Con l’espressione americana
fly-over si indicano gli Stati Uniti dell’interno, come il Nebraska o il
Kansas. Tutto quel vasto territorio che sta tra gli Appalachi e le Montagne
Rocciose è fly-over, qualcosa che sta lì solo per passarci sopra in volo
su un aereo di linea. È un modo per dire che quell’immensità non serve a nulla
se non a tener separate le due coste dove si vive davvero: all'interno invece
non succede nulla. Eppure gli stati del fly-over sono quelli che alla
fine ci hanno fatto lo scherzo di eleggere Bush due volte di fila.
Per capire com’è fatta
quell’America che nei film di Hollywood si vede di rado e che non credo sia
molto nota ai nostri lodatori degli Stati Uniti, leggete questa raccoltina di
racconti di un grande della narrativa americana, il sessantacinquenne Russell
Banks. La sua grandezza in patria (e nei pressi) l’attesta anche il fatto che
il suo romanzo Il dolce domani sia stato mirabilmente trasformato in
film da Atom Egoyan, e che l’università di Princeton l’abbia chiamato a
insegnare scrittura creativa (per altre informazioni sull’autore vi rimando
alla piacevole postfazione di Mattia Carratello).
A me viene da chiedermi
cosa spinga uno scrittore a occuparsi di questa umanità ignorante, fallita,
cialtrona, ritratta mirabilmente in tutta la propria tristezza e frustrazione
fin dal primo racconto, “Il pescatore”, quasi una favola antica che però sfocia
in una morale postmoderna. Perché mai raccontare storie di sfigati, cosa che
lega Banks a tutta una genealogia di scrittori a stelle e strisce, da Steinbeck
giù giù fino a Carver e Jim Shepard?
Forse gli scrittori
americani raccontano le storie di chi non ce la fa, di chi è brutto e cafone
(come la protagonista di “Sarah Cole: una certo tipo di storia d’amore”),
perché alla fin fine nella democrazia ci credono. Tutti hanno il diritto
che la propria storia venga raccontata: dal miliardario psicotico stile Howard
Hughes a quelli che vivono nei trailer in mancanza di una casa.
Può anche darsi che da
questa motivazione scaturisca l’intento di smascherare l’ipocrita mito
americano della prosperità per tutti. Facendo vedere che c’è chi non diventa
Bill Gates (o George Bush) si mette in discussione l’idea che basti avere buona
volontà e lavorare sodo per arricchire. E chi ci ha saputo fare, come il
brutale ristoratore di “La Sera dell’Aragosta”, può avere decisamente troppi
scheletri nell’armadio (o in frigo).
Viene però il dubbio che
chi racconti e chi legga queste folgoranti vicende di white trash lo
faccia per mettersi la coscienza a posto. Perché quel che succede a noi che
leggiamo libri Einaudi e siamo discretamente colti e benestanti lo sappiamo
già, quindi siamo (morbosamente) curiosi di sapere come se la passano quelli che
non hanno mai letto un libro e non sanno come sbarcare il lunario, come il
pluridivorziato edile di “Le pianure di Abramo”. Voyeurismo narrativo?
E se questa letteratura che
mette a fuoco le vite degli have nots, quelli che non hanno e non ce la
fanno, fosse soltanto un modo per convincere noialtri che qualcosetta ce
l’abbiamo che è meglio non agitarsi troppo, non chiedere troppo, non rompere
troppo le scatole, altrimenti il sistema (leggi “economia tardocapitalistica”)
non funziona più e finiamo tutti come la famiglia abbandonata di “Regina per un
giorno”?
Ma mi viene un ultimo
dubbio. Non sarà che ci raccontiamo le storie degli sfigati perché ormai (o da
sempre) solo a loro succede qualcosa che valga la pena di raccontare? Cos’è
generalmente la vita di una famiglia benestante di oggi, se non una monotona e
insensata successione di acquisti e insoddisfazioni? Ben poco sopravvive al
consumo esasperato e omnipervasivo che sagoma le vite della gente (scusate,
volevo dire delle “fasce di consumatori”) fin dalla più tenera infanzia. Gli
sfigati, invece, che tante cose non le possono comprare, ancora capiscono cosa
vuol dire risparmiare, e per questo gli succedono strane disavventure come la
caccia notturna raccontata in “Mucca-mucca”.
(Noticina polemica: da un
lato Einaudi centellina i racconti di Banks, pubblicandone solo otto dei
trentadue nella raccolta originale; dall’altro ci regala i refusi che macchiano
la pur bella traduzione di Gobetti. Cari amici dello Struzzo, siete proprio dei
birbaccioni!)
(Pulp Libri, n. 56, p. 30)