Gioco duro, di Michael Fiaschetti, Avagliano Editore

 

Se è vero che si sta prestando sempre più attenzione a chi da noi scrive in italiano anche se italiano lo è solo d’adozione, è anche vero che (finalmente) si comincia a tener d’occhio ciò che in italiano hanno scritto i nostri parenti emigrati; che spesso sono restati caparbiamente attaccati alla nostra lingua anche quand’erano oltre Atlantico.

La collana Transatlantica di Avagliano tiene traccia di questa produzione, e propone questo testo privo di ambizioni letterarie, memoriale di un autentico, genuino sbirro; anzi, di un vero cop di New York ma nativo di Roma, antesignano dei più famosi agenti Serpico e Pistone. Il Fiaschetti aveva pubblicato questi scritti a puntate sul Corriere d’America nel 1929, raccontando le sue imprese di poliziotto che, scettico nei confronti dei metodi logico-deduttivi di Sherlock Holmes, otteneva ottimi risultati grazie ai sue spie e confidenti, gli stool-pigeons di cui parla diffusamente.

A parte il fascino indubbio dell’underworld ritratto da Fiaschetti con poche, efficaci pennellate, il libro ha diversi aspetti, di cui mi preme sottolinearne uno in particolare. Ed è la lingua: lineare, nient’affatto letteraria, scabra in più punti, veloce, irta di termini angloamericani, smentisce quel vecchio mito che l’italiano sia linguaggio di retori fumisti, incapace di descrivere semplicemente i semplici fatti. Fiaschetti (o come sospetta Martino Marazzi nella sua efficace prefazione, Fiaschetti cum Barzini jr.) parla una lingua curiosa, che nonostante gli anni non sa affatto d’antico; e ha una sua singolare efficacia. Non è la lingua dei nostri dannunzietti (d’allora e di oggi), è la lingua dei nostri zii d’America andati lì sia per lavorare che per spararsi a vicenda, comunque abituati a parlare di cose concretissime: come scrive Marazzi: “senza la benché minima traccia di affettazione o di scivolamento letterario”. E proprio questo rende la lettura di Gioco duro quanto mai gustosa.

(Pulp Libri, n. 43, p. 31)

 

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