefasta.
Per questi motivi :
? partecipare ai referendum vuol dire in ogni caso accettare di scendere
sul terreno su cui vogliono trascinarci : quello, dicevamo, di fare della
“democrazia” il losco strumento con cui nascondere lo scontro di classe.
La conquista di alcuni elementari diritti per i lavoratori sono costate
decenni di lotta e di sangue. Partecipare a que-sti referendum vuol dire
assegnare alla semplice conta di croci su un pezzo di carta il diritto
di poter riesumare “democraticamente” pesanti forme di servitù padronali.
? se è vero che tra la logica sottesa ai referendum e quella
che sta sotto alle politiche governative e sindacali non c’è una
reale soluzione di continuità, allora non possiamo non nutrire preoccupanti
sospetti sull’aggregarsi sul fronte del NO di tutti i paraculi sindacali
e politici in circolazione. Qualcosa, al riguardo, l’esperienza fatta sul
referendum abrogativo secco dell’art.19 ci ha pur insegnato. Soggetti (
che anche oggi riappaiono stra-namente in circolazione ) ci hanno imposto
allora l’abrogazione parziale che, risultata poi vincente, ha finito col
migliorare i privilegi confederali che noi volevamo abbattere.
Oggi lanciano battaglieri comitati per il NO ai referendum che però
l’unica cosa sicura che produrranno è il raggiungimento del quorum
che li renderà validi. C’è qualcuno che può pensare
che una eventuale affer-mazione dei NO potrebbe significare una qualche
pur blanda mutazione della sostanza degli indirizzi governati-vi e sindacali
? Ma l’eventuale vittoria dei SI ci costringerebbe a subire il peso
di una sconfitta a cui abbiamo accettato “democraticamente” di partecipare.
Troppo forte è la sensazione che ci stiano tirando in un clamoroso
trabocchetto.
L’unica forma adeguata di opposizione al significato politico complessivo
che hanno ormai acquisito i referendum è, per me, quella del
loro rifiuto.
Lo scontro tra noi e chi sbava per ridurre a niente i nostri diritti
non può essere ridotto a un semplice e aset-tico spoglio di schede
in una tranquilla domenica di giugno.
Qui si tratta di una battaglia di civiltà, di un progetto di
umanità e di uguaglianza.
Per i quali si sono battuti coloro che ci hanno preceduto e per il
quali è necessario che ci continuiamo a bat-tere, noi e i nostri
figli. Non esistono altre strade.
Poi è arrivata la Consulta.
Che svela anche una seconda faccia del trabocchetto.
E’ stato ammesso il quesito che chiede l’abrogazione definitiva dell’art.
18 dello Statuto dei lavoratori al fine d’introdurre la libertà
di licenziare, anche senza giusta causa. Tra tutti i quesiti antisociali
“per la libertà di impresa” questo è quello che, a dire degli
esperti in giurisprudenza, aveva più scarse possibilità di
essere accolto. Tante erano le normative ad esso collegate che l’abrogazione
avrebbe lasciato scoperte. E’ curioso che proprio questo sia invece stato
fatto passare. Sembra che sia stato lasciato lì proprio perché
capace, più di altri, di raccogliere la rabbia dei la-voratori e
scatenare una massiccia partecipazione per dire NO per “affermare una scelta
di civiltà”.
Ma assieme ad esso è stato ammesso il referendum che abroga
la quota proporzionale alle elezioni. Un quesito che chiede di escludere
dalla rappresentanza parlamentare le minoranze politiche che non s’identificano
sull’ appiatti-mento bipolare e che comporta quindi un ulteriore imbarbarimento
della legge elettorale in grado di svuotare del tutto i meccanismi di garanzia
e di tutela delle minoranze previsti in Costituzione. Questo quesito era
già stato presentato lo scorso anno e non approvato a seguito del
mancato raggiungimento del quorum. Qui si instaura il principio della possibile
riproposizione eterna di ogni referendum fino a che non raggiunga il quorum.
E su questo referendum han-no già dichiarato il loro aperto sostegno
i DS.
Appare fin troppo evidente che la chiamata nazionale a battere il referendum
sui licenziamenti partecipando al voto e votando NO avrà come effetto
sicuro il raggiungimento del quorum su tutti i referendum. Consentendo
finalmente di far passare l’abolizione del proporzionale.
Facciamo fatica a capire come non faccia Rifondazione a rendersi conto
di questo trabocchetto e partecipare con sindacalisti e diessini alla “sacra
crociata” per il NO al referendum sui licenziamenti sapendo già
che metà dell’ eser-cito con cui si illude di combattere ha già
dichiarato che, su quello proporzionale, si sta attrezzando a metterglielo
nel culo. E senza dare per scontato poi che questa parte di esercito, per
evitare confusioni di massa, dia poi indicazioni sottobanco di votare SI
a tutti i referendum …. e chi si è visto si è visto.
La decisione della Consulta quindi, invece che indebolire la scelta
astensionista, aggiunge agli argomenti sopra elencati motivazioni ulteriori
che la rendono ancor più evidente e urgente.
E a tutto quanto detto fin’ora si potrebbe aggiungere anche che :
- un “forte voto” astensionista potrebbe avviare la “rivisitazione”
dell’istituto del referendum abrogativo eliminando l’ uso “classista” che
se ne stanno facendo
- l’astensione “motivata” potrà dare una nuova identità
all’esercito degli esclusi e disamorati della politica, dando un obiettivo
di “difesa democratica” ad una protesta finora dilagante ma vissuta nel
piccolo della propria indivi-dualità, in termini spesso confusi
se non addirittura qualunquistici
- con l’astensione si eviterebbe infine che nelle casse dei referendari
affluiscano 5 miliardi del rimborso elettorale pubblico, erogato dallo
Stato soltanto nel caso in cui in cui i referendum raggiungano il quorum.
Occorre qualche altro argomento?
Slai Cobas Ansaldo
Dopo le decisioni della Consulta, anche l’ultima incertezza sull’accorpamento dei referendum alle elezioni regionali è stata risolta. Ormai le carte sono tutte in tavola e si deve cominciare a ragionarci su seria-mente.
E’ vero che la data del 21 maggio è lontana, ma se vogliamo costruire una diffusa coscienza sulla posta in gioco occorre cominciare a lavorarci su da subito. C’è chi suggerisce di sospendere per ora di schierarsi per una delle due opzioni in campo ( votare No o astenersi) per unirsi in una vasta campagna di diffusione e di sensibilizzazione sugli effetti devastanti del referendum sui licenziamenti. Il problema è che proprio il modo con cui si decide di affondare lo sguardo sulla natura “ideologica” di questo referendum predetermina inesorabilmente l’opzione consequenziale.
E’ su questo “sguardo” che, prima di entrare nel merito delle molte argomentazioni di sostegno, vorrei soffermarmi con questo intervento.
Non si può non vedere che, al di là dei tagli oggi operati
dalla Consulta, lo scatenamento referendario innescato da radicali e soci
( Pannella ha già annunciato che ne presenterà altri trenta
) contiene un messag-gio “devastante” : quello che le tensioni sociali
trovano il loro punto finale e “democratico” di soluzione attraverso l’imposizione
di una maggioranza misurata attraverso la partecipazione allo strumento
anonimo e individualistico del voto.
Di volta in volta, a secondo del diritto da opprimere, maggioranze
diverse verranno scatenate contro que-sto o quel gruppo o classe sociale.
Poco importa se, come nel caso oggi in questione, si chiede di spalancare
un baratro verso la barbarie e il medioevo consentendo ai padroni il diritto
di comprarsi anche la dignità degli esseri in carne e ossa che sono
già obbligati a vendere la loro forza lavoro. Perché di questo
e non di altro si tratta.
Di fronte ad un simile immondo "abuso” di democrazia hanno poco senso
le argomentazione dei “realisti” della politica che, ossessionati dal risultato,
sono già da subito disposti a rinunciare a qualsiasi battaglia di
principio, di chiarezza, di coerenza.
Chi è convinto che i diritti fondamentali della persona, anche
dietro le mura dei posti di lavoro, sono in-violabili e a nessuna maggioranza
può esser concesso l’arbitrio di lederli, non può partecipare
all’immondo gioco di questi referendum. Ratificandone, anche in caso di
vittoria oggi dei NO, l’impianto illiberale e classista. Continuamente
riproponibile.
L'unico atteggiamento politicamente coerente è stroncarlo radicalmente
dal basso con un processo di delegittimazione e di sabotaggio. Una volta
per tutte.
La sfida è senz’altro alta. Ma devono pur arrivare momenti in
cui si ha il coraggio di chiamarsi fuori dalle loro finte regole democratiche
con cui ci costringono da troppo tempo a dover fare i conti e con
le quali stanno spazzando via gli ultimi barlumi di diritti che ci siamo
conquistati con decenni di lotte e di sangue. A viso aperto e sulle piazze.
Il sabotaggio dei referendum attraverso l’astensione evidentemente non dice la parola fine alla lotta di classe : esso può essere però un modo per riproporne l’esistenza e rivendicarne la necessità.
Coloro che ci accuseranno di fare il gioco dei SI dovranno prima rendere
conto loro di non aver avuto il coraggio di uscire da una logica bottegaia
e di piccolo cabotaggio cogliendo l’occasione per lanciare all’esercito
degli esclusi, dei delusi della politica, dei ricattati di oggi e di domani,
il respiro ben più vasto di una campagna che dicesse finalmente
: “Adesso basta !”
E che potesse innescare una speranza di futuro.
Forse perché, questo futuro non lo vogliono o ne hanno paura.