Tempo fuor di sesto, di Philip K. Dick, Fanucci, trad. di Anna Martini

Cominciamo dal titolo: questo romanzo era già stato pubblicato in Italia come L’uomo dei giochi a premio, e poi come Tempo fuori luogo. Bene; il titolo vero è questo, gli altri ve li potete anche dimenticare. All’origine Dick era stato convinto a intitolare la sua opera con una citazione dall’Amleto di Shakespeare: Time Out of Joint. Oggi finalmente la Fanucci ha riportato la cosa al suo nome, dando a Shakespeare quel ch’è di Shakespeare; e già che c’era, l’ha fatto anche ritradurre (benissimo).

Pubblicato negli Stati Uniti nel 1959, è questo il primo grande romanzo di Dick; tutt’altro che opera d’apprendistato, è il parto di uno scrittore maturo, che di lì a poco avrebbe scritto L’uomo nell’alto castello. Il tema del romanzo: la lotta tra un tempo presente idilliaco (quello degli anni ’50, degli Happy Days, dell’America suburbana con le sue casette e la socialità stile Peyton Place) e uno futuro e distopico (fatto di totalitarismo, guerra, intolleranza e angoscia). In mezzo un fallito, Ragle Gumm, veterano della guerra nel Pacifico, che invece di trovarsi un lavoro e farsi una famiglia come il cognato Vic si balocca con un gioco a quiz pubblicato dal giornale locale. Il titolo del gioco è Dove si troverà l’omino verde?, e si capisce subito che non è roba da adulti, ma da adolescenti in ritardo: fantascienza!

Come Amleto, Ragle è indeciso su cosa fare (continuare a giocare o sistemarsi), e soprattutto indeciso sulla realtà che lo circonda: sono veramente gli anni ’50, il mondo è veramente tutto lì, le signore che vanno a fare la spesa nei primi supermercati e i mariti che curano il giardino nel weekend, oppure c’è qualcos’altro? Perché la vita tranquilla in quella città soporifera viene ogni tanto scossa da piccoli sobbalzi, stranezze, incongruenze che insospettiscono l’amletico protagonista; fino al giorno in cui il nipotino trova in un campo una rivista che parla di una nuova attrice decantandone i film e il successo internazionale. Ma Ragle e i suoi parenti di questa Marylin Monroe non ne hanno mai sentito parlare…

È sempre difficile staccarsi dalle pagine di un romanzo di Philip K. Dick una volta che si comincia a leggerlo. Ancor più difficile staccarsi da questo, che forse più di altri è carico di una suspense micidiale e costruito con un senso del ritmo narrativo a dir poco sublime. Ma è anche opera di una profondità abissale, dove riecheggiano Goethe e il Vangelo di Giovanni quando meno te l’aspetti: potremmo definirla la Recherche dei suburbia, e non faremmo torto a Marcel.

 

[Pur se scritta per Pulp Libri, questa recensione non venne poi pubblicata a causa di un disguido.]

 

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