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Questa sera c’è nebbia sui binari

di Benjamin Clanchy

 

Questa sera c’è nebbia sui binari. Si vede appena una decina di metri, ma non c’è da preoccuparsi, ormai il sistema è auto-regolante. Se non fosse per il bisogno della gente di sapere che c’è qualcuno al volante potremmo camminare anche senza macchinisti. Almeno così vorrebbero farci credere. Invece non è vero niente.

Prima di uscire di casa controllo sempre che le finestre siano chiuse a chiave, anche se abito al terzo piano del condominio. Da queste parti è un po’ di tempo che girano persone strane; nell’appartamento sotto il mio c’è sempre un via vai di gente a tutte le ore, sempre persone diverse. So anche che un paio di mesi fa c’è stato un periodo in cui c’erano dei furti nei condomini qui vicino. Non è stato sempre così. Dieci anni fa si stava molto più tranquilli. Il nuovo Questore ne saprà qualcosa. ce l’ha detto tondo sui giornali. Oltre alle finestre chiudo anche la porta alla mia stanza, è un’abitudine che ho preso da quando ho cominciato ad affittare le due camere in fondo a studenti universitari; per carità, bravi ragazzi, ma gli studenti, effettivamente, hanno spesso problemi di soldi, non si sa mai. Due ingegneri ho quest’anno, vanno a casa il venerdì sera e poi tornano o domenica sera o lunedì mattina presto. In treno.

I ragazzi sono disordinati, sembra quasi che buttino la roba a caso quando ritornano la sera, ma il disordine finisce alla porta delle loro stanze. Mi sta anche bene così, in fine dei conti lo spazio appartiene a loro. Non li faccio invece usare la cucina, figuriamoci il casino che ci farebbero. Comunque si mangia bene in mensa, da quanto ho capito. Io invece sono uno a cui piace un ambiente molto regolato. La pulizia è fondamentale, come lo è l’ambiente tranquillo. È per questo che cerco di scoraggiare gli ospiti dei ragazzi - le presenze estranee in casa mi mettono sempre a disagio. Sai, uno che prende una stanza in affitto all’inizio è sempre un estraneo; porta abitudini strane, ha orari strani, perfino ha uno strano odore, magari anche a causa del dopobarba che si mette. Ma dopo un periodo di tempo di aggiustamento ci si conosce, e non ci sono più tanti problemi. Invece gli ospiti, se prendono l’abitudine diventano una presenza estranea quasi stabile in casa. Sono presenti ma non appartengono al luogo, ed a questo non riesco ad abituarmi. Comunque, finora, di grossi problemi non ne ho avuti.

Esco di casa che sono appena le undici, ma di gente in giro non ce n’è. Le mani le ho ficcate nelle tasche del giubbotto al riparo dal freddo che mi entra anche nelle ossa. Stasera vado a piedi perché ho voglia di camminare un po’. Passando sul cavalcavia mi fermo per qualche minuto a guardare le macchine ed i camion che tirano lungo la Serenissima. Le macchine passano da queste parti nel loro viaggio altrove. A quest’ora c’è poco traffico e sembra molto diverso dal fiume intasato di veicoli che ci si riversa durante la settimana fra nuvole di fumo nero e le bestemmie della gente che guida. Le bestemmie ormai al posto degli scongiuri, che è passata la paura dei sassi. La gente non ci pensa più a guardare in su quando passa sotto - l’autostrada è ridiventata il semplice condottiere che è sempre stata.

Acceleriamo fuori da Milano centrale. Ritardiamo già di cinque minuti, ma non sarà un problema - potremo recuperare nei tratti successivi, basta che non saltino le coincidenze. Le carrozze sono belle piene. Passiamo sotto un cavalcavia, già andiamo forte, forse un po’ troppo, ma bisogna raggiungere Bologna prima delle undici; quando un treno ritarda crea degli effetti imprevedibili su tutta la rete.

Attraverso la Stanga e proseguo giù per via Ognissanti. Cammino sul bordo della strada e le macchine quasi mi prendono di striscio. Ogni tanto suonano o urlano qualcosa dal finestrino. Non ci faccio tanto caso - la gente quando va in macchina diventa prepotente, addirittura deficiente. Da queste parti c’è sempre vita di sera, vedo un mucchio di biciclette fuori da un locale, la maggior parte dipinta e ridipinta in colori orribili per camuffare un attimo la loro provenienza. C’è un giro assurdo di biciclette rubate in questa città. Ma chi è che se le ruba tutte? Ma questa è una domanda retorica, si sa chi è che combina i malfatti di questa città: è l’altro, l’estraneo, colui che non appartiene al luogo. Il buttafuori-fuori del locale gira con la torcia, intimando a quelli che escono di fare meno chiasso che c’è gente che abita da queste parti. Mi viene di entrare, di scendere in questo locale sotterraneo pieno di vita. La luce bluastra dell’entrata mi disorienta un attimo e poi mi ci abituo. L’entrata è tutta intasata per via della gente che discute con i buttafuori-dentro.

>Ma se le lascio un documento, non è uguale?
>Ormai è diventato quasi prassi questa storia. No. Fatti la tessera.
>Ma ho degli amici dentro che mi aspettano.
>Va be’, ma la prossima volta fatti la tessera.
>Grazie.
La ragazza sparisce tra la folla. Passo davanti al banco ed uno mi si piazza davanti.
>Cosa?
Gli domando.
> La tessera.
La tessera? Ma quale tessera?
>Cosa?
>La tessera, la tessera arci.
Vuole una tessera. Vuole che io gli mostri qualcosa che dimostra la mia appartenenza a questo luogo, a questo popolo sotterraneo. Mi viene l’ansia, che' non mi sento assolutamente di appartenere.
>Guardi, lasci stare.
Mi giro ed esco, ricevendo un’abbagliata negli occhi dalla torcia del buttatuori-fuori.
>Piano, piano.
>Sì, sì, lo so. C’è gente che ci abita da queste parti.
>Bravo, bravo.

Per strada di nuovo, e aggiro il solito mucchio. Arrivo ad un incrocio e invece di proseguire dritto per il centro volto a sinistra, lungo Facciolati, ignorando gli altri che ci si aggruppano da queste parti nelle ore notturne.

C’è sangue sul binario. Il Pendolino è uscito alla curva. Le prime quattro carrozze sono accorciate, spezzate, di traverso sui binari. C’è l’uomo con la scorta che scende da uno dei vagoni rimasti in piedi.
>Ma è stato ferito? C’è sangue sulla sua cravatta, Onorevole, si sente bene?
>Sì, sì, ma non mi son fatto niente, saranno macchie di sugo - pensa a quegli altri poveracci.
>Grazie a dio che non si è fatto niente, ma com’è possibile?
>Per fortuna stavo nel vagone ristorante a mangiare invece di stare al mio posto.

Via Sografi. Hanno tolto i parcheggi qui per costruire una nuova pista ciclabile. Finalmente un po’ di razionalità’ fra il caos che accompagna ogni spostamento in questa città. Forse un giorno riusciremo a respirare anche al di fuori dei parchi - ma no, questo richiederebbe un’inaccettabile sottomissione dell’individuo al bene comune. È per questo che non faranno mai il tram. Vado a vedere i cartelli di lavoro. La pista sarà anche fatta bene, ma quando vedo una cosa del genere vado sempre a vedere i cartelli, quelli che dicono quanto costa l’opera, chi l’ha progettata - sai, anche se è da poco che i magistrati hanno cominciato a rompere, è da sempre che si sa quante porcherie combinano quelli che dovrebbero stare a tutelare i bisogni della gente. Quanti sono quelli che si mettono a tavola ad abbuffarsi con la roba più buona, invece di stare al loro posto.

I morti, quanti sono? Chi sono? Mo è chiaro, sono sempre quelli. La gente di servizio, quelli che stavano nelle prime carrozze. Di chi è la colpa? È importante a questo punto? Certo che è importante, per prima cosa bisogna evitare che succeda di nuovo. O forse è anche più importante sapere dove tirare i sassi. Chiaramente si parlerà di errore umano. Non sarà che i macchinisti si saranno fatti qualche grappino di troppo alla mensa prima di partire? Mi sembra un’ipotesi ragionevole, perfino logico. Anzi, necessario. Non sarà una conclusione un po’ affrettata?

Ormai comincio a sentire la stanchezza. Vorrei tornare a casa. Invece di andare per Falloppio, giro a sinistra giù per Gattamelata salutando, come sempre, le ragazze che, come sempre, mi ricambiano il saluto con degli sguardi vuoti e le bocche cucite. Attraverso Facciolati e mi dirigo verso Prato della Valle. Il Prato è tranquillo stasera. Nei periodi in cui la presenza della polizia si fa sentire gli altri emigrano verso i vicoli dalle parti del Santo. Su per Belludi arrivo in Riviera Businello. Davanti alla questura c’è una folla di gente in una specie di fila disordinata. È possibile che si è fatto così tardi? Sì, sono già le sei di mattina e sembra un assedio. È qui che la città incontra l’altro. Non in fabbrica, o nei campi, o in gita turistica, ma in quanto folla assediante, nella minaccia. Se non fosse già per caso che costringemmo loro ad aggregarsi in questo modo folle, a quest’ora folle, in questo luogo assurdo, sarebbe logico inventarselo. Anzi, necessario. Ma sarà proprio un caso?

Decido di prendere l’autobus, e mentre aspetto osservo la folla davanti alla questura. C’è chi arriva tardi e si piazza direttamente in capo alla fila, facendo finta di niente. Si sollevano delle voci di protesta, ma nessuno ha voglia di fare rissa, proprio qui in modo particolare. Mi ricorda la scene in segreteria di quando studiavo, tanti anni fa, prima che introducessero il sistema dei numeri, o quando andai in vacanza in Svizzera in un autobus di lusso pieno di italiani che si fermò ad un autogrill per strada, e di colpo mi pare che questi altri con il loro modo di fare poco comprensibile non siano tanto diversi. La loro diversità sorge dalla loro estraneità, non vice versa. Siamo noi che abbiamo la stranezza negli occhi con cui guardiamo, con i quali accomuniamo diversità e colpa in una sintesi cieca.

Arriva l’autobus e lo prendo fino alla stazione. Le edicole sono già aperte, e portano le notizie della tragedia del Pendolino. Non ci sono ancora ipotesi sulla colpa, ma già sento che cadrà probabilmente sull’ormai consueto errore umano. All’improvviso mi sento più stanco. Le Ferrovie dello Stato come lo Stato, come la città. Incapace di guardarsi in faccia e riconoscere la colpa come propria. Prendo il numero nove fino a casa dove mi butto sul letto senza togliermi le scarpe e comincio subito a sognare. Non sento nemmeno gli ingegneri che rincasano, lamentandosi per il ritardo del treno. Ormai sono altrove.


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