Disturbi di personalità, personalità narcisistica, personalità istrionica, personalità border-line: rapporti con l’invidia.  

 

 

            Il comportamento socialmente ineccepibile di chi, qualificandosi paziente, chiede un rapporto psicoterapico, sfida la capacità di comprensione di chi, qualificato terapeuta, non può fare uso dei cinque sensi per cogliere il difetto segreto, il vizio nascosto, mascherato dal carattere.

            Come si può distinguere il carattere cosiddetto “normale” dalla corazza caratteriale, dalla personalità “come se”, dal disturbo franco di personalità ?

            La diagnosi, attività nobile dell’arte medica non ci soccorre con le note semeiotiche desunte dall’esercizio di osservazione, ispezione, palpazione, auscultazione.

            Lo sappiamo: la diagnosi si può formulare solamente se la malattia da diagnosticare si conosce già prima, e in ogni caso fa riferimento ad un quadro generale che in questo specifico caso non permette di isolare malattie nettamente definite. Non ci aiuta consultare il DSM III, approccio del tutto ateoretico per ciò che concerne l’etiologia, e inutilmente descrittivo visto che la definizione dei disturbi consiste nella  descrizione delle caratteristiche cliniche.

            Ci troviamo nella condizione di chi può proficuamente utilizzare una carta geografica solamente se già conosce il luogo. Ci dice il DSM III che il disturbo border-line, l’istrionico, il narcisista, l’antisociale, hanno caratteristiche comuni: ipersensibilità al giudizio degli altri, impulsività, imprevedibilità, instabilità emotiva, scatti di rabbia, stati depressivi, gesti suicidari di tipo manipolatorio, brevi episodi psicotici, rapporti vissuti come minacciosi e a scopo manipolativo, assenza di coscienza di malattia, insorgenza in età adulta.

            Le caratteristiche di questo approccio sono evidenti, si tratta di una comprensibilità basata esclusivamente su un’osservazione che non ci dà alcuna informazione sulla cosiddetta normale personalità e sulle modalità di passaggio nel patologico.

            Una impostazione diagnostica di tipo descrittivo, incentrata sui sintomi e sul comportamento osservabile, o una di tipo genetico che evidenzia i disturbi mentali presenti nella famiglia, metodologie adottate separatamente o in combinazione, non sono assolutamente utili per qualunque ricerca. Nemmeno riferirsi ad una diagnosi strutturale, ossia alla considerazione dei rapporto tra le istanze psichiche, ci permette di procedere ulteriormente. E’ indispensabile per delimitare il patologico trovare il normale, non per norma, ma per osservazione del reale. Incontriamo il “temperamento” che ci fa da piattaforma di base per discutere ulteriormente. Questo termine risale all’ippocratismo antico e medioevale presso cui indicava la “tempèries” individuale degli umori, cioè la proporzione dei quattro umori: atra bile o melanconia, sangue, flemma o pituita o linfa, bile flava. Ne derivano i quattro normali temperamenti o tipi: melanconici, sanguigni, flemmatici o linfatici, biliosi.

            Kretschmer definisce temperamento quegli aspetti psicologici del carattere più legati al fondo fisiogeno. Naturalmente nel carattere oltre al fondo fisiogeno si esprime anche l’infinita gamma delle esperienze psicogene di vita vissuta. La gamma delle possibili varietà caratteriali è assai più ampia delle possibili varietà temperamentali, intese queste ultime, come varianti dinamiche neuro-umorali e come manifestazioni psichiche di esse.

            Ciò che noi esploriamo direttamente è generalmente l’aspetto psichico del carattere, più che la sua base fisiologica e psicopatologica; la maggior parte delle volte soltanto la risultante psichica delle interferenze fisiogeno-psicogene.

            Ci riferiamo dunque alla totalità psico-fisica dell’individuo di cui il carattere costituisce il versante istintivo affettivo.

            All’opposto accade per altre modalità interpretative, ed in effetti laddove la comprensione per osservazione della realtà umana si ferma, compare l’interpretazione; così il carattere diviene sinonimo di personalità e lo si fa consistere della somma del comportamento osservabile obiettivamente e dell’esperienza interna riferibile soggettivamente.

            Esso comprende i modelli di risposta comportamentale caratteristici che ogni persona sviluppa come proprio stile di vita o modo di essere nell’adattamento al suo ambiente, o nel  mantenimento di un rapporto reciproco stabile con l’ambiente umano o non umano.

            La personalità, dunque, rappresenta un compromesso tra pulsioni e bisogni interni ed i controlli che limitano o regolano la loro espressione.

            Tali controlli sono sia interni (coscienza morale, super-io) che esterni (richiesta di realtà).

            La personalità quindi funziona per mantenere un rapporto tra la persona ed il suo ambiente: ne risulta un composto delle difese dell’io, delle manovre autoplastiche ed allo plastiche impiegate automaticamente ed abitualmente per mantenere la stabilità intrapsichica.

            Ovvia la differenza tra le considerazioni basate sulla osservazione della realtà psico-fisica dell’individuo e quelle riferite ad una modalità di essere che è già patologica.

            Nel primo caso viene dato per scontato ciò che non lo è quasi mai purtroppo, ossia la presenza di un Io interno in grado, sulla base di un fondo fisiogeno più o meno immutabile nel tempo, di elaborare psichicamente gli avvenimenti esistenziali.

            Si considera sottinteso, perché esistente per la nascita, quell’Io, non tavolette di cera, che è in grado di fare la storia e quindi diviene carattere come stile di vita nell’unicità dell’essere.

            Nel secondo caso abbiamo già a che fare con quella che viene comunemente definita “corazza caratteriale”, ossia una struttura; ecco tornare a proposito il concetto di diagnosi strutturale, che non serve a mettersi in rapporto con la realtà ma a difendersene.

            Riferiamoci al quesito inizialmente formulato: chi è realmente colui che per il solo fatto di chiedere una psicoterapia si qualifica come paziente ?

            Chiede un rapporto interno che lo metta in grado di sviluppare la sua creatività, è l’uomo del desiderio, del confronto, l’uomo dello stile personale che intende approfondire ulteriormente la ricerca personale sull’esistenza, oppure è il caratteriale, l’uomo dell’odio nascosto dai tratti di carattere che gli servono da rigida corazza contro le stimolazioni del mondo esterno e contro i suoi stessi impulsi libidici ?

            In questo secondo  caso lo splitting, principale meccanismo di difesa, gli ha permesso di trasformare l’odio in invidia.

            Non vive dunque nel corpo il tormento di un sentimento che lo spingerebbe a distruggere, ma si fa vanto di una normalità che è solamente acculturazione istituzionale.

            I nostri due pazienti sono apparentemente simili nella mancanza di una sintomatologia, ma profondamente diversi nella realtà psichica nascosta.

            Continuando nel nostro ragionare: quali sono gli strumenti metodologici a disposizione di chi è qualificato terapeuta per cogliere la pulsione nascosta, visto che l’uso dei cinque sensi non fornisce informazioni sulla verità dell’uomo ?

            Come già detto, la semplice osservazione non ci aiuta. Nemmeno il concetto di comprensibilità, che contiene la possibilità di ricostruire una serie di fenomeni psichici secondo una sequenza in cui appare psicologicamente comprensibile la derivazione dell’uno dall’altro non nel senso causale del perché ma nel senso modale del come, ci aiuta molto.

            Costituisce tuttavia un di più rispetto alla piatta osservazione.

            Questo concetto diltheyano, ripreso poi da Jasper, contrappone all’Erklaren, cioè allo spiegare confacente ai metodi delle Naturwissenschaften (scienze della natura), il comprendere inerente ai metodi delle Geisteswissenschaften (scienze dello spirito), ci serve perché solo il comprendere toglie quel fatto psichico primario che è l’Erlebnis, il vissuto. L’atto del comprendere è reso possibile da una intuizione partecipe empatica. Sono queste teorizzazioni seducenti, che ci rendono il senso della differenza tra natura umana e non umano; ci dicono esplicitamente che l’uomo non può essere considerato frutto di una somma di impulsi elettrici, di diagrammi, o di forze delle quali scoprire le modalità di combinazione e di evoluzione.

            Tuttavia sulla pulsione inconscia, su ciò che non è conoscibile per definizione con un atto della coscienza, non ci informa.

            L’unica metodologia fruibile fa riferimento al pensare dialettico.

            Significa cogliere i sentimenti nella loro connessione, nella loro relazione, nella loro azione reciproca, nella loro nascita, sviluppo e declino.

            Si tratta di individuare le linee di frattura, l’inizio e lo sviluppo della contraddizione, seguendo la maturazione di queste fino all’esplodere conclusivo.

Non ci riferiamo dunque alla dialettica freudiana, chiaramente derivata dalla teoresi hegeliana per la quale un no del no diventa si (negazione razionale della negazione inconscia), con risultati disastrosi per la vita psichica.

            Ci riferiamo invece alla dialettica inconscia delle pulsioni, per cui al desiderio risponde l’investimento affettivo e alla pulsione invidiosa risponde l’investimento frustrante.

            Perché questa circolarità dialettica possa svilupparsi è necessario partire dall’analisi di quella prima fantasia che per secoli ha permesso di teorizzare che la realtà dell’uomo è il pensiero razionale; è la fantasia di sparizione che annulla la dialettica inconscia e lascia come unico strumento conoscitivo la dialettica del pensiero.

            La dialettica inconscia, avviata dall’analisi della fantasia di sparizione, permette il superamento della dialettica delle idee prodotta da interpretazioni tendenti a ricostruire i nessi logici di un pensiero che rimane astratto.

            Il caratteriale, privo di sintomatologia clinica, è da sempre maestro nella gestione di un pensiero che, al di là dei momenti di crisi, non mostra smagliature o lacune logiche.

            Per assurdo possiamo dire che ha risolto l’enigma della sfinge, visto che le trasformazioni fisiche gli sono familiari, là dove ignora perfettamente il valore conoscitivo delle separazioni estreme (morte e vita) che sole fanno cambiamenti radicali. Concepisce quindi l’esistenza come una sequenza ininterrotta di cambiamenti fisici all’ombra della buona fede razionale che gli fa credere nell’immutabilità del carattere. I suoi disturbi, cosiddetti, sono egosintonici, quindi non ha la coscienza di malattia; d’altra parte ha realizzato appieno la scissione tra affetti del corpo e contenuti della mente, per cui riesce ad essere socialmente bene integrato. Usa perfettamente il carattere per tenere a freno gli impulsi ed adeguarli alle esigenze del reale.

            Non ha percezioni deliranti, non sviluppa deliri perché l’identificazione introiettiva e proiettiva non gli appartiene. L’esercizio continuo gli permette di evitare situazioni pericolose nelle quali gli stimoli della realtà possono perforare la corazza e liberare il vizio segreto, il difetto nascosto, che lo rendono reietto al genere umano.

            Il desiderio che fa l’umano, lo fa star male, lo dissocia nella lucida razionalità, quindi si degrada immediatamente in invidia.

            Non può essere diversamente perché la sofferenza segreta è rappresentata dal pensiero di non poter mai essere come gli altri, godere appieno le gioie, sperare come gli altri.

            Possiede ancora un bambino interno non completamente cieco, ma che ha realizzato la frattura tra impulsi orali e pulsioni visivouditive. E’ capace di fare l’esame di realtà, ossia riesce a differenziare il sé dal non sé, le origini intrapsichiche delle percezioni dalle stimolazioni del mondo esterno; non ha dunque sintomi grossolani, ma manifesta una passività profonda di fronte agli oggetti, una mancanza di autenticità e di calore affettivo. In queste condizioni lo spazio psichico interno non appare disgregato dalle fantasticherie masturbatorie, ma è pregno di una pulsione la cui rappresentazione mentale lo spinge a mettere continuamente la morte laddove intuisce la vita.

            L’oralità vissuta precocemente come introiezione di oggetti neri, fecali, in continua spinta all’espulsione e quindi privazione del sé libidico affettivo.

            In queste condizioni il nostro paziente ideale ha sufficiente energia interna per comprendere il bello, il buono, il valido; non ne ha a sufficienza per introiettarlo.           

            Intuisce la validità ma non possiede il movimento così concreto del desiderio che lo spinge come molla all’introiezione.

            Quindi realizza un altro movimento che è quello della pulsione invidiosa che mette la morte dove è la vita, nel senso di cambiare con fantasticheria di odio una realtà psichica umana valida.

            Il rapporto analitico rappresenta un momento che il caratteriale vive come pericoloso, ci arriva di solito perché in crisi, per ansia o depressione, sperando che qualcuno lo aiuti a ripristinare la condizione psichica preesistente alla crisi, spera che la sua problematica venga ricondotta a conflitti intersistemici o intrasistemici, spera cioè in un rafforzamento del carattere, in un ripristino del blocco preesistente.

            La risposta terapeutica può essere una sola, cioè l’analisi di un non posso andare avanti, vissuto come impossibilità di cambiamento che è frutto dell’uso specializzato della fantasia di sparizione.

            Solo se il soggetto accetta di riprendere il sé affettivo, anche se invidioso, supererà il vuoto interno che sostanzia l’immutabilità del carattere.

 

  Testi e Pubblicazioni

 

 

    Relazione presentata al XXIV° Congresso Nazionale della Società Italiana di Psicoterapia Medica svoltosi a Lecce, nell' Ottobre 1990