Vorrei cominciare questa recensione con una citazione
dai Monty Python: “e
adesso, qualcosa di completamente diverso”. Continuava ostinatamente a venirmi
in mente mentre leggevo questo romanzo (uscito negli Stati Uniti nel 1995 con
ampio successo di critica). Avvertenza! Powers, come
tutti gli scrittori veramente originali, è all’inizio sconcertante, al limite
del fastidio. Ha un modo tutto suo di raccontare e di periodare. Un
esempio, tratto dalle primissime pagine del libro: “U. era il luogo in cui
avevo scoperto per la prima volta come l’arte possa inglobare la politica e
come una sonata si organizzi in diversi strati, simile a una gerarchia vivente,
o come le parole vadano lentamente concatenandosi in una cadenza, nella
promessa di un’armonia”. Questo passo è rappresentativo della prosodia powersiana. Se vi repelle, non comprate questo libro; se
attrae, o almeno vi incuriosisce, è il caso di fare la prova.
Accennare la trama non è facilissimo: s’intrecciano
infatti nel libro due vicende il cui protagonista è l’autore stesso (chiamato
col proprio nome e cognome dagli altri personaggi), avvinte come le due catene
del DNA. La prima è la vita di Powers dai primi anni
’80 ai primi anni ’90, e la sua storia d’amore con una donna che, come in un
romanzo ottocentesco, viene indicata dalla sola iniziale C. La seconda, che si
svolge alla metà degli anni ’90, la scommessa faustiana di Philip Lentz, super-esperto di reti neurali, di riuscire a
costruire una simulazione d’intelligenza (più che una vera e propria
intelligenza artificiale) in grado di scrivere una tesina di argomento letterario
indistinguibile da quella scritta da una studentessa universitaria in carne ed
ossa. Powers il personaggio viene coinvolto per fare
da istitutore di Helen, la rete neurale: il suo compito folle, far conoscere la
letteratura a un’entità priva di corpo e dei cinque sensi.
Nel romanzo c’è molto altro: l’Olanda, paese in cui Powers ha vissuto a lungo, l’ambiente dei campus americani
e dei grandi centri di ricerca, l’amore esposto senza il minimo ritegno e senza
certi classici vittimismi maschili, il rapporto tra America ed Europa, la
poesia, i fanatismi teorici (dal posmoderno al
postcoloniale) delle università americane, più un proliferare di piccole e
grandi vicende “collaterali” che sono il sale di questa narrazione e, last but not least,
l’arte di narrare e la sua impotenza.
Il libro non è facilissimo, e richiede al lettore di
entrare nel mondo delle reti neurali e in un’architettura narrativa non meno
complessa delle reti di cui sopra (e va il nostro apprezzamento al lavoro di
Luca Briasco, che non s’è smarrito nella difficoltà
dell’argomento né nell’altrettanto elaborato periodare di Powers);
però va detto che a furia di leggere si prende pian piano confidenza e si
giunge verso la metà a scoprire sorpresi di saper nuotare in acque così
turbinose.
Powers, bisogna aggiungere, rischia di diventare anche da
noi un caso letterario, nel bene e nel male. Due suoi precedenti romanzi (Tre
contadini che vanno a ballare e Il dilemma del prigioniero) vennero
tradotti da Bollati Boringhieri una decina d’anni fa,
senza suscitare molto clamore. Ora è la collana Avantpop
di Fanucci a riprovarci, cominciando con questo
romanzo ambizioso e coraggioso (altri due usciranno nei prossimi anni); mentre
Mondadori ha in cantiere la traduzione dell’ultima opera di Powers,
The Time of Our Singing, che dall’altro
lato dell’oceano ha mietuto plausi e premi prestigiosi. E questa falsa
autobiografia (non a caso il narratore viene sarcasticamente chiamato “Marcel”
da Lentz, suggerendo che il Powers
del romanzo stia al Powers “in carne ed ossa” come il
Marcel della Recherche sta al
romanziere Proust “storico”) mi sembra, con la sua sconcertante disinvoltura
nel commentare e interpretare i quattro precedenti libri dell’autore, un’ottima
presentazione di uno scrittore del quale molto probabilmente sentiremo parlare
ancora e ancora.
(Pulp Libri, n. 44, p. 33 – la versione
pubblicata è stata accorciata)