Se è vero che si sta
prestando sempre più attenzione a chi da noi scrive in italiano anche se
italiano lo è solo d’adozione, è anche vero che (finalmente) si comincia a tener
d’occhio ciò che in italiano hanno scritto i nostri parenti emigrati; che
spesso sono restati caparbiamente attaccati alla nostra lingua anche
quand’erano oltre Atlantico.
La collana Transatlantica
di Avagliano tiene traccia di questa produzione, e propone questo testo privo
di ambizioni letterarie, memoriale di un autentico, genuino sbirro; anzi, di un
vero cop di New York ma nativo di Roma, antesignano dei più famosi
agenti Serpico e Pistone. Il Fiaschetti aveva pubblicato questi scritti a
puntate sul Corriere d’America nel 1929, raccontando le sue imprese di
poliziotto che, scettico nei confronti dei metodi logico-deduttivi di Sherlock
Holmes, otteneva ottimi risultati grazie ai sue spie e confidenti, gli stool-pigeons
di cui parla diffusamente.
A parte il fascino indubbio
dell’underworld ritratto da Fiaschetti con poche, efficaci pennellate,
il libro ha diversi aspetti, di cui mi preme sottolinearne uno in particolare.
Ed è la lingua: lineare, nient’affatto letteraria, scabra in più punti, veloce,
irta di termini angloamericani, smentisce quel vecchio mito che l’italiano sia
linguaggio di retori fumisti, incapace di descrivere semplicemente i semplici
fatti. Fiaschetti (o come sospetta Martino Marazzi nella sua efficace
prefazione, Fiaschetti cum Barzini jr.) parla una lingua curiosa, che
nonostante gli anni non sa affatto d’antico; e ha una sua singolare efficacia.
Non è la lingua dei nostri dannunzietti (d’allora e di oggi), è la lingua dei
nostri zii d’America andati lì sia per lavorare che per spararsi a vicenda,
comunque abituati a parlare di cose concretissime: come scrive Marazzi: “senza
la benché minima traccia di affettazione o di scivolamento letterario”. E
proprio questo rende la lettura di Gioco duro quanto mai gustosa.
(Pulp Libri, n. 43, p. 31)