Dimmi, di Mary Robison, minimum fax, tr. Mario Fillioley

La collana minimum classics questa volta porta a casa un bel risultato, per dirla in termini calcistici. Fa uscire un volume precedentemente inedito in Italia (e non si limita a una ripubblicazione, per quanto azzeccata): trattasi di 30 racconti che Mary Robison ha scritto nell’arco di trent’anni, uscita oltreoceano solo due anni fa. Così facendo, la casa editrice romana compie anche un vero e proprio atto di giustizia letteraria.

La Robison infatti è una voce del minimalismo che da noi non non avevamo ancora sentito. Poter leggere i racconti di questa raccolta uno dopo l’altro porta inevitabilmente alla stupefatta di considerazione che accanto a Carver, e ben al di sopra di David Leavitt (che a rileggerlo dopo aver provato la Robison si rivela proprio quello scrittore di best-seller sofisticati che altro non è), c’è sempre stata un’autrice dalla voce originale, stilisticamente elegantissima, letterariamente geniale, e di una sensibilità che lascia stupefatti. Una narratrice che sa raccontare in poche pagine storie incredibilmente complesse per sottrazione, togliendo e togliendo fino a lasciare cristalli narrativi asimmetrici, enigmatici, ma che emanano una luminosità a tratti abbacinante.

Porto a esempio gemme come “Padre, nonno”, “Sorelle”, “Ghiaccio carino”, “Ho ventun anni”, “Preoccupazioni”. Sono scene di vita quotidiana, domestica, familiare. Scene che in un romanzo o in un racconto normale si taglierebbero. Ma qui vengono disinvoltamente messe in primo piano, e lasciano intuire ai margini, negli interstizi, sullo sfondo, tutto un nodo di vite (spesso piuttosto bizzarre). Il risultato è a dir poco stupefacente; e se ho voluto segnalare quei racconti tra gli altri, devo aggiungere che i restanti sono comunque da applauso.

L’America che ne esce fuori è più vera del vero (come ci si può aspettare dal realismo sghembo di una minimalista che si rispetti), ma al tempo stesso più complessa di quel che si potrebbe pensare. La Robison spazia da una costa all’altra, e insiste in particolar modo su quelle città e quegli stati dei quali si parla poco (dal Minnesota alla West Virginia), ma che poi, ahinoi, ti eleggono Bush per la seconda volta. E se leggete “A Jewel”, il racconto che a me è piaciuto di più, magari cominciate anche a capire come mai in quella provincia immensa votano come votano.

Concludo con i doverosi complimenti al traduttore, Mario Fillioley, che se l’è cavata benissimo a rendere una prosa di una precisione millimetrica. Tanto di cappello.

 

[Questa recensione venne scritta per Pulp Libri, ma venne poi trasformata in una articolo pubblicato sulla stessa rivista]

 

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