Tutto il ferro della Torre Eiffel, di
Michele Mari, Einaudi
Il nuovo romanzo di Michele
Mari, settimo di una serie che include perle quali Tu, sanguinosa infanzia e
Rondini sul filo, inizia come un colto divertissement ben scritto
e brioso, nonché irresistibilmente spassoso. La scena: Parigi nel 1936, non più
capitale del secolo, ma ancora rifugio dell’intellighenzia europea in fuga dai
vari totalitarismi sterminatori. I protagonisti: due grandi intellettuali
ebrei, uno francese di nascita, Marc Bloch, padre della storiografia della
lunga durata; l’altro, parigino d’adozione, il geniale e criptico filosofo e
critico Walter Benjamin. I due s’incontrano e collaborano in una folle e
labirintica queste che non cerca il Graal, ma il motivo per cui così
tante menti brillanti del secolo breve abbiano chiuso la propria traiettoria
intellettuale col suicidio (da Salgari a Witkievicz, da Pierre Drieu La
Rochelle a Klaus Mann), e perché su tutte queste morti incomba l’ombra (corta)
di un nano. Questi altri non è che Fischerle, il personaggio di Autodafé
di Canetti: capo di un grottesco complotto mondiale di nani che si accingono a
instaurare il dominio dell’Überzwerg, il Supernano.
In un fuoco d’artificio di
citazioni e invenzioni, di furti letterari e riprese di personaggi, la trama si
snoda tra episodi grotteschi e folgoranti, tra i quali non si può non citare la
confessione di Thomas S. Eliot di aver fatto parte della setta satanista di
Aleister Crowley, oppure la partita a scacchi per corrispondenza che Benjamin
gioca con l’aiuto di Tristan Tzara e Alekhin contro un Erich Auerbach
intenzionato a sottrargli i suoi manoscritti; come pure il lacerante confronto
tra Thomas Mann e suo figlio sulla politicità del suicidio e sul loro
devastante rapporto edipico, nonché la ricomparsa delle Madri goethiane sotto
forma di torma di femmes fatales, tra cui Alma Mahler, Theda Bara e
Marlene Dietrich (sub specie Lola-Lola).
Ma il divertissement,
che a tratti è semplicemente esilarante, si copre di ombre sempre più cupe e si
fa sempre più lugubre, man mano che la ricerca di Bloch e Benjamin rovista
sempre più a fondo nei sotterranei della coscienza europea: alienazione,
pazzia, satanismo, esoterismo, l’irrazionalità scatenata che nel periodo tra le
due guerre si manifesta dappertutto, ma soprattutto nella Germania hitleriana
dove le farneticazioni sulla razza vanno di pari passo con quelle sull’Ultima
Thule (trattate qua e là nel romanzo). Il libro si rivela allora come anatomia
di una psicopatia collettiva che porterà inesorabilmente, morte dopo morte,
suicidio dopo suicidio, all’apocalisse della seconda guerra mondiale. Si
capisce allora che Mari imita (splendidamente, da gran manierista qual è) la
prosa di Céline e Gadda, non solo in quanto suoi idoli letterari e maestri, ma
anche e soprattutto perché grandi testimoni dello sfacelo europeo (pensiamo al
Gadda della Cognizione, certo, ma ancor più allo spietato analista dello
sgangherato inconscio collettivo italiano di Eros e Priapo).
Non sorprende quindi che i
due ricercatori-investigatori di questa queste che è anche surreale giallo
intellettuale, e delirazione complottista (senza alieni o cerchi nel grano),
questi due simpatici Bouvard e Pécuchet modernisti, incontrino in un finale
agghiacciante e poderoso un destino terribile, orchestrato da un Autore che
entra in scena vestendo la sua maschera più cinica e beffarda. Tutt’altro che pastiche
erudito per intellettuali annoiati, questa è una paurosa e lucida visione
di un immenso disastro annunciato: il nostro.
Va aggiunto a questo punto
che Mari, pur attingendo a piene mani dai grandi modernisti (Gadda e Céline in
testa, ma anche Borges e Mann − fare però il censimento delle influenze
in un libro di questo spessore è un’impresa improba, c’è dentro tutto il secolo
passato), va a finire con questo libro, forse unico tra gli italiani d’oggi, in
un territorio letterario coltivato finora soprattutto dagli americani, in quel
romanzo storico postmoderno al tempo stesso inaffidabile e rivelatore nel quale
ha dato eccelsa prova di sé il Thomas Pynchon dell’Arcobaleno della gravità e
di Mason & Dixon (ma non solo). Insomma, nel suo forsennato (e
geniale) eurocentrismo, Michele Mari ha forse scritto (volontariamente?
involontariamente? che importa?) un romanzo paradossalmente e nobilmente americano;
e quindi, speriamo, anche un grande romanzo da esportazione.
(Pulp Libri, n. 41, p. 29)