SCUOLA: IL TABU’ DEI PRIVATIZZATORI

di Giorgio Vittadini*

Estratto da "Il Giorno" del 29-10-1999

 

La manifestazione pubblica di sabato 30 ottobre a Roma, voluta da Giovanni Paolo II° a conclusione dell’assemblea nazionale della Conferenza episcopale italiana sulla scuola cattolica, per promuovere una riflessione sul futuro del sistema educativo italiano, è una magnifica occasione per fare chiarezza sulla più ampia questione della libertà di educazione. Dove è in gioco non solo la libertà di pensiero, che tanti continuano a confondere con la possibilità di dire ciò che si vuole, ma soprattutto la libertà di poter costruire. Per la famiglia è infatti la libertà di poter scegliere quali adulti, quali valori e quali esperienze scolastiche dovranno accompagnare i propri figli nel difficile ed entusiasmante cammino verso la piena consapevolezza di se’. "Mandateci in giro nudi, ma non toglieteci la libertà di educare", ha sempre affermato don Luigi Giussani.
Ciò avviene in tutti i Paesi occidentali, nelle cosiddette democrazie compiute. Ma anche in quelle nazioni, come la Bulgaria, la Repubblica Ceca o l’Ucraina, dove il processo di democratizzazione è stato appena avviato, però ha subito fissato tra i diritti fondamentali dei cittadini quello della libertà di scelta in campo scolastico. Non in astratto, ma con strumenti concreti, dal finanziamento diretto degli istituti non statali alla concessione del credito d’imposta per chi manda i figli in queste scuole. Perché tutte le scuole devono essere aperte a tutti, senza discriminazioni dovute alle possibilità economiche.
La "persistente anomalia" di uno Stato - l’Italia - che ha privatizzato come pochi altri in Europa ma intende continuare a mantenere un’egemonia e un controllo assoluti sulla cultura e sull’educazione, è stata sottolineata di recente dal Santo Padre, proprio con riferimento agli esempi che provengono da altri Paesi. E gli ultimi passi compiuti dal governo italiano su tale questione - dalla parità scolastica al riordino dei cicli - non possono che confermare il rischio di una deriva e di uno scadimento dell’intero sistema dell’istruzione primaria e secondaria.
In particolare, la legge sulla parità scolastica, che dovrà essere approvata definitivamente dalla Camera, riconosce l’importante principio della funzione pubblica svolta dalla scuola non statale. Questo è un punto di non ritorno, una piattaforma giuridica dalla quale spiccare finalmente il salto che superi la contrapposizione ideologica, sterile e anacronistica, tra scuola "pubblica" e "privata".
Ma non basta. La concessione di assegni di mantenimento alle famiglie meno abbienti, prevista dalla legge, non è altro che una forma di diritto allo studio, peraltro già riconosciuta dalle leggi regionali. Non ci può essere autentica libertà di educazione se non viene data alla famiglia la possibilità di sostenere economicamente questa opzione. Altrimenti si sancisce il paradosso, davvero sorprendente per un governo di sinistra, che i "figli del popolo" possano frequentare soltanto la scuola statale, mentre i "figli dei ricchi" abbiano il privilegio di andare alla scuola non statale. Ovvero, che si riconosca un diritto solamente a chi se lo può pagare. Ma questo non è liberismo allo stato puro?
In sede di discussione della legge, il governo e il parlamento dovranno quindi tener conto dei modelli proposti da alcune regioni, come la formula del "buono scuola" varata dalla Regione Lombardia o lo stanziamento diretto di fondi alle scuole non statali promosso dalla Provincia autonoma di Trento e dalla Regione Friuli-Venezia Giulia.
Dovranno in fondo riconoscere che c’è un popolo che progetta e realizza opere libere non solo in campo economico o assistenziale, ma anche per la scuola e l’educazione. Che c’è un popolo che grida e si muove non per difendere la sua "parrocchia", ma per affermare consapevolmente la dignità e l’intelligenza dell’uomo e la passione per il suo destino. E’ per questa ragione che andremo a Roma: a chiedere libertà per tutti.

(*) Presidente della Compagnia delle Opere

 

 

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