L’incanto del lotto 49, di Thomas Pynchon, Einaudi, trad. Massimo Bocchiola

Onestamente, non posso dire che questo romanzo breve (o racconto lungo) di Pynchon sia una novità. A differenza di altre opere dello scrittore statunitense, l’Incanto venne tradotto già nel 1968 (anno fatidico!), solo tre anni dopo la pubblicazione in America, per Bompiani; in seguito fu riedito nel 1988 da Mondadori e nel 1996 da E/O.

Eppure una novità c’è, ed è la traduzione; perché Stile Libero, dopo aver messo le mani su questo piccolo capolavoro della narrativa americana, ha avuto l’ottima idea di farlo ritradurre a un bravo professionista, Massimo Bocchiola, che mi pare essere andato molto oltre la versione di Liana Burgess che è passata di editore in editore dal ’68 in poi. E va resa lode a Bocchiola per essersi avvicinato notevolmente alla magnificenza verbale dell’originale, a una prosa a momenti di una complessità proustiana, a momenti di una semplicità plebea e sghignazzante, in entrambi i casi maledettamente difficile da rendere.

È però un peccato, e diciamocelo subito, che questa bella prova di traduzione (nella quale Bocchiola rende anche le canzoni che costellano il romanzo, con tutte le rime e la metrica del caso) sia macchiata da una serie di ben 25 refusi e sviste, colpa evidentemente più della redazione di Stile Libero che del traduttore. Mi chiedo: se si crede a questo classico (post)moderno al punto di soffiarlo a un altro editore, non si dovrebbe anche avere la decenza di curarlo seriamente? La risposta agli addetti ai lavori.

Nuova traduzione a parte, un buon motivo per acquistare questo volumetto (se Pynchon l’avete solo sentito nominare, ma non avete il coraggio di affrontare le sue opere più impervie e voluminose, come L’arcobaleno della gravità o Mason & Dixon) è che in meno di duecento paginette stampate larghe avete un assaggio dello stile, della tecnica e del mondo immaginativo del più grande narratore americano insieme a Don DeLillo. Avrei quasi voglia di usare il termine capolavoro, ma mi astengo.

La storia è ambientata in quella California degli anni ’60 che di lì a poco diverrà la terra d’elezione della rivoluzione sessuale, politica, culturale, esistenziale nota come Summer of love (negli Stati Uniti) e Sessantotto (da noi). La protagonista è una donna, dall’improbabile nome di Oedipa Maas, ventottenne e avvenente casalinga provvista di laurea in letteratura a Cornell (dove, guarda caso, Pynchon aveva seguito i corsi di Nabokov), che si trova inaspettatamente incaricata di fungere da esecutrice testamentaria di un miliardario dall’inverosimile nome di Pierce Inverarity, suo ex-amante.

Il problema, come scopre ben presto Oedipa, è che le proprietà di Inverarity sono alquanto difficili da inventariare: che il riccone aveva le mani in pasta nei più diversi affari, e soprattutto, tramite l’azienda aerospaziale Yoyodyne, negli appalti della difesa. E invischiata nella questione dell’eredità c’è una misteriosa organizzazione segreta, denominata Tristero, che gestisce il WASTE, un sistema postale alternativo a quello statale – e del tutto clandestino. Questo porta Oedipa a una complicata indagine che la conduce tra personaggi strambi di ogni sorta, e infine tra i reietti del sogno americano.

Insomma Pynchon, scrittore ignorato in Italia e considerato spesso un bizzarro e ridanciano burlone letterario, in questa sua novelette tratta di complotti, di controcultura (che questo c’è alle spalle del Tristero, fuor di metafora), di quel complesso militare-industriale che allora campava di Vietnam e oggi s’ingrassa con l’Iraq, dell’impero americano, di sesso droghe e rock and roll, di cinema e radio e televisione, insomma di tutto quel mondo postmoderno che da allora in poi è stato il nostro mondo. Lo fa con una profondità che a volta ti spinge a rileggere la pagina che hai appena attraversato, e con un humor che spesso ti fa scoppiare a ridere; ma anche con una partecipazione e un’intensità che spesso ti fa avvertire, come accade negli scritti dei grandissimi, la tragicità intrinseca della nostra vita menzognera.

 

(Pulp Libri, n. 59, p. 30; sembra che dopo la pubblicazione della recensione i refusi siano stati corretti)

 

Torna alle recensioni…