Cominciamo con una tiratina
d’orecchie, ma molto leggera: cambiando disinvoltamente il titolo di questo
romanzo (che quand’era uscito in America nel 2001 si chiamava Water in
Darkness) e/o ha cercato di strizzare l’occhio all’attualità e cavalcare la
tigre di un tema che tira. Guerre americane però, va detto subito, non è
un saggio sui fatti d’Afghanistan o d’Iraq, bensì un romanzo ambientato nei
bassifondi di Detroit. Quest’ultima un tempo era la capitale dell’auto a stelle
e strisce, ora è metropoli discretamente degradata e violenta. È lì che s’incontrano
Danny Morrison alias Danny Irish, un veterano del Viet-Nam e poi poliziotto,
cacciato dalla polizia per abuso di cocaina e finito praticamente nelle fogne;
e Jack Tyne, un giovanotto di campagna da poco congedatosi dai paracadutisti e
col padre morto in Viet-Nam, uno che ha evidentemente perso la bussola.
Le guerre c’entrano pure,
ma rimangono sullo sfondo; il grosso del romanzo è la descrizione di vite
rovinate tra i disperati della società post-reaganiana, dove i benestanti hanno
decisamente troppo, mentre gli altri se non crepano ci manca poco. In questo
mondo senza speranze, affollato di neri, ispanici, greci e irlandesi, alla
faccia del melting-pot, Buckman ci sguazza quasi con compiacimento,
strizzando un occhio a Cormac McCarthy (e Henry Miller nei momenti più ebbri);
pescando anche a piene mani da un consolidato immaginario cinematografico
statunitense (diverse scene fanno pensare a una trasposizione romanzesca del Cattivo
tenente di Abel Ferrara).
L’aspetto interessante del
libro, e per questo dobbiamo alfine perdonare l’astuto cambio di titolo, è però
l’aver riconnesso la brutalità del mondo dei falliti con la brutalità delle
guerre americane. Specialmente del Viet-Nam, dove ci si poteva sentire un Dio,
come afferma Danny Irish: “Laggiù potevi essere un negro con le pezze al culo o
un montanaro, ma avevi pieno potere sui musi gialli. Potevi comprarne intere
famiglie per farti lavare il culo o farti succhiare l’uccello, e per abbastanza
soldi avrebbero messo le mani a coppa per fartici cacare. Se qualcuno ti faceva
incazzare non dovevi fare altro che sparargli, bruciargli la catapecchia,
ammazzargli maiali e galline…” Ci si perdoni il linguaggio osceno della
citazione, ma sapete, è la guerra ad essere una faccenda oscena; e di fronte a
quest’oscenità Buckman ha il coraggio di non indietreggiare; e questo è il suo
merito.
(Pulp Libri,
n. 49, p. 44)