Atto d’amore, di Joe R. Lansdale, tr. Giancarlo Carlotti, Fanucci

Mi perdoneranno i lettori un’espressione frusta? Su Lansdale esistono due scuole di pensiero. Qui lo dico e non lo nego. Stando alla prima, rappresentata (tra gli altri) dal fine italianista Emanuele Trevi, Lansdale è un vero cafone, anzi, il poeta della cafonaggine: un buon selvaggio che nella sua (cafona) coerenza ha il proprio pregio letterario. Diversamente la pensa chi, come Luca Briasco, erudito americanista, non si stanca di ripetere che Lansdale è uno scrittore smaliziato che fa il cafone, o meglio che sa ritrarre magistralmente i cafoni del Texas, sua patria e sua dimora (e abitando a Nacogdoches gli è pure finito un pezzo dello shuttle in giardino).

Ebbene, dopo aver letto questo romanzo, impresa d’esordio del grande Joe (anche fisicamente è una montagna), mi sono ancor più convinto che, mi si perdoni questa posizione cerchiobottista, hanno un po’ ragione tutti e due. Non in pari misura: diciamo 60% Briasco e 40% Trevi. È vero che Lansdale è uno scrittore accorto, tecnico, scaltrito: e ce ne sono di citazioni, in questo romanzo, soprattutto cinematografiche (alcune palesi, molte nascoste, tra cui gli omaggi al nostro geniale artigiano dell’horror Dario Argento), ma anche letterarie. E ci vuole una certa consapevolezza del proprio scrivere per costruire un giallo perfetto e calibrato come questo, inserendo pure a ogni pié sospinto scene e topoi tipici dell’horror, in un gioco di cortocircuitazione dei generi che spinge a leggere il libro non tutto d’un fiato, ma letteramente senza fiato. Sfido chiunque a cominciarlo e metterlo giù; e quando si scopre chi è il colpevole (perché Atto d’amore, pur con tutte le sue componenti splatter-horror, è proprio un giallo con l’enigma da risolvere e il finale mozzafiato), è una vera sorpresa. Anche politicamente; oserei dire soprattutto politicamente.

Ma la teoria del Lansdale cafone cara al Trevi ha la sua motivazione. Lansdale, e ben lo sa chi lo ha tradotto, è un Grande Provinciale; orgoglioso della propria provincialità, e quindi genuino cafone (o burino) nel non voler essere altro che cafone (o burino). Non è un soggetto da grande città e da labirinti metropolitani. La sua ambientazione è la periferia dell’impero americano; il Texas degli sfigati, del white trash, non quello di J.R. Ewing o di G.W. Bush. E questo spiega l’unica pecca del romanzo: qui Lansdale ha voluto giocare in un terreno che non gli è congeniale: ha ambientato la storia a Houston e Pasadena, che sono, anche se più piccole di New York, metropoli (due milioni e passa di abitanti per Houston, grattacieli e tutto il resto). In questo si vede, come in qualche frase un po’ scontata all’inizio del romanzo, che è l’opera di uno scrittore esordiente. Ma quanto dotato: a differenza di tanti romanzi che tocca di leggere, qui la seconda parte (il finale) è nettamente superiore alla prima, e ha una di quelle architetture che non cambieresti una virgola.

In seguito Joe R. Lansdale non ripeterà più l’errore, e ambienterà le sue storie in quelle piccole città di provincia che sono l’ambiente ideale del burino DOC, teatro ottimale delle sue buone e (soprattutto) cattive azioni. Sarà il Lansdale poeta dei drive-in e delle Chevrolet, saldamente radicato nella sua terra.

Infine: il romanzo uscì in America nel lontano 1981. Non è invecchiato affatto. E a leggerlo oggi si capisce da dove è uscita l’idea di mescolare giallo deduttivo e horror che ha permesso a Thomas Harris di far milioni (di dollari) con la sua trilogia di Hannibal Lecter. In Atto d’amore c’è già tutto: il serial killer, la lirica anatomo-patologica, la mistica del sangue e delle interiora e della merda, lo sguardo lucido e obliquo sulle miserie dell’America imperiale. Erede del Bloch di Psycho e ispiratore dei silenzi degli innocenti e compagnia cantante, Seven incluso, questo romanzo è una lettura imperdibile per chi voglia capire le genealogie della letteratura di genere americana. E anche per chi voglia soltanto perdere il sonno.

 

(Pulp Libri, n. 43, p. 28)

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