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Archivio Messori

 

Catechesi Online comincia un ambizioso progetto: la trascrizione su internet degli articoli dello scrittore Vittorio Messori.

  1. Il dramma in tre atti che ha sconvolto il mondo
  2. Il Vangelo colorato
  3. Intervista a VM
  4. "Troppa burocrazia, nella Chiesa torni la fede"
  5. CARNEVALE La follia non abita più qui
  6. Intervista a Vittorio Messori «MA IO, CATTOLICO, CAPISCO I SERBI»
  7. DISCUSSIONE. Chiesa, Stato e fecondazione. Messori: prima la fede poi la morale
    Lo scrittore cattolico interviene sulle tesi di Vattimo e don Zega
  8. Messori sul film Jesus: «Poco sacro e molto clintoniano»
  9. Missionari in casa nostra, questa è la vera novità
  10. Immorale la lotteria? Giocava perfino Don Bosco
  11. La fiducia nel Mistero per l’uomo di ogni tempo – Intervista
  12. Ridare speranza è la più urgente delle "azioni umanitarie"
  13. "Ma San Francesco avrebbe pianto solo i morti."
  14. Un grande pericolo




 



 

 

 

 

Il dramma in tre atti che ha sconvolto il mondo
Messori

Lerner è consapevole, naturalmente, di gettare sul tavolo questioni che spalancano abissi. Come impostare uno schema di risposta, quando non sono concessi che “cinquemila caratteri, spazi inclusi”, secondo il conteggio di Word? Ecco, comunque, qualche appunto telegrafico, per far almeno intravedere il punto di vista degli “adoratori del patibolo” (così, tra orrore e disprezzo, i musulmani, per i quali niente è più blasfemo di un Dio che ha un Figlio; e un Figlio che finisce in quel modo). I cristiani sono tali perché hanno dato retta a un gruppo di ebrei, stando ai quali un predicatore ambulante aveva sollevato delle speranze messianiche. Tutto sembrava finito nella maniera peggiore, su quella croce che i romani riservavano agli schiavi e che suscitava in Israele uno sgomento religioso: «Maledetto colui che è appeso al legno», Deuteronomio. Stando comunque a quegli ebrei, un paio di notti dopo il seppellimento, mentre se ne stavano nascosti in attesa di tornare, furtivi e delusi, alle loro case, era stato trovato vuoto il sepolcro del crocifisso. Questi, anzi, era riapparso, per quaranta giorni aveva mangiato in loro compagnia ed era poi stato «elevato al Cielo sotto i loro occhi». Così la storia che quegli ebrei annunciarono prima ai confratelli nella diaspora (e molti si convinsero, allora e dopo: verso il 250, Origene valuta in 150.000 i soli israeliti di conversione recente) e poi ai pagani, con il risultato che conosciamo.
Cuore e base della nuova fede era un dramma in tre atti – passione, morte, risurrezione – assolutamente inatteso per la prospettiva ebraica. L’ultima cosa che un israelita, di ogni scuola, si aspettava dal Messia è che finisse su una croce e poi risorgesse: rifiutando, per giunta, di apparire in gloria a coloro che gli avevano inflitto una morte vergognosa e limitandosi a dare prove del suo trionfo sulla morte ai suoi pochi e pavidi seguaci. I Vangeli ci riportano la rivolta di quei discepoli – e la dura replica del Maestro – ad ogni accenno non solo di una fine, ma di una fine tragica. Il maggior motivo di credibilità dei racconti di resurrezione sta proprio in questo: soltanto uno sconvolgente prodigio divino poteva tirar fuori quei pii circoncisi dalla disperata delusione in cui li aveva immersi la vista del patibolo. Per il fariseo Saulo-Paolo, la croce su cui finisce il Figlio di Dio è «scandalo e follia» per tutti, ma soprattutto per chi, come gli ebrei, attendeva un Unto di Jahvè vincitore, un trionfatore al contempo religioso e politico. Soltanto davanti all’evidenza ci si dovette rassegnare al fatto che Egli stesso aveva voluto che andasse così.
Quella giudeo-cristiana non a caso definisce se stessa come una “rivelazione”: non gli uomini, ma Dio stesso ne ha stabilito il copione. Al centro di esso sta un patibolo che nessun ebreo avrebbe mai immaginato né tanto meno auspicato e che è stato duro accettare. Lo sarà anche per i non ebrei: il graffito del Palatino mostra un cristiano inginocchiato davanti a un asino crocifisso. La croce di Ercolano era coperta da uno sportello, probabilmente per stornare i sarcasmi. Per sottrarsi a questi, ma anche alle persecuzioni, si alludeva al simbolo cristiano con aratri, timoni, alberi di nave. Ma, non appena fu possibile, prese il suo posto in pubblico quella croce che addirittura da prima del 79 (distruzione di Pompei, dove il «Quadrato magico» ne è un richiamo nascosto ma preciso) era l’emblema cristiano.
Per la rivelazione vale il prendere o lasciare: a tutti piacerebbe qualcosa di, come dire?, più “simpatico” che un segno che ricorda un simile patibolo. E c’è da capire il giovane Carducci con l’invettiva a Gesù: «Ma passione e morte sono il preambolo, ciò che conta è il lieto fine, la risurrezione». La Chiesa ne è talmente consapevole che la Pasqua è il cardine dell’anno liturgico, ogni domenica non ne è che una rievocazione. E il suo cuore è l’eucaristia, vera carne e vero sangue del crocifisso sì, ma risorto. La devozione popolare? Il suo esercizio più diffuso, quello che da secoli nutre i credenti, è il rosario: 5 misteri dolorosi ma 10 tra gaudiosi e gloriosi. La cristianità conosceva la penitenza ma anche la festa; il digiuno ma anche la baldoria. La croce non è affatto, nella prospettiva cristiana, il segno di un “dolorismo”: ogni credente sa che quell’uomo tormentato poco dopo sarà glorificato. Ma sa anche che solo un Dio che ha preso su di sé un tale cumulo di dolori non è toccato dalla bestemmia dell’uomo sofferente verso Chi, creato il mondo, se ne sta impassibile sulle sue nuvole, permettendo quel male da cui Egli non è toccato.

 

IL VANGELO COLORATO 

 

 

Per un laico, è sin troppo facile distrarsi dalle preoccupazioni per vertici e tute bianco-nere, divertendosi con l’imprevista pochade dell’arcivescovo nero che, ormai settuagenario, sveste talare, fascia rossa, croce dorata, per indossare un frac e così impalmare una formosa odontotecnica coreana, sceltagli da un santone tra i più pittoreschi. Divertente, certo, per un laico. Né si saprebbe come dargli torto. Si può, invece, cercare di sapere quali siano i pensieri di un credente, di un cattolico, davanti a questa vicenda. Non c’è soltanto, qui, la tristezza per un sacerdote – anzi, per un membro della Gerarchia – che sceglie una strada di rottura con la Chiesa. C’è ben di più : il rammarico, cioè, per una possibilità fallita, per una speranza brutalmente delusa.

Parlo per diretta esperienza: fui a tavola con Emmanuel Milingo, in un incontro ristretto che durò ore; lo osservai mentre, in una basilica strapiena, celebrava una delle sue sconvolgenti liturgie di guarigione; mi accadde persino di difendere in pubblico il suo diritto di cittadinanza nella Chiesa contro i “professori”, i teologi professionisti.

Perché proprio qui è il punto: questo presule giunto dall’Africa Nera sembrava confermare che il futuro del cristianesimo nel Terzo Mondo non è per niente affidato alla vulgata clerico-marxista, esportata tra i poveri – con un atto di colonialismo culturale – da teologi europei e nordamericani, eccitati da anacronistiche ideologie occidentali. Le teologie della liberazione (tuttora attive, malgrado la fine miseranda delle illusioni comuniste) sembrano parlare in spagnolo, in portoghese, in swahili ma vengono in realtà da testi accademici elaborati nelle facoltà tedesche, francesi e, non di rado, romane. Per chi voglia vedere, il risultato è tanto chiaro quanto drammatico: c’è una ragione prioritaria se oggi l’America Latina si avvia a diventare un continente ex-cattolico, se in Africa Islam e sètte cristiane sgretolano il lavoro di generazioni di missionari eroici. E la ragione è proprio questa: a popoli affamati di “religione”, di sacro, di trascendenza, di miracoli, di santi, di presenza materna mariana, di penitenza e di festa, ecco che dei preti trasformati in agitatori politici, in leader sindacali, hanno imposto i comizi di un vangelo trasformato in un manuale dell’impegno socio-economico. Così, proprio quel “popolo” che si voleva conquistare si è congedato dalla Chiesa ed è andato a cercare altrove ciò di cui aveva bisogno. Passando magari, per reazione, da un estremo all’altro: le sètte che arruolano più seguaci sono quelle apocalittiche, quelle per le quali l’impegno politico nel mondo non è solo inutile ma sacrilego.

Ebbene: l’arcivescovo emerito di Lusaka sembrava realizzare un’altra strada, quella di una “inculturazione” rispettosa della storia e della psicologia delle masse terzomondiali (e non di quelle soltanto, se si guarda al seguito di cui godeva tra la gente anche in Occidente). La strada di Milingo pareva quella della ricerca di una religiosità popolare che desse spazio alla fisicità della fede, alla gioia che suscita, ai carismi, al bisogno di esternare il sentimento religioso. Anche con quel canto, con quella danza, con quella gestualità, con quell’annuncio gridato che la fede non salva solo l’anima ma anche il corpo, che il nero arcivescovo non esitava a praticare in prima persona. Strada ortodossa, quella milinghiana. Tanto da suscitare, anche per questo, la reazione di certi teologi, per i quali il peccato imperdonabile è essere “troppo cattolici”: e, dunque, credere ancora in cose “indegne di una fede adulta” come miracoli, diavoli, angeli, paradisi, inferni.

I risultati non sono mancati: in molti luoghi, alle chiese semivuote perché trasformate in disadorne sale da dibattito, con una liturgia legnosa e una fede tutta orizzontale, dedita al confronto sull’ultimo telegiornale, facevano contrasto – in Africa ma anche da noi – folle talmente vaste ed entusiaste da richiedere spesso l’intervento della forza pubblica. Quasi un insperato ritorno al Medio Evo (e questo, per noi, è un complimento tra i maggiori), con quelle sue piazze strapiene, attorno a qualche frate carismatico. Alla san Bernardino da Siena, per intenderci.

E invece, un giorno, una notizia d’agenzia ci ha colti di sorpresa: questa strada cattolica – così moderna proprio perché così antica – era stata abbandonata da monsignor Emmanuel Milingo. Ci sono in questa vicenda aspetti enigmatici; c’è qualcosa di misterioso, che sembra sfuggire alle categorie solo umane, nella decisione dell’arcivescovo africano. Può darsi che una qualche pezza per coprire alla meglio lo strappo sia trovata. Ma è inutile illudersi: comunque vada, la sua avventura, all’interno della Catholica, è terminata; la sua persona, e il suo personaggio, sono ormai compromessi. Ma la Chiesa è paziente e sa rispettare l’enigma di una Provvidenza che, ai nostri occhi limitati, sembra talvolta crudele. Se Milingo se ne va per la sua strada, con la sua coreana messagli al fianco dal Messia di Seul, qualcun altro sarà chiamato a prenderne il posto. Qualche altro credente dal volto nero saprà donare al suo popolo un vangelo fedele e al contempo “colorato”; saprà ricordare a tutti i cristiani, quale che sia la loro pelle, che ciò che davvero conta non è affidato alle teorie degli intellettuali ma all’istinto di quel popolo che ha sempre avvertito che la fede è vita, è passione, è gesto, è carisma. Non è solo schematismo teologico.

Vittorio Messori

Il Corriere, 12 agosto 2001

 

INTERVISTA A VITTORIO MESSORI   

FABIO SCANDONE
Anche la «disavventura giornalistica» come ha definito il caso Lehmann un cardinale ”mediatico” quale Ersilio Tonini, può riportare all’attenzione i problemi cruciali della Chiesa. Che prima ancora delle riforme auspicate da molti, investono questioni di fede. Parola di Vittorio Messori. L’autore dell’intervista best-seller con Wojtyla «Varcare la soglia della speranza» non smentisce il proprio approccio di credente, ma libero e spesso controcorrente fino alla provocazione: «Certo, c’è una questione di giustizia che per un credente è importante: la trascrizione dell’intervista di monsignor Lehmann dimostra quasi il contrario di ciò che gli è stato attribuito, quando afferma di aver trovato il Papa di tempra assai solida – rimarca – Ma il punto è che la Chiesa deve reinterrogarsi sulle questioni forti, perché la sua vera, grande crisi è una crisi di fede»
Il presidente dei vescovi tedeschi ha posto almeno implicitamente l’interrogativo se un Papa anziano, stanco e malato possa servire il governo della Chiesa: lei che ne pensa, Messori?
« Su questo va detto con chiarezza: il Papa non è l’amministratore delegato della Coca Cola Corporation, i criteri che funzionano per il management o per la politica in una prospettiva di fede non valgono per la Chiesa. La sofferenza, la malattia e la vecchiaia hanno un significato preciso per cui paradossalmente la debolezza fisica può essere una gropssa forza spirituale».
Ma il caso Lehmann non è solo questo: dal presidente dei vescovi tedeschi a quello emerito degli Stati Uniti John Quinn fino al cardinale Martini sono altrettante voci forti e autorrevoli per una Chiesa che sappia anche cambiare: questo Papa secondo lei può?
«La crisi della Chiesa non è a mio avviso istituzionale, e non si risolve riorganizzando la Santa sede o dando il sacerdozio alle donne. È piuttosto crisi di fede, anche i cristiani rischiano di non credere più nel Vangelo: è il supermarket dela religione. E credo che di fronte a questa crisi un Papa vecchio e malato sia molto più efficace un Pontefice giovane e manager»
Ci sono però dei punti chiave che Lehnmann ha evocato e che altri da tempo ripropongono all’attenzione: più collegialità nel governo della Chiesa e nella nomima dei vescovi, il celibato del sacerdozio, l’atteggiamento verso i divorziati-risposati. E si potrebbc continuare.
«Certamente questo Papa ha privilegiato l’aspetto missionario del suo magistero, l’essere itinerante per il mondo a annunciare il Vangelo. Dunque avrà fatto meno lavoro d’ufficio lasciando la Curia un po’ a se stessa. Ma le rispondo volentieri con un breve aneddoto: ad una conferenza stampa per la presentazione di un saggio di Hans Kueng (il teologo forse più critico verso le posizioni della Chiesa, ndr.) un pastore protestante scuoteva la testa a sentir parlare proprio di sacerdozio femminile, di coppie risposate, degli omosessuali. Chiesi al pastore protestante la ragione del suo scetticismo, mi rispose così: ”Tutte le cose che Kueng chiede per la Chiesa cattolica adesso, noi le abbiamo da secoli ma i nostri templi sono più vuoti della vostre chiese. E dunque se qualche cattolico pensa che con queste riforme si superi la crisi della fede, sbaglia di grosso”. Voglio dire allora che queste riforme possono essere importanti ma non decisive».
Poniamo allora una questione avvertita da tutti, la contraccezione: la Chiesa ammette i metodi naturali, le statistiche indicano che i cattolici si discostano e optano per tutta la gamma vietata. A cosa serve mantenere intransigenza e divieti?
«È un grosso equivoco perché in una prospettiva di fede per la Chiesa tutto ciò non può valere. La Chiesa è amministratrice del Vangelo, non proprietaria, e in questo senso è ”prigioniera” della sua dottrina: il punto è che non può dire di sì. Non c’è nessun Papa che possa cambiare verità di fede e una tradizione che dura da venti secoli».
Anche a prezzo della disaffezione dei fedeli?
«Macché: molte riforme hanno addirittura allontanato la gente piuttosto che avvicinarla, per esempio i concerti di paleo-rock a Bologna. In realtà una Chiesa austera e tutto sommato severa, alla lunga finisce con l’attirare assai di più del prete in blu jeans».
Messori, di cosa ha bisogno allora la Chiesa del Terzo Millennio?
«Proprio di quello che secondo me non fa più: re-interrogarsi sui propri fondamenti, ovvero se ci crediamo più o un po’ meno, e anche se Gesù è davvero l’unica salvezza o solo uno fra i tanti. Non si può annunciare una morale senza interrogarsi sulla fede: si parla troppo di morale, idi stituzioni, di riforme ma tutto ciò rischia di rimanare campato in aria senza una riflessione forte su Cristo».

Il Mattino, Martedì 11 Gennaio 2000

 

 

 

Il Giorno, 1 giugno 2000

“Troppa burocrazia, nella Chiesa torni la fede”

 

ROMA – Vittorio Messori, intellettuale cattolico noto per i suoi saggi sulla Chiesa e le sue provocazioni, ma anche per aver intervistato il Papa, alza il tiro. “L’istituzione ecclesiale – afferma in un articolo su ‘Famiglia Cristiana’ – è un groviglio di contraddizioni. Una delle parole d’ordine del Vaticano II era quella di costruire una Chiesa meno romanocentrica, di riscoprire le Chiese locali: ebbene – aggiunge Vittorio Messori -, se si guarda l’Annuario Pontificio esso si è moltiplicato per quattro: una proliferazione di organismi di burocrazia clericale, che hanno quasi tutti sede a Roma”. Dalle colonne di “Famiglia Cristiana”, Messori se la prende anche con il Progetto Culturale varato dalla Conferenza Episcopale Italiana, presieduta dal cardinal Camillo Ruini. “È un oggetto misterioso – dice Messori – e Ruini stesso ne è consapevole: nessuno ha ben capito cosa sia. Io – spiega adesso lo scrittore – avrei proposto un progetto religioso, non un progetto culturale. La crisi della Chiesa non è di carattere istituzionale: è una crisi di fede, invece si continua a fare della morale e del moralismo dando per scontata una fede che non è affatto scontata. La Chiesa – continua Messori – deve interrogarsi senza paura sulla fede. Sulla cultura ci sono ben altri che possono farlo”. Secondo Vittorio Messori, “oggi assistiamo al tentativo della Chiesa di uscire dal suo ambito: si occupa di politica, non del lievito. La politica avrà un orientamento cristiano se siamo cristiani”. Per Messori, infine, in Italia “la Chiesa deve essere minoritaria ma non marginale”, e “se Ruini accetta la posizione della Chiesa come minoritaria, è un buon segno sé ha riscoperto quale è la logica del Vangelo”. Per Franco Garelli, invece, il progetto significa “ripensare seriamente al rapporto tra fede e cultura in una società che cambia in modo vorticoso: una nuova antropologia cristiana. Se non è decollato è “sé il mondo cattolico sta in mezzo al guado. Quello impegnato è diviso”.

 

 

SOCIETA’ Senza le rinunce e le penitenze quaresimali anche il divertimento perde fascino e mordente Mentre si moltiplicano i piaceri, in un perenne martedì grasso, scompare il gusto della trasgressione

CARNEVALE La follia non abita più qui

Non è aprile, come voleva Eliot. Febbraio è il più crudele tra i mesi. E il più lugubre, proprio perché, a partire dall’inizio – la Candelora – vi si incistano le “allegre” giornate del carnevale. Rivado alla mia giovinezza torinese: a febbraio, la siccità invernale rendeva la città polverosa e ancor più oppressa da uno smog alla Manchester di Engels. Fumo grasso, da comignoli di riscaldamento a carbone e da ciminiere d’industria pesante. Il sole impietoso, in giornate quasi sempre serene, rivelava tutte le magagne della capitale decaduta, da cui il potere era fuggito per sempre nel 1864 e di cui solo misericordiose nebbie e cieli plumbei potevano velare il degrado. Al fondo di via Po – in quella immensa, tragica piazza Vittorio costruita per celebrare trionfi che non sarebbero mai venuti – si montavano quelli che, per i torinesi, erano i “baracconi” di un luna park, immutato dai tempi di De Amicis.
Una «festosa città dei divertimenti», secondo la formula invariabile della cronaca de La Stampa. Ma dove si aggirava una folla taciturna di immigrati meridionali, di soldati in libera uscita, di pensionati Fiat sospettosi verso i napuli, di studenti con il cappello goliardico a punta, di domestiche con i figli dei borghesi. Tutti, sorvegliati dai civich , i vigili urbani che, a coppie, controllavano che quel “divertimento” a data fissa fosse ordinato e sottovoce.
Il vertice del lugubre era però raggiunto la domenica prima del mercoledì delle ceneri, con la sfilata lungo via Po: a chiuderla Gianduja e Giacometta, preceduti dal trionfo del cartongesso che aveva trasformato dei camion Fiat e Lancia in «carri divertenti, ispirati in modo sbarazzino all’attualità locale e nazionale», per rifarsi ancora alla prosa della cronaca cittadina. Per la quale il tutto si svolgeva, naturalmente, in «un’atmosfera allegra e spensierata». Il massimo della trasgressione, oltre ai coriandoli, il lancio di caramelle con piccole zuffe tra i bambini, travestiti da sommarie maschere con pezzi di stoffa cuciti in casa. Lo “sbarazzino” dei carri, poi, consisteva in rispettosissime caricature del sindaco Peyron, calvo e occhialuto, del chirurgo Dogliotti, col bisturi in mano, di Pinin Farina dentro una Cisitalia. Una sola volta apparve – e passò un brivido di disagio tra la folla che applaudiva al passaggio, disciplinatamente “festante” – il pupazzo di Valletta: piccolo, in doppiopetto, col famoso sorriso “feroce” (proprio per questo, i comunisti chiamavano la Fiat “la Feroce”).
Queste, insomma, le mortuarie “follie del carnevale”. Solo a Torino? E solo allora? Ma no. Dappertutto, e più che mai in seguito, regnò quell’atmosfera di triste, di artificioso, di sforzato. Per arrivare a questi nostri anni, in cui sono spariti “baracconi”, sfilate, manifesti in latino maccheronico di goliardi (e goliardi stessi). Restano le festicciole per bambini in oratorio o cose tipo Viareggio e Venezia, ma come occasione turistica, senza alcuna illusione di coinvolgere la gente. Naturalmente, è giusto che sia finita così. Proprio perché è finito ciò che dava una ragione e un senso al carnevale. Come tutti, o quasi, sanno, la parola viene dal saluto – Vale ! – dato alla carne prima dell’inizio dei quaranta giorni di magro e di digiuno che precedono la Pasqua. Un impegno serio, in tempi di cristianità, tanto da far chiudere in quel periodo le botteghe di beccaio.
Travolta da quello che Paolo VI chiamò «un raptus di autodemolizione», la Chiesa postconciliare è giunta ad abolire in ogni venerdì dell’anno l’obbligo del magro (che costituiva, tra l’altro, un forte segno di identità cattolica, contribuiva a far sentire parte di una comunità con le sue regole) e di penitenze non sembra più voler parlare.
Non solo non c’è più un Ramadan cattolico; ma suore e frati sono tra i più ricercati autori di libri di ricette, di manuali per godere le gioie della gastronomia. E il digiuno lo hanno lasciato a buddisti, a cultori del new age, a cliniche salutiste, dove si paga – e caro – perché non ti diano da mangiare. Sarebbe dunque incongruo volere moraleggiare, da cattolico, sul “mondo”, che spesso, oggi, non sa neppure che significhi la parola quaresima e non ha certo da congedarsi dalla carne, un martedì di febbraio, in vista di astinenze e privazioni edificanti. Il carnevale esisteva solo in funzione di quanto lo seguiva: sparita la quaresima, doveva anch’esso sparire. Ma carnevale corrispondeva ad altri bisogni, essi pure scomparsi. Il bisogno – semel in anno – di allentare i freni morali, di lasciar spazio ai richiami della gola, magari dell’erotismo.
Il bisogno di sospendere i ruoli sociali (e sessuali : quanti uomini travestiti da donne!) con le loro gerarchie e i loro doveri: da qui, maschere e mascherate. Il bisogno di infrangere le censure e di gridare a superiori e potenti quanto si era costretti a tenere per undici mesi nella strozza: da qui i canti carnascialeschi, le caricature, il fingersi pazzi per parlare senza conseguenze troppo gravi. Ebbene: basta guardarsi attorno per accorgersi che, oggi, tutto l’anno è carnevale. Siamo figli del Sessantotto e del suo «è vietato vietare»: che è – basta pensarci un poco – l’estensione universale della zona franca carnevalesca. Dunque, non c’è più necessità di quel salvacondotto che la società concedeva soltanto per alcuni giorni, chiusi poi dalla imposizione delle ceneri, che rimetteva tutto a posto: « Memento, homo, quia pulvis es… ».
Ne abbiamo tratto guadagno, proprio sul piano dell’edonismo, del piacere? C’è, forse, da dubitarne: non c’è gioia vera che non sia tristezza superata; non c’è godimento pieno che non presupponga una sofferenza; non c’è appagamento se non in unione con una rinuncia. E’ rifiutando la quaresima che ci siamo preclusi i piaceri del carnevale, proprio quando ci illudevamo di moltiplicarli, facendo di ogni giorno un martedì grasso.

Corriere Martedì 27 Febbraio 2001

 

 

Intervista a Vittorio Messori «MA IO, CATTOLICO, CAPISCO I SERBI»

La guerra della Nato contro la Serbia è ingiusta e inutile

Enrico Caiano MILANO – Corriere 16 aprile 1999

 

 «Sul prossimo numero di Famiglia cristiana saranno pubblicati i risultati di un sondaggio: la stragrande maggioranza della nomenclatura religiosa, frati, preti e suore, considera la guerra contro la Serbia ingiusta e inutile. Oltre il 71 per cento la pensa così. Io, cattolico e credente, penso come loro. Anzi, aggiungerei anche l’aggettivo dannosa».

Vittorio Messori, scrittore cattolico, biografo di Giovanni Paolo II, sa di avere una posizione «politicamente scorrettissima» sulla guerra Nato contro Milosevic. Perché, se concorda con la Santa Sede che «oggi giustamente si oppone a questa guerra», non manca di criticare la politica vaticana «che non ha certo brillato di coerenza nel teatro strategico dei Balcani, visto che la Chiesa domandò a suo tempo l’ingerenza umanitaria, quindi la guerra, per la Bosnia. Perché muoversi a favore di quei musulmani che finché si sentivano forti con la Turchia alle spalle ebbero come sport nazionale sempre e solo quello di scannare i cristiani?».

 

Dunque lei apprezza l’equidistanza di oggi del Vaticano, che condanna con la stessa forza i massacri di Milosevic e i bombardamenti (qualche volta anche drammaticamente fuori mira) della Nato?

«Credo che una delle grandi virtù cristiane dimenticate sia il realismo, la convinzione che solo con il ritorno di Cristo politica e storia troveranno la pace. Chi si ispira al realismo cristiano dovrebbe spingersi al massimo a limitare i danni, non inseguire una pace irraggiungibile nella storia, proprio secondo le prospettive di fede. Limitare i danni vuol dire rendersi conto che la storia è come la natura: se ci si oppone si ricavano solo guai».

 

E la storia prevede che i serbi «cancellino» i musulmani dal Kosovo?

«La storia dice che da sempre i Balcani sono un nido di vipere, lì non ci sono né carnefici né vittime, ma tutti sono alternativamente carnefici o vittime a seconda se hanno o meno la forza. Non dimentichiamo che i “buoni” musulmani che ora commuovono anche a ragione tanta gente, negli anni ’10 del secolo costrinsero l’Austria a intervenire per fermare il terribile genocidio che stavano praticando sui cristiani in quelle zone. Non dimentichiamo l’invasione turca dei Balcani, a cominciare da Bisanzio, la seconda Roma, presa con la forza. Insomma, lì non c’è una parte che meriti più commozione di un’altra».

 

Dunque quella della Nato, e quindi di Usa ed Europa, è una pretesa ingenua e destinata a fallire?

«Intervenire per cercare di governare la storia con schemi buonisti e illuministi significa esporsi a guai assai peggiori di quanti se ne avrebbero lasciando che ciascuno regoli i suoi conti. È la follia del “politicamente corretto”. Già si sta verificando il capovolgimento delle attese: se si voleva portare soccorso ai kosovari abbiamo moltiplicato le loro sofferenze e rafforzato il governo serbo, dandogli la possibilità di espellere in massa un popolo, cosa che non avrebbe potuto fare senza i bombardamenti. E poi, non capisco tutta quest’esultanza della Nato, vale a dire degli Usa, sullo smantellamento dell’apparato industriale serbo…».

 

Ovvero?

«Sono dichiarazioni agghiaccianti, perché con mille aerei che sganciano bombe su quel poco di industria che ha la Serbia noi ci troveremo presto con altri dieci milioni di morti di fame. Si sta distruggendo l’economia di Serbia e Montenegro che non erano certo ridotti a livelli di povertà albanesi. E allora ci toccherà poi tornare in quelle zone con un’altra missione umanitaria politicamente corretta per aiutare serbi e montenegrini a non morire di fame. Al di là del giudizio morale, comunque, quello Nato è un atto di pirateria internazionale: l’Alleanza, nata con fini difensivi, aggredisce uno Stato riconosciuto, come la Federazione jugoslava, per ottenere il distacco di un territorio che fa legittimamente parte di questo Stato».

 

-Eppure in Parlamento i cattolici sembrano lontani da tesi di questo tipo, prevale anche tra loro l’interventi smo...

«È il risultato dell’esplosione o implosione della Dc: i cattolici in politica non riescono a esprimere una loro linea di pensiero e soprattutto di comportamento, perché fanno parte di coalizioni dove sono al massimo ciliegine un po’ appassite sulla torta. Marini o Casini possono essere d’accordo con me, ma privatamente. In realtà le ragioni del cosiddetto bipolarismo li portano al traino di decisioni prese da altri».

 

 

Chiesa, Stato e fecondazione
DISCUSSIONE. Lo scrittore cattolico interviene sulle tesi di Vattimo e don Zega
Messori: prima la fede poi la morale

MI chiedo a volte se il mondo cattolico esiste ancora, o non è soltanto una scatola vuota, e dentro non c’è niente”. Vittorio Messori, il più noto scrittore cattolico, commenta la “provocazione” lanciata lunedì mattina sulla Stampa dal filosofo Gianni Vattimo e da don Leonardo Zega. Punto di partenza era la fecondazione artificiale, con le polemiche connesse; i commentatori – riassumendo brutalmente – mettevano in dubbio l’ampiezza del consenso cattolico e popolare contro la fecondazione eterologa; esprimevano la sensazione, presente in molti fedeli, di un coinvolgimento eccessivo della Chiesa versus il potere politico quando le convinzioni cattoliche non sembrano abbastanza difese; e infine si chiedevano se una posizione “rigida” della Chiesa non fosse poco aderente allo spirito evangelico.
Messori è sferzante. “Siamo di fronte a un cristianesimo capovolto dove si annuncia la morale, l’etica cristiana, dimenticando che se prima non riannunci Cristo a un mondo che l’ha dimenticato o rifiutato, provochi rivolta”. L’autore (con il Papa) di Varcare le soglie della speranza non può essere certo sospettato di sinistrismo; ma è convinto che l’”inversione della Chiesa”, così la chiama, abbia condotto a dimenticare che “deve venire prima la fede, poi la morale”. Se non c’è fede, le battaglie sono inutili: “Così come i clericali del ‘’No’’ all’aborto, al divorzio, alla contraccezione, al preservativo, all’ingegneria genetica, questi clericali del ‘’No’’ provocano soltanto rivolta, non adesione; fastidio, la continuazione dell’equivoco secondo cui il prete è sempre e comunque un rompiballe. Il parroco che ti mette il naso in camera da letto. E poi questo frugare clericale negli uteri, negli spermatozoi, fra i perservativi, ma è possibile, dico io? Questo mettere il naso in camera da letto...”.
”Credo che oggi più che mai bisognerebbe prendere l’invito del Papa a una nuova evangelizzazione. Soltanto riannunciando il Vangelo e aiutando la gente a riscoprire una certa prospettiva puoi, dopo, parlare di conseguenze etiche”. E la Chiesa ha responsabilità pesanti: “Questa logorrea clericale, l’affanno di pubblicare tre documenti al giorno, è un brutto segno; parla molto l’istituzione in crisi. Disquisiscono su tutto, ma dando per scontata una fede che non lo è affatto. Sostanzialmente credo che don Zega non abbia torto”.
Ma si tratta solo di convinzioni cattoliche? Il cardinale Ersilio Tonini lo nega, e cita Kant: “Ogni coscienza è naturale salvo che può avere a suo fondamento una legge soprannaturale o rivelata”. Osserva: “Se dalla carta costituzionale dovessimo togliere tutto ciò le cui radici sono cristiane dovremmo eliminarla quasi totalmente”. Secondo il porporato, non è a difesa della fede che la Chiesa interviene in questo momento per escludere la fecondazione eterologa. “Non c’è nel Vangelo qualcosa che dice: fecondazione eterologa no. Ma c’è un diritto sacrosanto del futuro bambino di sapere a chi si appoggia. E il principio che la paternità e la maternità abbiano la loro ragione nella derivazione biologica fa parte della nostra civiltà. Anche del pensiero romano, precristiano”. Il desiderio di avere un figlio “è legittimo, ed è bellissimo. Ma per la sua realizzazione gli strumenti devono essere buoni”. E si giunge a un paradosso: “La Chiesa in realtà si trova a difendere il matrimonio civile, un’istituzione che certamente non le appartiene”. Ma lo fa per difendere i diritti dei figli.
La legge in discussione in Parlamento è da criticare: “Nessuno l’ha ancora detto: quella legge non fa altro che sanzionare la irresponsabilità di chi dà il seme. Potrebbe avere dieci, quindici figli in giro per l’universo, lui però non ne è responsabile”. Le polemiche politiche: “Tiriamo fuori il rapporto Stato-Chiesa in questioni dove quel rapporto non c’entra proprio per niente. Siamo ancora in un’ottica ottocentesca, qui”.
Ma è comunque un problema che tocca tutti, al di là delle fedi, dice don Vittorio Morero, direttore dell ‘Eco del Chisone : “Discutiamone civilmente, senza di nuovo vedere la Chiesa che fa la crociata. No, queste cose qua la Chiesa le ha sempre dette. Poi ci sono i cristiani che fanno politica, e che hanno dei ruoli pubblici, e sono legislatori, mediano con la loro coscienza. Anche se io ritengo, come teologo, che questo sia un argomento da approfondire; su questo tema della fecondazione non è finita la discussione”.
Ma la Chiesa non è troppo rigida nella sua posizione verso le coppie di fatto “stabili”? “E’ vero che il Vangelo è un messaggio di guarigione, e non un messaggio di giudizio; però a un certo momento come è possibile che io predichi un’etica senza chiedere alla gente di raggiungere l’ottimale? Penso che nella vita di ognuno di noi ci siano momenti di abisso per i quali vale la compassione; ma io devo predicare l’optimumun, devo mirare in alto. La Chiesa non può predicare la mediocrità o l’escamotage, o anche quell’equilibrio sottile che entra nella vita di tutti noi. Perché corre il rischio di predicare non l’optimum, ma il mediocre”.

Marco Tosatti (La Stampa, Martedi’ 16 Febbraio 1999)

Messori sul film Jesus: «Poco sacro e molto clintoniano»

Da http://ilgiorno.monrif.net/chan/cultura_spettacoli:375356.1:/1999/12/07

 

Per Vittorio Messori il «Jesus» della Lux Vide è «una brutale opera di desacralizzazione». «Non parlo da critico cinematografico. Io parto da una prospettiva di fede — spiega l’autore di “Ipotesi su Gesù”, un milione e mezzo di copie vendute solo in Italia —. I Vangeli sono al contempo storia e mistero. Quale che sia la bravura del regista o dell’attore, al cinema il mistero si dissolve». Molti pregano davanti a un’immagine, magari di Giotto o Caravaggio... «Ma non davanti a queste immagini. Le immagini dei dipinti, a parte la qualità degli artisti, sono sempre state inserite in un contesto sacro, hanno sempre rispettato l’andamento degli episodi evangelici. Se invece, mentre prego, mi si sovrappone questo Gesù televisivo, la mia preghiera diventa impossibile. Quel simpatico ragazzo ha la faccia da americano, non da semita; non ha il mistero del volto di Cristo, ma ha l’aria del “buono” da Spaghetti Western. Del resto è una questione di dollari. Gli americani fingono di interessarsi a noi, in realtà vogliono che tutto abbia la loro faccia, anche Gesù». Le è piaciuto di più il Gesù di Pasolini, allora? «No, no, che sia il Gesù sessantottino e demagogo di Pasolini, o quello estetizzante di Zeffirelli, o questo clintoniano della Lux, me ne importa poco. C’è sempre il tentativo, violento, di imporre un’immagine».

Perché dice che quest’ultimo Gesù è “clintoniano”? «Uso la vulgata clintoniana del “politicamente corretto”. Questo Gesù balla, gioca facendo rimbalzare i sassi sul lago di Tiberiade, flirta con la sorella di Lazzaro...: roba da oratorio postconciliare. Il tentativo di attualizzazione distrugge quanto c’è anche di perenne nella figura di Gesù».

A proposito di “politicamente corretto”: tutta colpa dei Romani? «Mi sento spiritualmente semita, ma so anche che i romani non erano quei “nazisti” che vogliono farci credere. Il testo dei Vangeli lo conosco parola per parola. La responsabilità storica della morte di Cristo grava per metà sul romano Ponzio Pilato, che pur di non guastarsi la carriera evitò ogni possibile causa di attrito, ma per metà anche sul sinedrio, che non rappresentava certo tutti gli ebrei, ma era pur sempre composto da ebrei... Questo se vogliamo rispettare la storia. Se invece vogliamo fare della “fiction”, allora è un’altra questione».

La fantasia applicata ai Vangeli non può funzionare? «I Vangeli sono la sola biografia possibile di Cristo. Non voglio né di più né di meno».

Di Enrico Gatta

 


Missionari in casa nostra Questa è la vera novità

di VITTORIO MESSORI


Il Corriere martedì 3 luglio 2001

Un vescovo, quello di Como, invoca «la legittima difesa da parte dei credenti, preti inclusi, contro il moltiplicarsi patologico dei documenti ecclesiali». Fa notare, monsignor Alessandro Maggiolini, che quanto più i documenti sono numerosi e lunghi, tanto più rischia di aumentare non la chiarezza ma la confusione. Difficile dire se questo riguardi anche gli Orientamenti pastorali per il prossimo decennio pubblicati ora dalla Conferenza episcopale italiana. Di certo, pure stavolta la prolissità non manca: ben 132.000 caratteri, secondo il conteggio di Word. Come è ormai consueto, si comincia ripassando tutta intera la Storia della Salvezza, da Adamo sino alla Pentecoste. Da qui, si prosegue con una sintesi di storia e teologia della Chiesa. Si passa poi alla sociologia e all’antropologia del postmoderno. Infine, si giunge alle indicazioni pastorali. Non manca, sin dall’inizio, l’adeguamento all’ossessione del pentitismo e del perdonismo: i vescovi chiedono scusa per ogni loro possibile mancanza; e del trascorso Giubileo non ricordano, compunti, che le richieste di perdono di Giovanni Paolo II. Scorrendo le decine di pagine del documento con occhi allenati, ciò che sembra rilevante non è tanto la constatazione (tante volte ripetuta nei documenti ecclesiali) di quello che ha attirato l’attenzione delle agenzie. Sembrano, semmai, altri gli spunti di novità. Ad esempio, il fatto che tra le cose di cui i vescovi chiedono perdono è l’avere permesso che nella Chiesa stessa «a fatica si trovino le parole per parlare delle realtà ultime e della vita eterna». Dopo l’eccitazione per l’impegno socio-politico, è confortante constatare che i presuli riscoprono che solo la Chiesa ha da proporre risposte alle domande ultime e che cuore del Vangelo è la sconfitta della morte. Interessante pure il rammarico per quello che viene chiamato, senza eufemismi, «analfabetismo religioso», soprattutto dei giovani. Anche qui, sembra di cogliere un rammarico dei vescovi per avere permesso la liquidazione di un «catechismo» chiaro, conciso, dall’efficacia sperimentata nei secoli, sostituito da testi e predicazioni da sociologo, da antropologo se non da sindacalista. Non piacerà, invece, ai tradizionalisti un’ammissione così, testualmente, formulata: «Non possiamo escludere che i non credenti abbiano qualcosa da insegnarci circa la comprensione della vita e che, per vie inattese, il Signore possa in certi momenti fare sentire la sua voce attraverso di loro». Non è poco: rare volte la funzione provvidenziale della incredulità è stata rilevata con tale chiarezza.
Stupisce, poi, che le agenzie non abbiano rilevato un passaggio che costituisce un’autentica sterzata. Constatando la formazione, pure in Italia, di una società multietnica e, dunque, multireligiosa, i vescovi scrivono: «Ci è chiesto di compiere la missione ad gentes anche qui, nelle nostre terre». Pertanto, i cattolici «debbono essere capaci di testimoniare il Vangelo anche ai non cristiani e, se piace al Signore ed essi lo desiderano, annunciare loro la parola di Dio». La situazione nelle parrocchie, in effetti, è spesso paradossale: da un lato l’annuncio esplicito del Vangelo agli immigrati di altre religioni è impedito dal «teologicamente corretto», quasi che parlare loro di Gesù sia un’offesa; dall’altro lato, gli stessi preti battono cassa, almeno una volta all’anno, per il mantenimento delle missioni cattoliche nel mondo. Dunque, nel Terzo Mondo sì; e no, invece, quando i non cristiani sono i nostri vicini di casa e di lavoro? Quello che, in altri continenti, è meritorio «apostolato», diventa intollerabile «proselitismo» qui da noi? Una contraddizione insostenibile. E proprio nel cuore stesso della fede che, per sua natura, è missionaria. Questo piccolo, coraggioso inciso del documento è un inizio per superare l’incoerenza. E’ però facile prevedere che, assieme ad adesioni, troverà resistenze in chi, nella Chiesa stessa, scambia il doveroso dialogo con la liquidazione dell’unicità di Cristo e il «vogliamoci bene» sincretista.

Immorale? Giocava perfino Don Bosco

Uno scrittore cattolico replica alla condanna di parte della Chiesa: ‘Anche il Vaticano ricorreva al lotto’.

A cura di Mauro Anselmo

Panorama 30 ottobre 1998

 

 

Si accende la Superenalotto-mania e subito illustri esponenti di Santa Romana Chiesa (dal cardinale Ersilio Tonini al vescovo di Acerra monsignor Riboldi) preparano il cerino per il rogo: premi assurdi, miliardi immorali. ‘È la solita, vecchia litania: bruciamo le lotterie’ dice lo scrittore cattolico Vittorio Messori ‘ma da che pulpito viene la predica? Dai preti, cioè da coloro che dovrebbero quantomeno fare un esame di coscienza prima di arrostire il botteghino’.

 

Sé?

 

San Giovanni Bosco ricorse all’uso sistematico delle lotterie per mantenere la sua città dei ragazzi. E il beato Francesco Faà di Bruno, approfittando delle sue conoscenze a casa Savoia, organizzò una grande lotteria ai Giardini reali di Torino, distribuendo il megaincasso in opere di beneficenza.

 

Ma don Bosco e Faà di Bruno non giocavano al Super Enalotto.

 

Il principio era lo stesso. Se un’obiezione si può fare, riguarda semmai lo squilibrio del lotto, per cui chi tiene il banco è privilegiato più del dovuto rispetto a chi vince, ma l’obiezione, di per sé legittima, non giustifica la crociata contro un gioco che fu usato da fior di santi per le loro opere di misericordia e dallo stesso Stato pontificio che con il Lotto rinsanguava le sue modeste finanze.

 

Sta dicendo che le vincite miliardarie sono evangeliche?

 

Gesù non ha mai demonizzato il denaro in quanto tale. Lo ha considerato una realtà ambigua, insegnando che può essere manna di Dio o sterco del demonio. Con il denaro ci si salva come fa Zaccheo o ci si danna come il ricco Epulone. Chi sostiene che nella prospettiva cristiana il denaro è sempre oggetto di disprezzo dice una colossale bufala.

 

Ma Gesù non era povero?

 

Gesù era un rappresentante della middle class: Giuseppe era un agiato e stimato artigiano, come testimonia Giustino martire, suo parente, nelle Apologie, e quando Gesù decise di lasciare l’impresa di famiglia per annunciare la Buona Novella, l’evangelista Luca racconta che veniva ‘assistito dai beni’ di alcune ricche donne come Giovanna, moglie di Cusa, che era stato l’amministratore di Erode. Gesù dava il giusto valore al guadagno lecito e al denaro e non era affatto un miserabile, come ci ha abituati a credere il pauperismo demagogico di una certa teologia che ancora oggi, purtroppo, è in voga. 

 

Colpa di chi?

 

Di chi dimentica che Gesù non è venuto a spiegare la riforma agraria ma a liberare l’uomo dalla povertà vera: quella di chi pensa che la sua vita sia una passione inutile.

 

© Arnoldo Mondadori Editore-1998
Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati

 

"La fiducia nel Mistero per l’uomo di ogni tempo" :Intervista a Vittorio Messori

 

 

di Dario Benetti

D. Razionalità e passione per l’uomo hanno sempre convissuto in modo positivo nel suo lavoro. Credo che questo equilibrio sia uno dei motivi principali del successo di tutte le sue opere. La cosiddetta “cultura cattolica” è invece spesso ottenebrata dal pregiudizio e non arriva al cuore dell’uomo, alle dimensioni fondamentali che lo costituiscono. Da questo punto di vista la recente enciclica “Fides et Ratio” è una forte sollecitazione agli intellettuali a non fermarsi sulla soglia del rapporto tra fede e cultura, ripartendo dalla frase incisa all’ingresso della grotta dell’oracolo di Delfi: “conosci te stesso”. Come giudica, in questo senso, la situazione culturale attuale del mondo cattolico?

 

Direi che più che il “pregiudizio”, nella cultura cattolica è molto diffuso un senso di inferiorità nei confronti della cultura laica e dunque una certa qual soggezione ai modelli imperanti. La pienezza dell’uomo, il suo valore, il suo destino possono essere colti pienamente solo all’interno di una visione religiosa della vita. Tanto più in quella cristiana, dove Dio stesso si è chinato sulla Sua creatura fino al punto di inviare il Figlio –Dio e uomo allo tempo stesso- che, assumendo la pienezza della carne umana, l’ha anche definitivamente inserita nella propria vita divina. Gli orizzonti che ci vengono proposti sono dunque straordinari. Ma noi stentiamo assai ad accorgercene. Vedo in giro molto timore, troppa soggezione a una visione laicista dell’uomo; e, dunque, per forza di cose limitata. Il cristianesimo sembra talvolta non aver più fiducia in se stesso come fonte di ispirazione della musica, dell’arte, della cultura in generale. Si cerca l’incontro con il “diverso”, il cosiddetto “dialogo”. Questo è bene se porta ad una sintesi superiore, non se appiattisce su un livello inferiore. Dobbiamo saper ripercorrere all’indietro la nostra Tradizione per riscoprirla, perché spesso non la conosciamo in tutto il suo valore, in tutta la sua ricchezza. E saperla così riproporre all’uomo di oggi. Infatti una Tradizione o è vivente, cioè capace di introdurre al Mistero l’uomo di ogni tempo, o non è.

 

 

  1. Nell’intervista concessa ai “Quaderni” nel 1983 era molto pessimista sulla situazione sociale e parlava di “un mondo che porta segni inquietanti di morte” e di “società necrofila”. E’ ancora dello stesso parere?

 

Sì. Vedo molti segni di morte. Uno innanzitutto: un uomo che vuole sganciarsi da Dio, che esige una libertà totale in campo metafisico e morale e che proprio per questo cade in mille schivitù e,dunque, fa esperienze molto dolorose e senza speranza. Ma tutto questo potrebbe anche essere un preludio ad una fede rinnovata, forse addirittura a quella Apocalisse che attendiamo. O, più semplicemente, a u tempo di riscoperta di Gesù Cristo. Quando l’uomo tocca il fondo, infatti, quando uno si vede umiliato dalle sue stesse mani, dal suo stesso comportamento, allora è davvero pronto per ricevere il Salvatore. Prima, crede di non averne bisogno. Dove esiste il peccato può sovrabbondare la Grazia. Per questo non bisogna oggi essere timidi, avere paura. La gente ha più che mai bisogno di Dio, del Dio di Gesù Cristo.

 

  1. Cosa pensa del problema della convivenza multietnica in Italia e dei rapporti con l’Islam? Come si concilieranno le esigenze sempre maggiori di identità e di autonomia locale con la pressione e la forza culturale dell’immigrazione extra-europea?

 

Credo che tutto questo porterà, dopo un assestamento che potrebbe anche essere lungo e difficile, a una riscoperta dell’identità cristiana. Il fenomeno di questa compresenza di religioni diverse, per l’Europa, per l’Italia in particolare, è ancora troppo recente. Oggi, dunque, assistiamo, più che altro a fenomeni di destabilizzazione. C’è una crisi di identità nei cristiani (ma anche nei musulmani che vengono a contatto con la secolarizzazione). Oppure a un eccessivo irrigidimento su una Tradizione che rischia di uscirne imbalsamata. Ma se crediamo davvero che Gesù Cristo è il Salvatore del mondo riusciremo certamente, con l’aiuto dello Spirito, a ritrovare la giusta armonia tra il rispetto delle differenze religiose che sembrano rispondere a un piano stesso di Dio e la piena adesione a chi ha detto di sé di essere la Via , la Verità e la Vita.

 

  1. “Io lancio bottiglie in mare –mi diceva nel 1983- se qualche naufrago le vuole raccogliere mi fa molto piacere…ma non ho molte illusioni di modificare con questo la società”. E’ ancora dello stesso parere?

 

Sì, certo. Il mio “lancio” in mare continua. L’ultimo è quello straordinario e misconosciuto prodigio di Calanda (una gamba riattaccata all’improvviso ad oltre due anni dalla amputazione) di cui parlo nel recente libro “Il Miracolo”. Cerco di accendere delle luci, di mantenere viva la speranza. Non mi propongo di modificare la società, ci mancherebbe! Soltanto di portare ognuno che mi legge il più possibile vicino al Mistero. Poi, tocca allo Spirito muovere i cuori e le menti, se vuole. E allora da una pietra può anche nascere un “figlio di Abramo”…

 

  1. La recente guerra del Kòsovo ha riproposto in modo drammatico il problema del rapporto tra Oriente e Occidente, tra chiesa ortodossa e chiesa cattolica. Pochi hanno notato come si sia fatto e si stia facendo tutto il possibile per evitare l’incontro tra questi due mondi cristiani. La suggestione di personaggi come il cardinal Bessarione (che compare nello studiolo del Duca di Urbino insieme a Vittorino da Feltre) e, in tempi più recenti, di filosofi cristiani come Nikolaj Berdjaev, che evidenziarono con forza la complementarietà esplosiva di questi due mondi separati sembra svanire nella dimenticanza…

 

In realtà, più che uno scontro tra ortodossi e cattolici, è uno scontro sul modo diverso di intendere il rapporto con l’Islam. L’ortodossia in questo non si sente capita e accettata. Ma ha anche diverse cose da farsi perdonare, come la collaborazione con il marxismo. Tuttavia, credo che ormai si sia capito da parte di tutti che senza i suoi due polmoni, quello occidentale e quello orientale, il cristianesimo non può che respirare faticosamente.

 

  1. Il suo ultimo sforzo sul “miracolo dei miracoli” è un reportage sull’irruzione del mistero nella storia e non conta che si parli del Seicento, tanto è stato documentato e “rivissuto”. In un mondo in cui tutto sembra profano, anche un certo modo di vivere la liturgia, ci si può ancora accorgere di un Presenza con la “P” maiuscola?

 

Sì, perché, pur sotto una apparenza di negazione, in realtà esiste un gran bisogno di questa Presenza. Si spera magari di trovarla altrove: nelle religioni orientali, nel vago spiritualismo della New Age… Ma la si cerca con il desiderio. Tutto questo deve scuoterci. In Gesù Cristo, Uomo Dio, è la pienezza della Verità. Non dobbiamo essere timidi, complessati, impauriti. E’ bastato riscoprire quel grande Miracolo, quel gesto di misericordia, di amore avvenuto nella Spagna del ‘600 perché molti gioissero di tutto questo (come vedo dalle molte lettere che ricevo) e perché tanti si rimettessero in cammino per un pellegrinaggio, fisico, concreto, verso quei luoghi. Là si è riaccesa una luce. Là il diaframma che ci separa dal Mistero si è fatto così sottile da essere quasi trasparente. E la gente si riavvia fiduciosa verso quella Presenza.

 

  1. A tutti credo interessi avere qualche anticipazione sul suo prossimo libro, a cui so sta lavorando…

 

A Dio Piacendo, il prossimo libro sarà quello sulla Risurrezione che da tempo ho promesso ai lettori, ma che per una serie di motivi non sono ancora riuscito a completare. Ma forse non è senza significato che esca proprio nell’anno giubilare. Senza voler enfatizzare questa ricorrenza, tuttavia non saremmo certo qui a ricordare la nascita di Gesù se ad essa non fosse seguita quella Risurrezione sulla quale tutta la nostra fede sta o cade.

Dai Quaderni valtellinesi, 70. http://www.quadernivaltellinesi.it/70.htm

 

 

Ridare speranza è la più urgente delle "azioni umanitarie" 

 

Dal sito http://www.vatican.va/jubilee_2000/magazine/documents/ju_mag_01051997_p-12_it.html

"Ma voi, chi dite che io sia?". Da quando fu rivolta ai discepoli, nei pressi di Cesarea di Filippo, la domanda non ha cessato di essere riproposta a ogni uomo. Perchè ciascuno - come bene vide Pascal - «deve dare una risposta, foss'anche negativa, deve scommettere». Sempre è stato così. La fede non è mai stata una sorta di bene ereditario, da passare di padre in figlio.

Tuttavia, fino a tempi recenti - almeno in alcune zone di alcuni Paesi - persisteva una "cristianità", un "mondo cattolico" che prometteva al credere di svilupparsi spontaneamente sin dall'infanzia, di rafforzarsi grazie all'esempio e alla catechesi e di perdurare sino ai sacramenti "del congedo" da questa vita. In nessun luogo, ormai, è più così. Oggi, la fede ritrova il suo carattere originario: di scommessa, appunto, di scelta personale, assediata da ogni parte da parole e da comportamenti discordanti. Il credere oggi sta divenendo, o è già divenuto, un atto anticonformista, una militanza di minoranze controcorrente.

Da qui, la necessità di una pastorale ecclesiale che non si limiti a commentare i contenuti del cristianesimo, ma ne indichi innanzitutto le ragioni. Tanti discorsi che, dando la fede per scontata, si limitano a trarne le conseguenze di natura morale, rischiano la totale inefficacia. In effetti: perché sforzarsi di vivere "da cristiani" se non si é più certi che quel Gesù sia davvero il Cristo e che le sue parole sono normative perchè vengono da Dio stesso?

È anche questo, sembra evidente, che il Santo Padre intende per "nuova evangelizzazione": un ricominciare da capo, con l'annuncio dell'apostolato lasciando ad un secondo tempo quella catechesi che è fruttuosa soltanto quando la "scommessa" sul Vangelo sia stata già avanzata e rinnovata.

Ed è pure a questo che mi pare si ispiri quel programma di avvicinamento al Grande Giubileo, con quelle sue tappe prescritte esse stesse da Giovanni Paolo II.

Chi abbia a cuore la sorte della fede - e, dunque della Chiesa stessa che, senza le sue fondamenta, non può reggere - dovrà impegnarsi perchè soprattutto questo tempo che ancora ci separa dal bimillenario "compleanno" di Gesù sia contrassegnato dalla ricerca delle ragioni che inducono i credenti a scorgere in Lui il Cristo, Il Figlio del Dio vivo.

È tempo di kérygma, di riannuncio chiaro e forte, senza il quale lo stesso dialogo (con il "mondo" o con le altre religioni) non avrebbe più senso. È tempo di riscoprire che, nella gerarchia evangelica dei valori, la carità più alta, quella che precede ogni altra è quella della verità. Rioffrire la Speranza, mostrare che è fondata, è la forma più benemerita e urgente di solidarietà; è la più preziosa delle "azioni umanitarie". Prima che di pane - parola di Vangelo - l'uomo vive di parola di Dio.

Che i duemila anni della nascita del Redentore ci aiutino a riscoprire questa realtà che rischiamo di dimenticare in una routine ecclesiale troppo spesso abitudinaria; o in un cristianesimo vissuto sì, ma che, senza esplicite motivazioni di fede, può trasformarsi in mera filantropia. La quale poco ha a che fare con la carità vera.

http://www.vatican.va/jubilee_2000/magazine/documents/ju_mag_01051997_p-12_it.html

 

"Ma San Francesco avrebbe pianto solo i morti."

colloquio di Marzio G. Mian con Vittorio Messori (forse il maggiore scrittore cattolico vivente).
Da "il Borghese" No. 26 del 8 ottobre 1997, pagg. 15-16


Il povero Francesco è stato via via travestito e deformato in buonista, pacifista, verde, ecologista, animalista. Si sono impadroniti di questa figura dei personaggi che nulla hanno a che fare con il Francesco storico. Si tratta di travestimenti liberal, cattocomunisti, ecologisti; manipolazioni di gente abituata alla natura addomesticata, al parco dove fare una passeggiata. Ma non sanno cosa fosse la natura allo stato brado e Francesco, come tutti gli uomini del Medioevo, vedeva la Natura come un nemico, un pericolo da domare. Il ruolo del santo non è quello di fare della poesia sul lupo, ma di rendere il lupo inoffensivo. Nel Cantico delle Creature, egli parla di "sora acqua", di "sora morte", ma non degli animali. Qualcuno addirittura lo ha travestito da vegetariano. In realtà, quando poteva, mangiava allegramente le bistecche. Alcuni suoi discepoli - sventurato l'uomo che ha discepoli - pensarono di fargli piacere insistendo per passare al vegetarianesimo. Francesco s'arrabbiò moltissimo e disse che essere vegetariano è una forma di lusso da chi può scegliere cosa mangiare; invece i frati devono mangiare ciò che la Provvidenza metteva loro davanti, comprese le bistecche. Quindi Francesco non è un animalista e non è un vegetariano. E non è neanche un pacifista. Ci si dimentica che fu cappellano dei crociati. Non seguì i crociati per indurli alla non-violenza. Anzi: prima della celebre presa di Damietta, sul delta del Nilo, egli esortò i crociati prima della battaglia perché facessero fuori più saraceni possibile, E si recò dal Sultano non per "restaurare un dialogo", come direbbe un prete politicamente corretto, ma lo incontrò per convertirlo. Quindi anche il Francesco pacifista ed ecumenico è un travestimento. È vittima della sua grandezza, proprio perché è uno dei maggiori testimoni cristiani. Un'altro travestimento è quello del Francesco contestatore, simbolo di quelli che non rispettano la gerarchia. In realtà fu un santo obbedientissimo, che rispettava ogni ordine, venisse dal Papa o dal vescovo di Assisi. Ciascuno nella Chiesa ha la sua vocazione, e lui non possedeva certo quella della carriera gerarchica. Nella Chiesa ci sono due ruoli: uno istituzionale e uno carismatico. Certamente Francesco ha svolto al meglio un ruolo carismatico, ma come vescovo sarebbe stato un disastro. Non bisogna poi dimenticare il mito romantico ottocentesco. Francesi, inglesi o tedeschi si recavano ad Assisi e restavano folgorati dagli affreschi della chiesa Superiore, in gran parte responsabili della creazione della leggenda del lupo, degli uccellini, degli alberelli...Ma il Francesco vero era tutt'altro che buonista. Egli è vittima del mito romantico e della sua grandezza. I mediocri hanno una sola lettura, sono i grandi che hanno tante sfaccettature. Anche questo dibattito squallido sulla priorità dell'arte o della vita offende la figura sublime di Francesco. Noi siamo vittime dell'incanaglimento di una cultura tardoilluminista che fa dell'arte un feticcio da adorare. Siamo di fronte alla sacralizzazione della cultura e dell'arte, basta vedere le folle adoranti in quei cimiteri che sono i musei. È una forma di idolatria di fronte all'arte. E così quando viene toccato un capolavoro come quello della chiesa Superiore è chiaro che l'idolatria si scatena. Come accade al devoto se sfregiano la statua della Madonna. Devo dire brutalmente che dovendo scegliere tra la morte di un bambino e il crollo irreparabile della basilica di Assisi non ho esitazioni: preferisco il crollo della basilica. Una priorità che viene dalla fede. E credo che in questo Francesco sia d'accordo con me. A un credente, infatti, interessa la gloria di Cristo, tutto il resto è destinato a sparire: alla fine della Storia non ci saranno più capolavori. Anche se non viene il terremoto, tutti i capolavori d'arte sono a rischio, perché in una prospettiva di fede verranno inceneriti. Il peccato maggiore è l'idolatria. Vadano alla malora anche gli affreschi di Giotto se questa può essere una condizione per salvare anche una sola vita umana. E credo che oggi anche Francesco parlerebbe così. (testo raccolto da Marzio G. Mian)

Da http://www.easynavy.com/wsgarbi/assisi.html


5/6 maggio 2001 : il papa in Grecia e nella moschea Omayade; chiede perdono per il sacco di Costantinopoli del 1204

 

UN GRANDE PERICOLO

di VITTORIO MESSORI  Corriere lun 7 maggio 2001

La misura è ormai colma: questo Papa sta esagerando. E il viaggio di questi giorni lo conferma. Giovanni Paolo II travisa il passato della Chiesa, rischia di esporla ad umiliazioni, ossequia i suoi persecutori, intende l’ecumenismo come un sincretismo, dove una religione sembra valere l’altra. Anche se, finora, non hanno osato uscire allo scoperto, sono questi gli umori, le frasi che si ascoltano in una parte della Curia romana, in sintonia con una rete di vescovi in cura d’anime.
Solo lo schematismo ideologico spinge ancora presunti «esperti di cose vaticane» a presentare Giovanni Paolo II come un alfiere della «destra restauratrice» e un avversario della «sinistra progressista». In realtà, chi conosce l’attuale situazione ecclesiale sa che, da tempo, è esattamente il contrario. Non ci sono più soltanto le schiere lefebvriane che lo accusano di modernismo, di eresia, di diffamazione blasfema della storia della Chiesa. Tra Congregazioni, Segretariati, Istituti della macchina cattolica crescono disagi e sospetti.
Il cahier de doléances
, già nutrito, si riempie ogni giorno di nuovi capi d’accusa. Non è un mistero che, quando Giovanni Paolo II parlò, in un concistoro, del suo desiderio di chiedere perdono per le «colpe» dei suoi predecessori, la maggioranza dei cardinali respinse l’idea. Il Papa, allora, andò avanti da solo: ma, al compiacimento dei «progressisti», si accompagnò il silenzio ostile di vasti settori ecclesiali, anche non tradizionalisti, ma preoccupati di salvaguardare verità e giustizia. Le due virtù, cioè, che sarebbero state violate - una volta di più - nelle nuove, recentissime scuse agli ortodossi per il sacco di Costantinopoli del 13 aprile 1204. In effetti, i motivi di perplessità non mancano, per chi sappia come andarono le cose. I baroni in partenza per la Terra Santa erano bellicosi ma squattrinati. Venezia offrì le sue galee per la traversata, in cambio - ovviamente - di una cifra adeguata. Quando la flotta fece scalo a Zara, si scoprì che i crociati non avevano i soldi per pagare. I veneziani, allora, proposero un accomodamento: se i crociati le avessero conquistato la città dalmata, erettasi a libero comune, avrebbero condonato il debito. Detto fatto: Zara fu presa. Quando il Papa, Innocenzo III, lo seppe, andò su tutte le furie: scomunicò i baroni, con una bolla di fuoco per questi cristiani «sedotti da Satana». Che davvero fossero «sedotti», lo dimostra il fatto che accettarono subito l’invito di un basileus di Costantinopoli di aiutarlo a scacciare dal trono un usurpatore. Con gioia dei veneziani (desiderosi di togliere ai bizantini il monopolio commerciale) la flotta fece vela per il Bosforo e anche la capitale bizantina fu conquistata e consegnata, senza danni né sangue, a Isacco II Angelo che la reclamava. Questa volta, però, fu quell’imperatore a truffare i crociati, non rispettando le promesse di generosa ricompensa. Fu così che, inferociti, i baroni riconquistarono la città e la misero orribilmente a sacco. Ancora una volta, Innocenzo II lanciò la scomunica, con invettive di fuoco: «Voi, difensori di Cristo, vi siete bagnati di sangue cristiano... che il castigo di Dio scenda sulle vostre teste». Come si vede, in questa brutta storia, la Chiesa, più che colpevole, fu vittima delle trame veneziane, di quelle interne bizantine, del temperamento ingovernabile delle orde crociate partite da Francia e Germania.
Perché, allora (si chiedono molti nel Vaticano stesso), perché chiedere scusa? Ma, al di là dei continui, sconcertanti « vestra culpa » rivolti a morti, sui quali, comunque, il giudizio spetterebbe a Dio solo, molti altri sono i motivi di scontento. «Il Papa - si dice - come cattolico privato può, anzi deve, accettare umiliazioni. Ma, come Papa, non può permettere che la Chiesa sia umiliata». E ciò sarebbe avvenuto, in questo viaggio, nell’accettazione delle condizioni - sgarbate e persecutorie - poste dagli ortodossi per una visita che non volevano. C’è poi il rapporto con i musulmani, che ha portato un Papa in una moschea costruita distruggendo una basilica cristiana. Si mormora, irritati, contro il suo intervenire su tutto e su tutti, cui si accompagna spesso il silenzio sulle persecuzioni che i cristiani subiscono nei Paesi islamici.
Quanto agli ebrei, non è stato certo dimenticato l’intervento di Wojtyla stesso, in contrasto con lo stesso episcopato polacco, per allontanare dai dintorni di Auschwitz un monastero di clausura e poi, per far rimuovere le croci che i fedeli vi avevano piantato. Non si dimentica che, a Berlino, il Papa omise di leggere il paragrafo che difendeva il suo predecessore Pio XII dalle accuse per i presunti «silenzi» sull’antisemitismo nazista.
Si potrebbe continuare per pagine intere. Sarebbe inutile; anzi, fuorviante. In realtà, i contestatori in nome della Tradizione della Chiesa, possono avere delle ragioni, almeno su alcuni punti. Talvolta la perplessità sembra giustificata. Ma tutto può trovare una spiegazione nella strategia di un uomo che è, al contempo, un realista e un mistico. Partendo, lucidamente, dalla constatazione che valori come l’unità dei cristiani, il dialogo tra le religioni, la pace tra gli uomini hanno mostrato di non progredire con mezzi ordinari, questo papa ha deciso di forzare le cose, di affidarsi al gesto profetico, alla prospettiva utopica, allo slancio del mistico. All’orgoglio del mondo, contrappone l’umiltà, magari anche l’umiliazione della Chiesa.
Alla chiusura degli altri, contrappone l’apertura, pur se persino eccessiva, da parte sua. Alla diffidenza risponde con la fiducia, alla grettezza con la generosità. Pronto, persino, a caricare sulle spalle della Chiesa colpe non sue, sperando che una tale magnanimità spinga altri ad ammettere anche le loro, di colpe. La semplicità del Vangelo a fronte della cautela diplomatica. Certo: una strategia rischiosa, che semina sconcerto nella «Catholica» stessa. Uno stile inedito di governo: ma a questo, un simile pontefice «escatologico», nutrito di spiritualità slava, può replicare che sono inediti - per opportunità ma anche per rischi - i tempi di quella barca che guida e della quale dovrà rendere conto.

Vittorio Messori