Ragazza con paesaggio, di Jonathan Lethem, Marco Tropea Editore, tr. Andrea Buzzi

 

Certi titoli sono proprio belli: quello originale era Girl in Landscape (“ragazza nel paesaggio”) e l’equivalente italiano non si discosta tanto da farne perdere l'essenzialità e l'appropriatezza.

Al centro del romanzo di Lethem (il quarto che ha scritto, nel 1998, per lungo tempo inedito in Italia) c'è infatti Pella Marsh, una ragazza tredicenne la cui madre è morta per un tumore poco prima che la famiglia abbandonasse una Terra devastata dalla catastrofe ecologica per cercare rifugio sul Pianeta degli Archisti. Pella è senza madre, situazione tipica degli eroi di Lethem (e ben nota all'autore stesso); e deve accollarsi il padre, politicante progressista fallito, e i due fratellini scombussolati dal lutto e dallo spaesamento. Già il modo magistrale in cui viene resa l'atmosfera dell'adolescenza di Pella, del suo sforzo di reagire alla perdita della madre e di affrontare quella che tutto sommato è una perdita d'innocenza, compensa la spesa per l'acquisto del volume e la fatica (pochissima) di leggerlo.

Ma oltre alla vicenda della famiglia Marsh, c'è il paesaggio surreale nel quale si muovono i personaggi, cioè il pianeta degli Archisti, un luogo desertico e stralunato, a metà tra il delirio surrealista di un Dalì o di un Ernst e l'immaginario Marte immortalato da Ray Bradbury (la cui presenza si avverte in tutto il romanzo, anche se sovrastata da quella di Philip K. Dick, maestro venerato da Lethem). E in quel paesaggio enigmatico, fatto di alte torri di roccia, si muovono gli Archisti stessi, un tempo padroni del pianeta, adesso presenze spettrali, creature che vivono come accattoni tra le vestigia di una civiltà scomparsa e incomprensibile.

Gli archisti sono enigmatici e sfuggenti. Sembrano divertirsi a contemplare lo sforzo di colonizzazione degli umani; e adottano ironicamente nomi improbabili come Genuflessione Silenziosa e Verità Nota. Tra le due culture sembra non poterci essere altro che una serie di surreali fraintendimenti, se non qualche attrito che dia fuoco a tutto.

Eppure qualcuno conosce la lingua degli Archisti, e sembra comprendere sia la loro civiltà che quella umana; ma costui, il burbero colono Efram Nugent, è nemico dichiarato di qualsiasi forma di contaminazione tra umani e Archisti, ed è l'unico terrestre che rifiuta di nutrirsi degli strani cibi che si trovano ovunque sul pianeta. Sul capo di Nugent posa un cappellone da cowboy che allude alla tradizione western saccheggiata da Lethem, in particolare l'inquietante capolavoro cinematografico Sentieri selvaggi, realizzato nel 1956 dal grande John Ford. In quel film, vero e proprio sottotesto di Ragazza con paesaggio, giganteggiava quella che nel bene e nel male dobbiamo considerare un'icona dell'immaginario americano: l'attore che oltreoceano chiamano The Duke, il carismatico e reazionario John Wayne (1907-1979).

Quest'ultimo veste nella pellicola i panni Ethan Edwards, cowboy tutto d'un pezzo, mezzo fuorilegge e mezzo giustiziere, ferocemente razzista, animato da un odio fanatico verso gli indiani (che conosce come pochi altri) e determinato a ritrovare la nipote rapita dai Comanche, non si capisce bene se per liberarla o per ucciderla per essere stata violata dagli odiati pellerossa. Figura ambiguamente titanica che tanto cinema a stelle e strisce ha ispirato (da Taxi Driver in poi), Ethan Edwards si reincarna nell'Efram Nugent di Lethem; e la surreale Monument Valley di Sentieri selvaggi (quella che Sergio Leone si sentì in dovere di rivisitare nel suo epico C'era una volta il west) è l'archetipo del paesaggio alieno dove s'ambienta la vicenda di Pella e della sua famiglia.

Mettete insieme tutto questo, e ne scaturisce un capolavoro della narrativa avantpop, ben tradotto dal bravo Andrea Buzzi, che riesce a rendere la raffinata e singolare prosa di Lethem, particolarmente attenta a cogliere le sfumature minime dei rapporti umani tra i personaggi (tanto “corposi” quant'è stralunato il mondo in cui vivono); ed è un bene, perché proprio lo stile fa del romanziere newyorchese una grande, grandissima promessa della narrativa americana.

Mi sbaglierò, ma più che a Eugenides o a Moody o a Safran Foer, il futuro del romanzo statunitense mi pare appartenere a Jonathan Lethem (accetto scommesse). E questa è un'ottima occasione per farsi un'idea del suo lato più fantascientifico, e immensamente, splendidamente, oniricamente poetico.

 

(Pulp Libri, n. 61, p. 29)

 

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