In un posto solitario, di Dorothy B. Hughes, Giano Editore, tr. Anna Maria Biavasco

Viviamo da venticinque anni in un incubo planetario nel quale apparire è tutto ed essere è niente, nel quale l’abito fa il monaco e a buon bisogno fa anche il Papa, nel quale i soldi giustificano qualsiasi mezzo, incluso ovviamente l’omicidio − se serve, anche il genocidio. Chiamatelo mondo postmoderno, neo-liberista, tardocapitalista, la musica che si suona è questa.

L’incubatore di questo meraviglioso mondo nuovo, ben prima di Reagan e della Thatcher, è stata la California meridionale, o, in altri termini, quella metropoli senza centro e dalle infinite periferie nota come Los Angeles (nomen non est omen…). Qui si ambienta, alla metà degli anni ’40, la vicenda di Dix Steele, giovane di bella presenza e nessuno scrupolo, affabile, elegante, di buon gusto, che non gradendo la vita grama che gli si spalancava dinanzi alla fine della seconda guerra mondiale, s’impadronisce della vita di un altro e si trasforma in un personaggio cruciale dei nostri tempi: il parassita.

Dix vive a Beverly Hills a scrocco, all’ombra di Hollywood, terra di sogni e di chimere. Ha capito che bazzicare ricconi fa sì che un po’ dei loro soldi ti finiranno in tasca. Ha capito che nel mondo dell’immagine una giacca di buon taglio vale molto più che intelligenza, correttezza e serietà. E soprattutto ha capito che tra tutti i vizi (alcol, sesso, droga, e quant’altro) quello supremo, che nella destrutturata metropoli californiana ci si può concedere senza tanti problemi, è l’omicidio; meglio se ai danni di belle ragazze e accompagnato da uno stupro.

Questa storia assolutamente e genialmente noir, annata 1947, pare scritta la settimana scorsa. Dentro c’è già tutta la mitologia losangelina che ben conosciamo, da America oggi di Altman a Mulholland Drive di Lynch, giù fino al recente Collateral di Michael Mann. Non sorprende che da questo romanzo morboso e iperrealisticamente allucinato sia stato tratto un classico del film noir, Il diritto di uccidere (col grande Bogart). Bravo Gianotti per avercelo riproposto, bravissima la Biavasco per la traduzione.

 

(Pulp Libri, n. 56, p. 39)

 

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