Non è un paese per vecchi, di Cormac McCarthy, Einaudi, tr. Martina Testa

 

Premessa: questo nuovo romanzo di McCarthy (uscito l'anno scorso negli Stati Uniti), sicuramente uno dei romanzieri più amati qui e in patria, è sostanzialmente un thriller. Di gran classe, ricco come stile e impatto emotivo, come ci si può attendere da un libro del nostro: ma sostanzialmente, sfrontatamente thriller.

Abituatevi all'idea: questo è un McCarthy tirato, brutale, tellurico, ma meno poetico, meno lirico dei precedenti; un libro che corre veloce verso il suo finale, che t'incolla alla pagina. In America si mormora che il manoscritto fosse di seicento pagine,  tagliate ferocemente dalla casa editrice. Vero o meno che sia, abbiamo comunque una vicenda compattissima che comincia al confine tra Stati Uniti e Messico, dove un cacciatore di nome Moss capita sulla scena di una battaglia tra narcotrafficanti, e tra cadaveri massacrati e auto devastate trova due milioni e rotti di dollari in una cartella di pelle. Decide di prenderli, e da quel momento la sua vita non vale più un fico secco: killer spietati (tra cui l'agghiacciante Chigurh, che dev'essere come minimo il marito della morte) lo braccano nel desertico e solitario sud-ovest degli States. Sarebbe immorale accennare anche vagamente al finale, per cui mi fermo qui, annunciandovi che nel libro troverete azione spasmodica, cadaveri a cataste, e un arsenale di armi da fuoco degno del miglior (o peggior) filmone-sparatoria di Hollywood.

Devo però dire che sono stato assalito dal dubbio che stavolta Cormac giochi sul tavolo dell'intrattenimento più che della gran letteratura. Questo romanzo smilzo e feroce pare  fondamentalmente una concessione ai gusti del pubblico tesa a far cassa: insomma, un libro prettamente commerciale.

Eppure... eppure il titolo suggerisce ben altro. Si tratta di una citazione di una celebre poesia di William Butler Yeats, “Navigando verso Bisanzio”, che descrive non la vera Bisanzio del tardo impero, ma un mito letterario: una città imperiale di sfarzo sontuoso, di civiltà giunta al culmine del proprio sviluppo, di bellezza del tutto artificiale e inarrivabile; luogo mitico, tra estasi decadentiste e mitologie al limite dell'esoterico. Cosa può aver trovato il selvaggio poeta della frontiera Cormac McCarthy in quella terra di splendori al cui confronto impallidiscono anche le esaltazioni antiquarie del nostro D'Annunzio?

Forse la parola magica è “impero”; specie se associata a “decadenza”. Riflettiamo su questo brano preso da Non è un paese per vecchi, una delle meditazioni dell'anziano sceriffo Bell che inframmezzano la carneficina: “La gente dice che è stato il Vietnam a mettere in ginocchio questo paese.  Ma io non ci ho mai creduto. Questo paese era già messo male. Il Vietnam è stato solo la ciliegina sulla torta.” E poco più avanti: “Non si può andare in guerra senza Dio. Io non so cosa succederà quando arriverà la prossima. Non lo so proprio.”

E la prossima, temiamo, è già arrivata. E sulla scia della decadenza umana, politica, sociale che dal Golfo I al Golfo II si sono impadronite dell'America, le riflessioni dello sceriffo Bell consentono a McCarthy di fare i conti con il presente sconsolato del suo paese, lui che ne aveva esplorato impietosamente il passato meno glorioso. L'America imperiale su cui Bell medita, e che la vicenda attraversa, è un paese dove i soldi sono tutto e la gente meno di niente; dove tutti sono armati, e dove uccidere è lo sport nazionale (anche nella versione legalizzata della pena di morte, sotto il cui segno nefasto s'apre il primo capitolo del romanzo); dove si fa la guerra alla droga, ma tutti o quasi tirano di coca o si sparano l'ero (quando non sopperiscono con le pasticche); dove le famiglie si sfasciano, e i figli si scaricano ai nonni, e quando saranno morti quelli non si sa più bene a chi.

Quadro a tinte fosche? Senz'altro. Un modo per dare l'allarme, forse: e per questo probabilmente McCarthy ha scelto la forma del thriller misto di western, nella speranza che arrivi anche ai lettori meno esigenti. Speriamo sortisca qualche effetto.

 

(Pulp Libri, n. 60, p. 29)

 

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