Men and Cartoons, di Jonathan Lethem, minimum fax, tr. Martina Testa ed Edoardo Nesi

 

Se volessimo cominciare la recensione in tono malignetto, dovremmo dire “Be’, ma si sono scordati di tradurre il titolo?” Ahimè, so bene che questo è un dilagante malvezzo della cinematografia e dell’editoria italiana: il titolo lasciato in inglese “fa fico”. Per me fa solo sciatto, anche perché “Uomini e cartoni” andava benissimo (è ben noto l’uso di “cartoni” per “cartoni animati”); oltre tutto in questo modo si sarebbe colta meglio l’allusione a Uomini e topi di Steinbeck. 

Ora, dopo le bacchettate, le lodi. Perché Cassini e il resto della truppa di minimum fax le meritano, per la testardaggine e l’impegno con cui continuano a lavorare su questo scrittore del quale in Italia si fatica a prendere coscienza (impegno ben maggiore di quello dimostrato dall’altro editore che possiede i diritti delle altre opere di Lethem, ovvero Tropea). Lethem, nella schiera di scrittori statunitensi che ci vengono ammanniti dalla nostra editoria, brilla ormai di luce propria, e lo fa anche nelle cose piccole (ma non per questo trascurabili), come i racconti qui raccolti. Racconti al limite del fantastico, come sempre nell’ultimo Lethem: uno spray che consente di vedere gli oggetti smarriti o rubati (“Lo spray”), un inspiegabile dejà-vu che è forse premonizione (“Vivian Relf”), un supereroe fallimentare (“Super Goat Man”), eccetera. Ma il tema ricorrente di questi racconti è anche e soprattutto (e in questo s’accostano all’ultimo grande romanzo del nostro, La fortezza della solitudine) lo scontro e l’incontro delle nostre fissazioni e mitologie infantili (soprattutto l’amore per i supereroi) con l’amara consapevolezza che nel mondo adulto non c’è Devil e Uomo Ragno che vengano a rattoppare gli strappi e gli squarci delle nostre vite.

Qua e là Lethem infila gag surreali (come in “Gli occhiali”) e riflessioni tra il serio e il patafisico (“Il distopista…”); gli riescono quasi sempre bene, perché, e questo non va trascurato, ha l’immaginazione sfrenata del californiano (suo nume tutelare è Philip K. Dick), ma anche la corrosiva ironia del newyorkese. E la prosa nient’affatto semplice di questo narratore coast-to-coast è stata ben resa (come al solito) da Martina Testa.

 

(Pulp Libri, n. 57, p. 41)

 

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