Corri, uomo, corri, di Chester Himes, Giano Editore, tr. Luca Conti

1966: un anno dopo la marcia per i diritti civili guidata da Martin Luther King da Selma a Montgomery; un anno dopo la sanguinosa esplosione del ghetto nero di Watts. Nel bel mezzo di quegli anni ’60 che certi scrittori di casa nostra appiattiscono su hippie fumati e sballati, ma che negli Stati Uniti sono stati un tempo di violenza e di lotta per l’abolizione degli ultimi residui dello schiavismo, ufficialmente terminato nel 1865, ma la cui ombra (quella sì nera) ancora si stendeva sull’America cent’anni dopo.

Proprio nel ’66 esce questo noir raggelante e ossessivo di uno dei grandi scrittori afro-americani del ’900, Chester Himes, finora pressoché monopolizzato da Marcos & Marcos, ma ora proposto anche dalla casa editrice di Varese con un romanzo di tutto rispetto. Incentrato, manco a dirlo, sulla questione del colore, o come si diceva un tempo non lontano (anche nel paese degli Italiani brava gente), della razza. Quindi, libro attuale pur con i suoi quarant’anni – che non dimostra affatto.

Himes gioca a carte scoperte: fin dalle prime pagine sappiamo che il cattivo è il bianco Matt Walker, un poliziotto corrotto di New York, insospettabile psicopatico, omicida per futili motivi di due neri che lavorano di notte in una tavola calda. Per passarla liscia a Walker basterebbe togliere di mezzo il terzo nero presente nel locale la notte del massacro, Jimmy Johnson; ma quest’ultimo non ha molta voglia di lasciarsi ammazzare. Si snoda così una sorta di letale partita a scacchi, grazie alla quale Himes può portarci in giro nella New York dei neri, quella città che non vedrete nei film di Woody Allen.

Nel corso della partita Himes riesce, con una serie di scene estremamente ben congegnate che si susseguono implacabilmente, a mostrare come il mondo dei bianchi e quello dei neri siano inestricabilmente inviluppati, e come il veleno del pregiudizio, dell’odio razziale, della diffidenza siano in grado di intossicare qualsiasi rapporto; e che se c’è speranza di redimere la maledizione della schiavitù, non sta certo nella rimozione isterica denominata political correctness. Semmai, si deve contare sulla capacità di scandagliare l’ombra (nerissima) che tutti i personaggi si portano in fondo all’anima. Cosa tutt’altro che facile, ma che a Himes riesce benissimo.

(Pulp Libri, n. 59, p. 43)

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