Piccolo grande uomo, di Thomas Berger, Fanucci, tr. Luciano Bianciardi

 

Lo so che a furia di gridare all'evento editoriale si corre il rischio di non esser creduti, ma ogni tanto il rischio va corso: la ripubblicazione di questo grande romanzo americano merita infatti la massima attenzione. Non solo perché ripropone una splendida traduzione del grande Bianciardi, che da sola vale il prezzo del volume; non solo perché ci ripresenta un romanzo emozionante e a suo tempo (quando uscì negli Stati Uniti nel 1964) profondamente innovativo, tra gli apripista del postmodernismo; non solo perché di lettura assolutamente godibile anche grazie al feroce umorismo di Berger (autore ingiustamente sottovalutato da noi, ma a sentire Jonathan Lethem, suo grande ammiratore e seguace, un po' dimenticato anche oltreoceano).

Il romanzo va letto anche e soprattutto in questi tempi in cui chiunque, anche un qualsiasi sindaco o sottosegretario, si sente autorizzato a blaterare di multiculturalismo, di scontro di civiltà, eccetera. Bene, sarebbe il caso che questi vociferatori massmediali si rileggessero una delle più belle e felici (anche nella sua profondissima e lacerante tragicità) illustrazioni di un vero scontro tra civiltà, quello che contrappose alla metà dell'Ottocento i nativi americani (detti indiani) e i colonizzatori europei (detti americani o cowboy) che sciamavano dalla costa orientale degli allora giovanissimi Stati Uniti.

Berger, per consentirci uno sguardo stereoscopico e al limite dello schizofrenico, che ci facesse vedere da dentro la cultura cheyenne e l'incultura a stelle e strisce, inventa un personaggio a dir poco epico, Jack Crabb, nato bianco ma cresciuto in una tribù indiana e poi tornato tra i bianchi (e neri). Crabb si trova nella scomodissima situazione di conoscere troppo bene usi e costumi e lingua dei nativi per considerarli solo “selvaggi”, ma di avere anche accesso alla civiltà europea nella sua versione americana, e di capire che in quella che per i cheyenne è pazzia c'è purtroppo un metodo inesorabile e spietato, che porterà alla distruzione di un mondo, inteso sia come ecosistema che come civiltà. La storia di Crabb diventa così, di incontro in incontro con le figure mitologiche del west (smitizzate non senza sarcasmo da Berger, come nel ritratto di un folle generale Custer che ha tagliato del tutto i ponti con la realtà), storia di un'intera epopea, ma anche sua demolizione e ricostruzione.

Unico neo: un po' troppi refusi per un romanzo così bello, amici della Fanucci!

 

(Pulp Libri, n. 62, p. 29)

 

Torna alle recensioni…