Edwin Mullhouse: Vita e morte di uno scrittore americano, di Steven Millhauser, Fanucci, euro 16,00, pp. 437, tr. Bernardo Draghi

 

Vi affascina il mondo dei bambini? Avete letto Tu, sanguinosa infanzia di Michele Mari e vi sono venuti i lucciconi? Avete goduto avventurandovi in Io non ho paura di Ammaniti? E allora questo romanzo non ve lo dovete proprio perdere, perché è il libro che vi mancava… almeno da quando è uscito negli Stati Uniti, nel 1972, e ha inutilmente atteso un editore italiano che non dormisse. Dopo trentatré anni finalmente ci pensa la Fanucci a proporre nella magistrale traduzione di Bernardo Draghi l’opera prima di Millhauser, facendola seguire all’ottima versione italiana del suo Martin Dressler.

Il libro gioca su un antichissimo “imbroglio” letterario: narrativa che si spaccia per biografia (papà Defoe lo già faceva ai primi del Settecento). Si presenta come vera vita di un bambino prodigio, per l’appunto Edwin Mullhouse (1943-1954), che all’età di dieci anni scrive il Grande Romanzo Americano, intitolato Cartoons. La biografia a sua volta è opera di un amichetto di Edwin, Jeffrey Cartwright, che poche ore dopo la tragica morte del precocissimo genio attacca a raccontarne la brevissima ma intensa esistenza, con un’eccezionale capacità di cogliere tutte quelle cose irrilevanti ma meravigliose che costituiscono l’infanzia di chiunque.

Il bello della finta biografia e “vero” romanzo è proprio questo: la capacità di Millhauser, anticipando Mari di parecchi anni, di ricostruire tutto il mondo di brevi passioni, microdrammi, paure, incomprensioni, sviste e folgorazioni che è la vita di un bambino. Raccontata con voce abnormemente adulta, con uno stile di un nitore e di una coloritura abbaglianti (quella di Millhauser è la vera prosa a colori, provare per credere), ma sempre con la visione e le prospettive di un bambino.

Edwin Mullhouse si può leggere anche come satira spietata del mito dell’enfant prodige, dello scrittore sensazionale perché giovane, esordiente, precoce. In tempi di Melisse P. va benissimo. Ma è pure un libro che restituisce all’arte della descrizione il posto che le spetta nell’universo narrativo: perché ogniqualvolta il biografo Jeffrey si lancia in una delle sue elencazioni dei giocattoli, dei fumetti, degli oggetti di cui è affollata l’infanzia, andargli dietro è un vero piacere. Infantile.

 

(Pulp Libri, n. 56, p. 42)

 

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