La penna e il tamburo: Gli indiani d’America e la letteratura degli Stati Uniti, di Giorgio Mariani, Ombre corte

 

N. Scott Momaday. Leslie Silko. James Welch. Gerald Vizenor. Sherman Alexie. Wendy Rose. Simon Ortiz. Vine Deloria Jr. Può darsi che questi romanzieri, poeti e saggisti li abbiate letti, può darsi che li abbiate solo sentiti nominare, o che vi risultino ignoti. Una cosa comunque li accomuna: sono tutti al tempo stesso autori americani affermati, e indiani americani. Sono discendenti dei superstiti della grande mattanza (1.250.000 morti nell’arco di tre secoli, ma soprattutto nell’800) che ha reso la porzione dell’America denominata Stati Uniti praticabile ai traffici e agli affari degli europei ivi insediatisi.

Ebbene, gli indiani americani non sono morti tutti e non si rassegnano a essere una patetica sopravvivenza a uso e consumo dei turisti. Sono sopravvissuti a un genocidio che nessun tribunale internazionale sanzionerà mai, e convinti del potere della parola, anche di quella scritta, si sono impadroniti della lingua dello sterminatore e hanno dato vita a una letteratura coloniale degna della massima attenzione. Scrivo “coloniale” perché il colonialismo europeo negli Stati Uniti non è mai cessato: prosegue in forme più moderate e politically correct all’ombra della star spangled banner, ma prosegue.

In questa letteratura ci fa da guida, con quest’agile e documentatissimo volumetto, Giorgio Mariani, giovane docente universitario, uno dei maggiori esperti italiani di letteratura indiano-americana ma anche di letteratura americana tout court. Mariani è, come sa chi ha avuto il piacere di sentirlo parlare, come il suo libro: documentatissimo e chiarissimo. Ciò gli permette di rivolgersi sia ai suoi studenti che alla comunità accademica che al semplice curioso, senza limitarsi a redigere un catalogo di titoli e autori, ma sviluppando un discorso avvincente su temi cruciali quali il meticciato intellettuale e letterario, le prospettive del romanzo non solo indiano-americano, il rapporto tra le civiltà cosiddette “mitiche” e la nostra, supposta “storica”.

E proprio in ciò sta il fascino del suo saggio: nell’essere, ragionevolmente e consapevolmente, ricerca letteraria di frontiera, in tutti i sensi di un termine che nel contesto americano è quantomai sovraccarico di significati. Frontiera che si può tranquillamente attraversare guidati da uno scout di tale esperienza e intuito.

 

(Pulp Libri, n. 43, p. 35)

 

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