America at large: Americanistica transnazionale e nuova comparatistica, a cura di Donatella Izzo e Giorgio Mariani, Shake

Non spaventatevi per il titolo erudito di questa raccolta di saggi. In realtà la questione che tratta può essere alquanto semplificata, e lo fa Giorgio Mariani nell’introduzione: come far evolvere lo studio della cultura americana da un modello nazionale (e nazionalista, di questi tempi sospetto d’essere imperiale) a un modello comparato, che tenga conto non solo di quanto l’America abbia attinto al resto del mondo in termini di idee e rappresentazioni, ma anche di quanto la cultura americana sia in sé stessa multiculturale e ibrida (si pensi per esempio ai tanti immigrati sud- e centroamericani che si ostinano a parlare e pensare e scrivere in spagnolo).

Quella di Mariani e Izzo, e degli altri partecipanti alla miscellanea (tra cui spicca lo studioso statunitense Djelal Kadir, il cui nome già esemplifica le tesi proposte nel volumetto; molto interessante anche il contributo di Izzo, vero cuore pulsante del libro), è impresa altamente meritoria; di questi tempi infatti ci predicano continuamente le meraviglie e gli splendori del modello americano. Sull’America (nome con il quale si definiscono non senza problemi gli Stati Uniti) pontificano (e in effetti speculano) soprattutto quei politicanti e parolai italioti che dell’America di oggi, di ieri e di ieri l’altro sanno ben poco, a parte qualche luogo comune ascoltato al bar e qualche scena madre presa dai filmoni hollywoodiani. Io, se devo riflettere sui pregi e i difetti di una civiltà che a conoscerla bene pare dell’altro mondo (nel senso di Marte), preferisco affidarmi a seri professionisti come Mariani e Izzo e soci, che se non altro certe cose sono decenni che le studiano, e le vivono anche.

Unico dubbio sull’impresa dei curatori: ma se l’obiettivo è, come affermano, cercare una definizione dell’America (leggi Stati Uniti) negli occhi dell’altro, cioè del non-statunitense, come mai la letteratura critico-teorica citata (ricchissima) è quasi sempre di area statunitense? Ce lo possono dire solo gli americani (di nascita o d’adozione), pur se critici e diciamo “di sinistra”, che c’è un problema di imperialismo culturale oltre che economico-politico?

(Pulp Libri, n. 55, p. 54)

 

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