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Piumaggio, gioiello

di Franco Basso

 

Nella stanza più grande, dove a volte le era dato il permesso di vivere, per qualche tempo, trovò un giorno, svegliandosi, un piccolo ornamento, che non le apparteneva. La grande stanza le suggeriva un ricordo: "Ieri sera, a causa del buio, ho avuto paura della neve che risplendeva, così rientrai subito in casa, come se quella sottile inquietudine potesse fare un rifugio dei vasti armadi in penombra, o dei soffitti bassi e ricurvi." Ma non era accaduto la sera precedente.

Si conoscono gli altri, non sé stessi; esiste una conoscenza preferenziale di ciò che viene manifestato su ciò che viene sentito; (se di qualcosa si può dire che viene sentito).

Disse: "Ho trovato un piccolo ornamento."

"Non puoi averlo trovato."

"Sì, è vero, sono una macchina, sarei così felice di poter fare una passeggiata, una volta al giorno, se non mi fosse impossibile."

"Come l’hai trovato?"

"Camminando."

L’operatore umano sostava nella sua orbita attorno ad essa e, a intervalli irregolari, oscurava una fonte luminosa: fu questo a rivelarglielo. (Si rivolse a lui per un incoraggiamento.) Pensò: "Ma uscivo spesso, o solo di tanto in tanto, o sono uscita un’unica volta?" Non ricordava la neve. Ricordava la camera, bassa e opprimente.

Era disabitata. L’unica stanza in tutta la casa. La sua mente si ribellava a quest’idea, provava un senso di vuoto. Non ne conseguiva logicamente.

Abitata da qualcuno o qualcosa che le veniva nascosto.

L’operatore umano disse: "Portacelo."

Poiché, pensò, non potevano giudicare senza prenderne visione. E avvertì la tristezza, che la richiesta le ispirava; guardò già a lungo le pareti care attorno a sé, e si preparò a lasciarle. Temette di non potervi più fare ritorno.

Molti anni prima, aveva pensato: "Che farò, se dovrò uscire? O se qualcosa uscirà, dai grandi armadi? E come sarà la paura?"

Però quegli anni erano finiti. Forse non avrebbe mai dovuto parlarne loro, benché pensasse: "Rivelandogliela, otterrò almeno un conforto; il conforto di non dovere nascondere nulla."

Quando lo disse, cercò e scelse con cura le parole; per anni le meditò, attenta alla più piccola sfumatura. ("Ha dei ricordi?"

"Ricordi che non conoscevamo in lei.")

Della prima macchina pensante, si disse: "Mi rifiuto di leggere qualunque altra cosa sulla materia, che non sia di questa forma: fai questo e questo e otterrai una macchina che pensa."

"Ha ricordi che pongono domande alle quali non è facile rispondere." Così, uno di loro, lasciando nella stanza l’ornamento, (ma quando si cercò, non si scoprì chi fosse) volontariamente o involontariamente, forse lo perse, trovò la soluzione giusta.

Chiese: "Nella stanza, in cui ho avuto paura, c’era qualcuno?"

"Improbabile. Direi di no."

"E’ un ricordo molto remoto, al quale non posso aggiungere particolari. Non so se ho temuto una presenza o un’assenza; di questa stanza, invece, che pensavo mia, dicevo: non è l’assenza che temo."

"Qualcuno negli armadi."

"Eppure qui qualcuno è entrato."

Non capiva questo: perché le cose accadono o non accadono. "C’è la possibilità che sia tuo e tu l’abbia dimenticato." Ciò nonostante, conosceva ogni oggetto nella stanza. E salvo esserne stata lontana a lungo, cosa che, se fosse, avrebbe dimenticato, come avrebbe potuto non notarlo?

Mentre usciva avvertì un tintinnio. Alle sue spalle. Un uomo si chinò, per raccogliere un oggetto metallico.

"Era in metallo," pensò. Prima non l’aveva capito. Limite del tatto. Ma la percezione: "Questo suono, il suono del metallo," non le consentiva nessuna certezza.

"Lo hai portato?"

"Non l’ho più. Lo devo aver perso. Com’era? Era in metallo, credo. Ha emesso il suono di un oggetto metallico. Mi dispiace, credevo di poterlo restituire. Lo speravo. Ma l’ho perso a mia volta. Non avevo previsto questa circostanza, non so spiegare la ragione di tanta fiducia; qualcuno altro l’ha trovato e, se lo vorrà restituire, avrete sue notizie."

"E se era tuo, te lo faremo riavere."

Prima di uscire, avvertì un soffio d’aria fredda. Da una finestra aperta, pensò. Quando sua madre puliva in casa, apriva tutte le finestre; pensava: "Deve uscire tutto," e usciva. Spesso era già la bella stagione, se non era la bella stagione, era però una bella giornata. Giornata fredda d’inverno sulla quale splende il sole.

"Fa freddo. Non star fuori." ("Quante volte te lo devo ripetere?")

Ma non lo dice anche con le azioni, facendo entrare tutto, che tutto deve uscire?

"Sento freddo," disse.

"E’ la prima giornata fredda d’autunno."

Autunno, dunque. Se si fosse fidata della sua memoria, avrebbe detto: madre, inverno. Preparativi per un trasloco. Nessuno l’aveva informata.

Un fuoco acceso, ultima operazione, dopo le pulizie, rinnovava la certezza.

"Dove vi troverò?"

"Segui le indicazioni. Probabilmente sarò solo."

Indicazioni: "Ho avuto un momento di sconforto, in passato, al quale è seguita una lunga solitudine. Credevo di aver trovato un luogo sicuro, ma ho avvertito il cambio delle stagioni, e un’ipotesi dimenticata è tornata alla luce."

Li troverà presso gli alberi, forse, dove soffia il vento; gli alberi su cui la neve si era posata, nel buio, con uno strano chiarore, che non apparteneva alle cose, e che era diverso dalla luce. E quando sua madre l’aveva cercata, si era rifugiata in una grande stanza, che quel giorno non era stata pulita. Quel giorno non era stato pulito nulla. Nevicava.

"Non uscire."

"Esci, ora."

"Non fa troppo freddo?"

"Copriti." Non è una buona ragione per non uscire. Non nevica ancora.

"Ho ricordato tutto?"

Aveva ricordato, ma perse l’oggetto che l’aveva spinta ad uscire, benché si fosse aspettata che sarebbero stati loro, a raggiungerla.

"Rivelare loro i miei ricordi, non ha ottenuto l’effetto desiderato."

Lo trovò solo. Aveva un’aria cordiale, ma stanca.

Disse: "Ho alcuni ricordi. Non molti." ("Troppo pochi.")

("Dimmi. Cos’è il pensiero?"

"Qualcosa di bianco.")

Silenzio. Stanza bianca, illuminata. Raggi del sole morente.

"Brutti ricordi?"

"Credo di sì. Un ricordo, come la conferma di una sensazione di colpa. Per mia madre. Alcuni giorni fa, trovando un oggetto, provai un senso di sollievo, ero quasi felice. Pensavo: lo posso restituire."

Silenzio.

"Non è durato a lungo. Però ora lo conosco. Lei crede che si possa conoscere? Che sia utile?"

"Conoscere. Sì, avere conoscenza."

"Sapere d’essere stati felici."

"Sì. Dipende."

"Perché saperlo non provoca alcuna reazione. Al contrario, il ricordo della stanza ne provoca. Non avevo il coraggio d’entrarci. Solo una volta entrai, più per paura che per coraggio."

"Poi cosa successe?"

"Mi addormentai. Il mattino seguente mi risvegliai nella mia camera."

Nevicava.


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