L’adolescenza non è un gran
ché, e non capisco chi la rimpiange. Va bene rimpiangere infanzia o giovinezza;
ma quell’età di transizione è veramente un disastro, a qualsiasi latitudine. Se
poi ti capita di abitare a East Village, un paesetto sperduto nella vastità del
Canada, come alla protagonista di questo romanzo (il primo della Toews a uscire
in Italia), può essere che la tua adolescenza faccia anche più schifo di quella
media.
Ma per colmo di sfortuna
alla sedicenne Nomi Nickel è toccato vivere in una comunità di mennoniti, una
chiesa protestante fondamentalista non tanto diversa dagli Amish della
Pennsylvania (quelli di Witness, per intenderci, che in pieno XXI secolo
ancora girano coi carri tirati dai cavalli). I mennoniti hanno automobili e
televisori, ma non si truccano, non ballano, non vanno al cinema, non bevono,
non leggono i libri di Darwin né quelli di Philip Roth, in una parola non si
divertono. Sono una comunità maniaco-depressiva che pare uscita dalle pagine
del Philip K. Dick di Follia per sette clan. Ma non sono una creazione
fantascientifica: risiedono veramente in un borgo selvaggio dove i treni non
fermano (non sia mai che qualche giovane insofferente ne potesse approfittare
per tagliare la corda), e dove i turbamenti dell’adolescenza diventano ancor
più sconquassanti che nel mondo apparentemente felice del tardocapitalismo
massmediale.
In quest’ultimo mondo
vorrebbe andare a vivere Nomi, ma non ha il coraggio. Sua sorella maggiore
Tash, invece, quel coraggio ce l’ha, e se ne va col ragazzo. Poi sparisce anche
sua madre, l’eccentrica Trudi. Nomi resta sola col padre Ray, mite ma
maniaco-depressivo sul serio (vedi il suo amore per le discariche di rifiuti);
non le resta altro che fare i conti, per iscritto, con la complicata vicenda
della sua famiglia e con la difficile scelta che l’aspetta e che lei
continuamente elude. Come dicevano i Clash: Should I stay or should I go?
Il romanzo coglie molto
bene sia il tormento adolescenziale di Nomi sia l’atmosfera soffocante di East
Village. Peccato sia decisamente troppo lungo: tolte una settantina di pagine
sarebbe stato perfetto. Perfetta è invece la traduzione di Monica Pareschi, ma
ormai la conosciamo e sappiamo che non ci si poteva aspettare di meno.
(Pulp Libri, n. 57, p. 49)