Guerre americane, di Daniel Buckman, Edizioni e/o, tr. di Raffaella Belletti

Cominciamo con una tiratina d’orecchie, ma molto leggera: cambiando disinvoltamente il titolo di questo romanzo (che quand’era uscito in America nel 2001 si chiamava Water in Darkness) e/o ha cercato di strizzare l’occhio all’attualità e cavalcare la tigre di un tema che tira. Guerre americane però, va detto subito, non è un saggio sui fatti d’Afghanistan o d’Iraq, bensì un romanzo ambientato nei bassifondi di Detroit. Quest’ultima un tempo era la capitale dell’auto a stelle e strisce, ora è metropoli discretamente degradata e violenta. È lì che s’incontrano Danny Morrison alias Danny Irish, un veterano del Viet-Nam e poi poliziotto, cacciato dalla polizia per abuso di cocaina e finito praticamente nelle fogne; e Jack Tyne, un giovanotto di campagna da poco congedatosi dai paracadutisti e col padre morto in Viet-Nam, uno che ha evidentemente perso la bussola.

Le guerre c’entrano pure, ma rimangono sullo sfondo; il grosso del romanzo è la descrizione di vite rovinate tra i disperati della società post-reaganiana, dove i benestanti hanno decisamente troppo, mentre gli altri se non crepano ci manca poco. In questo mondo senza speranze, affollato di neri, ispanici, greci e irlandesi, alla faccia del melting-pot, Buckman ci sguazza quasi con compiacimento, strizzando un occhio a Cormac McCarthy (e Henry Miller nei momenti più ebbri); pescando anche a piene mani da un consolidato immaginario cinematografico statunitense (diverse scene fanno pensare a una trasposizione romanzesca del Cattivo tenente di Abel Ferrara).

L’aspetto interessante del libro, e per questo dobbiamo alfine perdonare l’astuto cambio di titolo, è però l’aver riconnesso la brutalità del mondo dei falliti con la brutalità delle guerre americane. Specialmente del Viet-Nam, dove ci si poteva sentire un Dio, come afferma Danny Irish: “Laggiù potevi essere un negro con le pezze al culo o un montanaro, ma avevi pieno potere sui musi gialli. Potevi comprarne intere famiglie per farti lavare il culo o farti succhiare l’uccello, e per abbastanza soldi avrebbero messo le mani a coppa per fartici cacare. Se qualcuno ti faceva incazzare non dovevi fare altro che sparargli, bruciargli la catapecchia, ammazzargli maiali e galline…” Ci si perdoni il linguaggio osceno della citazione, ma sapete, è la guerra ad essere una faccenda oscena; e di fronte a quest’oscenità Buckman ha il coraggio di non indietreggiare; e questo è il suo merito.

 

(Pulp Libri, n. 49, p. 44)

 

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