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LA CLESSIDRA ATOMICA

di Umberto Fasolato

 

Cosa significa il gesto del perito nell'apertura di The adjuster? Il primissimo piano sulle dita attraversate dalla luce scorre in una breve panoramica da sinistra a destra. La m.d.p isola il gesto dal corpo e dallo spazio, indicando esplicitamente la tattilità come l'idea fondamentale dell'immagine. Quando l'inquadratura si estende in un piano medio del protagonista, il perito riprova ciò che abbiamo appena osservato: fa scorrere sotto la sua mano il fascio luminoso di una lampada tascabile, osservandone gli aloni rossi intorno alle dita.
Non capiremo il senso di questo gesto enigmatico fino al termine del film, quando il perito alzerà la mano per schermarsi dal fuoco che incendia la sua casa, trasformata in un set cinematografico. Il fuoco acceca la visione, la mano restituisce al protagonista la memoria fino a recuperare lo strato "iniziale" dove il perito aveva incontrato la propria compagna e la famiglia, che con la sua condotta ha disintegrato durante tutto il film. Un dolly fa riapparire il primo incontro, disegna il primo strato, l'unico necessario, il più profondo, ma non per questo il gesto, che ha riottenuto la propria collocazione temporale,può essere spiegato. Il gesto di interporre la mano tra l'occhio e il fuoco non ha alcun valore simbolico, ma appare come "porta aperta" della memoria.
La coazione a ripetere è il fondamento dell'agire di tutti i protagonisti in The adjuster: Hera registra le parti censurate dei film che puntualmente ripropone alla sorella, Noah celebra con tutti i sinistrati il proprio rituale consolatorio, Bubba allestisce set cinematografici senza macchine da presa per la recita della propria amante.
Tutti questi personaggi, seguiti con estremo distacco dalla m.d.p di Egoyan, convergono alla casa incendiata del perito, che si scopre per la prima volta sottoposto al suo stesso rituale. Stavolta il gesto involontario e quasi accidentale dell'assicuratore è l'unico capace di interrompere la ripetitività di tutti i rituali, puntualmente seguiti dalla macchina da presa che con un dolly si abbassava sui sinistrati intenti a contemplare il fuoco.
La ripetizione consente ad Egoyan di strutturare la storia con serie di elementi e gesti ricorrenti che modulano sempre una stessa situazione, convergendo all'origine del comportamento stesso. Mentre il rito celebra il mistero dell'origine, il rituale ripete meccanicamente un gesto o un comportamento che tenta di scioglierne l'enigma, credendo di decifrare l'esperienza, assegnando ad ogni azione un senso, magari anche soltanto registrandola.
Hera e Noah escono dal circolo vizioso del rituale quando perdono gli strumenti dell'esperienza che credevano privilegiata: la videocamera e la casa. Il trauma della donna scoperta è un grido di rinascita, il gesto di schermarsi dalla luce accecante restituisce la memoria al protagonista, recupero inutilmente atteso nei precedenti sinistri, dove il perito, da celebrante, officiava la consolazione.
C'è un solo modo per entrare nel locale notturno Exotica, seguire una carrellata laterale che si innoltra, quasi volesse imitare il verso della scrittura, nella foresta di felci, palme, luci morbide e piante tropicali, disegnate e disposte con una cura illusionistica durante tutto il tragitto oculare. Seguiamo il dolce suono orientale della musica che si sostituisce a qualsiasi effetto d'ambiente, la "foresta" è perfettamente immobile, si muovono soltanto i riflessi luminosi creati dall'acqua di una fontana, disposta proprio al centro di questo ambiente così meticolosamente ricostruito, già pienamente "falso" ai nostri occhi.
L'inizio di Exotica è un tempo per osservare e comprendere che lo spazio dove siamo inseriti imita un tranquillo angolo di paradiso terrestre, la virtualità di un luogo originario si sviluppa sotto i nostri occhi in maniera sfacciatamente attuale.
Dopo questa carrellata, Egoyan inizia la vicenda del commerciante di animali esotici, che sta trafugando delle uova di pappagallo; la sequenza ci presenta un tema visivo interessante: lo specchio "trasparente" che permette di guardare senza essere visti. Questi specchi falsi e inattesi sovrabbondano nel locale notturno dove finiranno tutti i protagonisti.
All'Exotica ogni ballerina esiste e si manifasta solo come immagine intangibile (è l'esclusività del locale concentrare la tattilità negli occhi); nello stesso tempo, per i praticanti del rito della virtualità, il locale riserva un soggiorno al di là degli specchi trasparenti. Questa posizione rende l'intero ambiente e chi contiene del tutto virtuali, pure immagini guidate da Eric che scompare alla vista e si manifesta soltanto come pura e onnipotente voce-guida del programma erotico.
Ogni personaggio di Exotica possiede un'esistenza virtuale riprodotta apparentemente da un unico flash back. I ricordi sembrano appartenere al revisore dei conti, che frequenta assiduamente l'Exotica per contemplare l'apparizione della figlia morta attraverso le spoglie della sua baby-sitter Cristina. Il revisore entra nel mondo virtuale del night dove prendono vita le ombre dei suoi ricordi, ma i suoi "parti cerebrali", che illustrano le ricerche nel prato, hanno come protagonisti Eric e Cristina; la ricerca si svolge dal loro punto di vista, inaccessibile al revisore, ma convergente sul corpo della bambina.
Queste sequenze iniziano come flash back, ma il ricordo si estende in un territorio della memoria che non appartiene soltanto al contabile, la vicenda nel prato è segnata dalle esistenze passate (e quindi virtuali) dei due ragazzi. La memoria è una forma del tempo più complessa del ricordo, Egoyan non la veicola ad un soggetto che ricordi.
Per la prima volta dopo Kalendar, Egoyan produce l'esistenza virtuale dei personaggi senza adoperare il filtro dell'immagine video, senza esibire dispositivi pronti a creare un'immagine con cui i protagonisti dialoghino in stato ipnotico. Scompaiono le videocamere, i registratori, gli schermi televisivi, i monitor protagonisti del racconto in Black Commady, Speaking parts e in Kalendar, dove Egoyan stesso, nei panni del protagonista, attende dalla manipolazione del nastro la rivelazione del distacco che scopre inafferrabile.
In Exotica, scomparsi i dispositivi che "ipnotizzavano" lo sguardo indicando esplicitamente l'esistenza virtuale dei protagonisti nel passato o in un presente inacessibile, spesso inautentico, il virtuale è parte integrante del tempo che scaturisce dall'immagine cinematografica. Il circuito attuale-virtuale è tanto più problematico quanto più le due condizioni coesistono nell'immagine e il virtuale non è relegato a comprimario dell'attuale, come accade nel flash back.
In Exotica la memoria percorsa dai due ragazzi e innescata dal contabile converge al corpo morto della figlia nel ricordo e, nello stesso tempo, alla sua riattualizzazione praticata ogni sera da Cristina sotto gli occhi del revisore.
Cristina perde la propria attualità recitando consapevolmente nel presente dell'Exotica la parte della figlia perduta, ma anche nell'immagine-memoria del prato essa vive simultaneamente un'esistenza virtuale (in quanto passata) e attuale (la ricerca nel prato non è un ricordo di Cristina, la sua temporalità è sganciata dalla rievocazione soggettiva).
Quale Cristina dobbiamo seguire? Egoyan non intende "sintetizzarle" riducendo la seconda, appartenete al passato, alla prima, che si esibisce all'Exotica, ma indica l'origine di questo circuito attuale-virtuale nell'ultima sequenza del film, quando Cristina baby-sitter era oggetto delle attenzioni del revisore.
Per condensare la propria duplicità, Cristina da vita alla bambina morta, rendendosi immagine intangibile per il revisore, ma questa pratica la allontana da Eric, a sua volta sdoppiato nella voce suadente, che conduce i programmi del night, e nel padre del bambino atteso dalla padrona dell'Exotica. Quest'ultima staziona sempre nella parte più interna del locale dove contempla e accarezza il proprio grembo, invitando i due ragazzi a seguire il suo esempio, è un circuito attuale-virtuale risolto con un'immagine-tatto.
Nella parte più esterna del night, quella contraddistinta dall'azzurro, la virtualità dell'immagine è garantita dall'intangibilità: solo l'occhio può contemplare e sfiorare senza modificare le figure che lo circondano, come operano visivamente le frequenti carrellate sulle ballerine tra i tavoli.
Nel locale notturno si concentrano le esistenze virtuali-attuali di tutti i protagonisti: Cristina è la ragazza di Eric, ma anche l'immagine intangibile, senza corpo ma con tutte le sembianze esteriori (soprattutto la divisa scolastica) della figlia morta del revisore, che la riproduce intorno a sé utilizzando anche la nipote, che reincarna il ruolo di Cristina come baby-sitter.
Il contagio della virtualità si estende a tutta l'attualità del contabile: la nipote, per esempio, è spinta a suonare il flauto dallo zio mentre un dispositivo elettromeccanico l'accompagna al piano forte, quasi riproducesse la figlia perduta, che incessantemente rivede in una sbiadita immagine video insieme alla madre, mentre suonano il piano a quattro mani.
In queste sequenze l'immagine chiave è ancora caratterizzata dalla tattilità: la figlia in abito scolare avvicina la mano all'obiettivo ostruendo la visione e aprendo lo sguardo alla memoria come se si trattasse di un processo di pensiero autonomo, non un ricordo soggettivo e familiare, ma un'immagine che ottiene il suo valore dallo scambio incessante di rapporti con le altre coesistenti, che mostrano gli altri protagonisti impegnati nel recupero della propria integrità.
Kalendar si apre con un'inquadratura fissa a colori su un edificio religioso armeno; l'unico evento che questo quadro registra è l'arrivo di un'automobile, mentre suona una campana. Il vero protagonista di questa apertura è il paesaggio, la linea del colle alla cui sommità è disposto l'edificio religioso, quasi a sottolinearne la cima. Il controluce contribuisce a fonderlo con il paesaggio circostante la cui profondità e pendenza è definita proprio dal movimento arrancante della vecchia automobile. L'immagine che ho descritto potrebbe sembrare una cartolina illustrata e infatti il compito del protagonista, impersonato dallo stesso Egoyan, è di scattare delle foto per illustrare un calendario.
Per evitare che l'immagine scorra sotto gli occhi dello spettatore senza sollecitarne lo spirito critico, Egoyan dispone un quadro, un piano fisso che ostenta la propria immobilità senza assecondare i protagonisti e l'azione, relegati al fondo dell'immagine. Il paesaggio non è asservito allo scorrere dell'azione o del racconto, ma è offerto allo sguardo dello spettatore tentando di interpretare, inquadratura dopo inquadratura, lo spirito delle costruzioni fotografate. E' proprio la scelta di fissare la m.d.p come una macchina fotografica che consente ad Egoyan di modificare la forma del tempo incidendo sulla percezione dell'immagine.
Nel prosieguo del film, sarà subito chiaro che queste immagini, seppur trasformate in foto per il calendario, sono la memoria dove è immerso anche il protagonista; il tempo che noi credevamo presente è anche un ricordo, potremmo dire che si tratta del presente del passato, cioè la memoria. La manipolazione del tempo è mostrata anche sulle immagini video, girate in Armenia durante il tour fotografico; questo passato, che crediamo lineare, che scambiamo per un flash back al limite del documentario, è ben presto arrestato, riavvolto o accelerato in avanti da un videoregistratore che si trova nell'appartamento del protagonista. Neppure le cene che ritualmente si ripetono in quel set sono puro presente: i movimenti degli attori ripetono per dodici mesi la separazione avvenuta in Armenia, paese ora perfettamente riprodotto sui cliché del calendario.
In Kalendar, Egoyan sperimenta la frammentazione della storia, preferendo alla successione dei quadri la loro giustapposizione, sviluppandone una lettura "verticale" che complica la forma del tempo: spesso sulle immagini armene ascoltiamo la musica dell'appartamento, o le voci delle invitate o, viceversa, la voce di Egoyan circola liberamente dal presente canadese al passato armeno.
In ogni caso l'immagine costruita da Egoyan non restituisce soltanto il proprio contentuto, ma anche l'intero processo con cui è stata "scritta". Tutte le scelte compositive, a partire dall'inquadratura fissa, per poi passare all'evidenza dell'immagine video, del mixaggio e terminare nel montaggio, che giustappone i singoli quadri piuttosto che concatenarli, si mostrano nell'immagine. Senza specchiarsi narcisisticamente nell'evidenza del dispositivo, le immagini di Kalendar bucano il cliché, l'abitudine visiva dello spettatore cinematografico, costringendolo ad assistere all'intera nascita dell'immagine, corrispondente ad una vera e propria sorgente del tempo.
Il tempo non preesiste all'inquadratura, ma nasce dal nostro sguardo svincolato dalle "regole" della visione, prima fra tutte quella della successione dei quadri nella sequenza. Il tempo non è più la somma delle inquadrature o delle azioni dei protagonisti, non ne abbiamo una percezione indiretta, frutto di un processo esterno all'immagine, ma dall'immagine stessa. Frammentare non significa sconvolgere una struttura narrativa per darle un aspetto eterogeneo o diverso da quello di una successione cronologica dei fatti, perché in questo modo l'immagine recupererebbe il proprio fondamento sempre e soltanto riferendosi alla forma primitiva, ma piuttosto significa generare la forma del tempo da ogni componente (inquadratura, sequenza, etc.), lasciando trasparire lo scorrere del tempo e soprattutto la sua genesi, esperienza che assumerà l'aspetto della memoria, del ricordo puro.
Ogni inquadratura restituisce allo spettatore la fatica di osservare senza la necessità di sacrificare questo processo al senso, al contenuto dell'immagine. Da questo punto di vista, la carrellata iniziale di Exotica e l'inquadratura fissa di Kalendar sono equivalenti; questi due modi di esercitare lo sguardo della macchina da presa trascurano volutamente l'azione e i protagonisti per concentrarsi sullo spazio e i modi della visione; non aprono il racconto da un fatto, ma preparano lo spettatore ad un evento (il presente del futuro, l'attesa). Voglio sottolineare l'evidenza continua della scrittura cinematografica, che non consiste soltanto nel notare la carrellata, il dolly o la panoramica (sono solo degli strumenti per lo sguardo), ma piuttosto nell'osservare come il movimento diventi mutamento, una trasformazione che non spetta esclusivamente al moto o all'azione (immagine-movimento), ma piuttosto allo sguardo, così come accade nei piani fissi di Kalendar e nelle carrellate di Exotica.
Le falde di passato create in Exotica e il continuo scambio attuale-virtuale, che i protagonisti accettano solo nel presente, senza recuperarne la memoria e riducendo quindi il loro essere nel tempo ad un vuoto e ripetitivo rituale, mostrano alla fine la loro convergenza-origine nella visione del cadavere della bambina. Resterà ancora da svelare l'ultimo circuito, quello che spingeva al travestimento Cristina, Egoyan mostra un immagine-ricordo senza una coscienza che la evochi, così Cristina recupera la propria virtualità originaria, in un presente che scorre "guardando" la memoria alle proprie spalle.
La memoria è l'ordine degli strati che vengono attraversati dalla vicenda senza che sia necessaria una loro contiguità o successione, l'immagine-ricordo è un'attualizzazione della memoria, ma diventa immagine-tempo quando ci installa in un passato puro, che ne richiama la virtualità originaria e non la dipendenza da un presente che la evochi.
La macchina da presa ne Il dolce domani sembra voler costruire degli strati coesistenti di tempo e consentirne l'esplorazione, senza mai fornirci una mappa o un punto di riferimento stabile per il nostro cammino. Per comprendere l'intera comunità, accecata dal bianco e sepolta nella neve, le inquadrature si allontanano dall'azione e dai protagonisti, come in Kalendar il paesaggio è parte integrante dell'immagine, la linea dell'orizzonte è permanentemente "chiusa" da un nastro invalicabile di bassi rilievi innevati. L'organizzazione della memoria trova così le proprie tracce nell'ordine dato al paesaggio dalla ripresa, che spesso si fa superficie piatta, diagramma dell'evento e non soltanto ricordo individuale appartenete a Dolores, l'autista dell'autobus.
Lo sforzo di costruzione della memoria spetta alla scrittura cinematografica e alla sua evidenza: le panoramiche, i dolly e le riprese aeree superano i limiti "esplorativi" dei singoli protagonisti organizzando falde che eccedono il loro ricordo. Una delle caratteristiche di questa forma del racconto è quella di esaurirsi soltanto dopo aver compiuto tutti i tentativi di esplorazione.
Il percorso critico nell'ultimo lungometraggio presenta una prima difficoltà nel delimitare le sequenze; il prologo, per esempio, contiene in realtà "tre inizi" temporalmente distinti: l'esplorazione dell'interno di un cottage, dove è raccolta in un letto la famiglia "originaria" composta dei tre elementi essenziali (padre, madre e figlia), l'ingresso in un autolavaggio del protagonista principale (l'avvocato Mitchell) e la scoperta dell'autobus, quasi fosse l'apparizione di tutto l'evento tragico ad esso legato, e infine la presentazione di Nicole e del padre Sam, che le sta preparando un palcoscenico dove esibirsi durante la fiera; in questo contesto giunge la terza protagonista, l'autista Dolores con l'autobus carico di bambini.
La prima carrellata laterale è inizialmente aderente al pavimento, quasi volesse "leggere" un messaggio scritto dalle nervature e dalle connessioni dell'assito, poi, senza soluzione di continuità, questo scorrimento tattile dell'occhio della macchina da presa si alza e mostra i corpi nudi e addormentati, "primordiali" in questo punto del film dove sappiamo soltanto di entrare nella finzione.
Lo stacco di montaggio interrompe l'esiguo flusso di informazioni, la carrellata ci ha installato in una falda non per raccogliere informazioni da svolgere in seguito, ma per percepire il tempo come esperienza di una forma che conserva intatta la propria virtualità.
Ciò che questo punto di vista offre non è soltanto la forma originaria del corpo (umano e familiare), ma anche l'immagine del vuoto irrapresentabile, che consente alla macchina da presa di spostarsi per tracciare la rappresentazione stessa. In quest'unica inquadratura, lo scorrere del tempo è affidato al movimento di macchina, l'occhio mobile stabilisce il ritmo dello sguardo e la complessa esperienza della sua unità.
Da questo primo strato "saltiamo" nel secondo, il verbo è più che giustificato, infatti non ci sono apparenti connessioni tra ciò che abbiamo appena veduto e l'autolavaggio dove stiamo entrando trasportati nella macchina insieme al protagonista; tuttavia il movimento dell'auto assomiglia ad un carrello, tanto più che il parabrezza è una sovrainquadratura dello schermo panoramico adottato per il film, e la musica, costruita con strumenti medievali, continua ininterrotta dalla sequenza dei titoli di testa, come se provenisse dallo stereo dell'auto.
Nell'autolavaggio il buio sembra sostituire il vuoto sospeso del quadro precedente: solo le luci dei fari, che filtrano tra le spazzole, rischiarano l'interno dell'auto fino a sbiancare l'intero parabrezza.
Dal vuoto del cielo grigio di pioggia inizia un dolly che scende su un vasto terreno preparato per una fiera, distinguiamo dei tendoni, ma soprattutto una ruota panoramica e un palco dove si esibisce una giovane cantante, la figura che la guarda compiaciuto è il padre. E' il terzo strato, aperto di nuovo con un'inquadratura che non privilegia un elemento drammatico, ma che ingloba problematicamente lo spazio e i protagonisti in una modalità di sguardo del tutto simile alla carrellata iniziale. Nel prosieguo della sequenza bisogna notare un particolare interessante: il telone che chiude il palcoscenico rappresenta la cantante (Nicole) come un Giano bifronte, in un'unica testa convivono due volti che non si possono guardare e che sono perfettamente speculari. Quadri di questo genere si trovano nella prima casa visitata dall'avvocato, nell'abitazione degli Otto e sembrano gli unici oggetti artistici riconosciuti dalla comunità.
L'inizio di questa sequenza ci sorprende di nuovo come i precedenti: il tempo interno mostrato e svolto dall'immagine non si collega né alla prima carrellata, né alla vicenda dell'autolavaggio.
Questi tre inizi distinti nello spazio e nel tempo coesistono nel "prologo" de Il dolce domani e innescano altrettante vicende che si troveranno annodate intorno all'oggetto principale del film, l'autobus che accompagnava i bambini a scuola. Lo scopriamo insieme all'avvocato nel garage inaspettatamente deserto, dopo essere uscito dal capannone, entra in una buia rimessa, pedinato dalla macchina da presa in semisoggettiva finché da una finestra (ancora una sovrainquadratura!) ci appare illuminato il cadavere "sospeso" del veicolo. Il protagonista dell'immagine sembra un veggete: il solo contatto visivo con l'autobus richiama le grida dei bambini sepolti nel ghiaccio.
Niente più ci è dato sapere, per ora, perché la strada o per meglio dire il "passo", impostoci da Egoyan ci riporta nuovamente alla fiera, e ancora con un dolly apriamo un nuovo strato simile al precedente: domina la figura del tendone per l'esposizione degli animali domestici e una ruota panoramica su cui si chiuderà la sequenza dove compaiono l'autobus, i bambini e la conducente Dolores, terza ed ultima protagonista.
Abbiamo viaggiato nel tempo, ma la nostra macchina non ha proceduto all'indietro su un calendario di mesi o di anni, il montaggio ha penetrato almeno tre falde o strati di tempo "coesistenti": la famiglia distesa sul letto, l'avvocato imprigionato nell'autolavaggio che scopre l'autobus e l'autobus in azione nella fiera, insieme a Dolores, Nicole e Sam, prima dell'incidente.
In questa parte dell'opera, l'ordine del "prima" e del "poi" è evidente se consideriamo la figura dell'autobus, ma resta senza alcun riferimento l'immagine della famiglia unita sul letto; il montaggio raccorda le due serie d'immagini, ma nello stesso tempo mostra la loro completa autonomia spazio-temporale. Scopriremo soltanto nel cuore dell'opera che si tratta di un ricordo ricorrente dell'avvocato, esso riemerge ogni volta che Mitchell ritorna dalla figlia Zoe.
A questo punto però avremo già compreso che il film si svolge su piste temporali distinte, anche se comunicanti; l'avvocato, per esempio, appartiene al presente dell'aereo e ricorda il passato nel cottege, ma non racconta mai la vicenda dell'autobus, l'inchiesta che l'ha visto protagonista due anni prima.
Nella falda che appartiene a Dolores e a tutto il paese che ha perduto i figli nell'incidente, l'avvocato Mitchell è un pifferaio magico consacrato dalla comunità per sollevarla dal dolore. In uno "strato" di tempo l'avvocato rievoca il salvataggio di Zoe, ma in un altro, collocabile temporalmente almeno due anni prima, egli è la spia del malessere inconfessato di un'intera comunità.
Quel che può sorprenderci è il distacco completo dei due aspetti, se anche riusciamo a "collocarli nel tempo" (prima l'indagine e poi il viaggio in aereo), in verità non sono affatto concatenati nella storia raccontata da Egoyan, possiamo dire che sono "giustapposti" dal montaggio che salta dal paese immerso nella neve all'aereo, ma le due vicende rimangono distinte, sembra che la memoria di Mitchell manchi dell'episodio.
Soltanto nel finale otteniamo il congiungimento delle due falde, "quasi per caso" la nostra ricerca si imbatte nella voce di Dolores che conduce un autobus pubblico. Mitchell la riconosce come in una "paramnesia", come se si verificasse un ricordo del presente; nel brevissimo istante del riconoscimento finale potrebbe trascorrere l'intera storia come una rievocazione dell'avvocato, forse l'intera vicenda dell'autobus è partita da questo punto. Nel finale la memoria potrebbe passare al ricordo, l'intero film ad un flash back, ma l'avvocato scompare nel taxi e la voce di Nicole commenta l'accaduto con le ultime parole del Pifferaio di Hameling.
Nicole "abita" una falda particolarmente interessante, perchè intorno ad essa ruota l'intero film. Nicole è la spia che ci fa conoscere il rapporto tra Lisa e Billy, il meccanico che seguiva il pulmino nel momento dell'incidente.
La fiaba del Pifferaio magico inizia nella stanza da letto dei bambini, ma sembra poi possedere una vita propria, sembra costituire essa stessa una falda che riemerge improvvisamente in altri continuum legati alla figura e alla voce di Nicole.
Nella sequenza che mostra l'incesto, posizionata proprio al centro del film, le inquadrature nel granaio sono alternate a quelle affioranti dal racconto della fiaba ai bambini. Nicole recita la fiaba e il pifferaio sembra prendere le vesti di Sam, il padre, le cui promesse avevano incantato la figlia.
La baby-sitter sembra sdoppiata in due figure: una fisica che giace nel granaio e l'altra mentale, che recita la fiaba, quasi volesse commentare la situazione; ancora una volta la scrittura cinematografica non coinvolge soltanto i protagonisti immersi nella penombra, ma con un dolly dal basso verso l'alto rivela il paradiso promesso dal padre: uno spazio illuminato da candele, forse quel palcoscenico su cui la macchina da presa ha spalancato il sipario, ma che non verrà mai realizzato a causa dell'incidente.
La favola diventa il ritornello narrativo che forma una falda intermedia dove convergono diversi personaggi: l'avvocato, Dolores e il padre di Nicole. Nessuno si adatta perfettamente a questo racconto, nessuno può incarnare il protagonista, ma l'apologo contribuisce a connotare le diverse figure, che coesistono senza il bisogno di appartenere alla stessa catena temporale.
Il libro della memoria costruito dal pifferaio-Egoyan crea il tempo ad ogni "pagina", ad ogni falda. Quando i limiti dell'immagine-ricordo vengono superati dall'immagine-tempo, non è più possibile parlare di sequenze disposte su un unico piano temporale, ma ciascun evento determina una temporalità propria non-localizzabile rispetto agli altri. Lo sprofondamento dell'autobus, per esempio, è il centro di ogni immagine-ricordo del film, nel ghiaccio affonda la rievocazione di Dolores, ma l'ordine visivo del racconto spetta a Billy il meccanico. Più che a ciascun singolo personaggio, Egoyan sembra interessato alla reazione di ciascuno rispetto al contesto dove si trova inserito; il valore attuale del ricordo, la rievocazione, spesso, anziché convergere al presente del racconto (per la verità l'unico presente è quello dell'avvocato sull'aereo) estende la propria attività organizzatrice del tempo e del racconto all'indietro, trasformando il ricordo i n memoria.
Ogni falda, anziché chiudersi o convergere ad un evento chiave, affonda nel passato, magari sollecitata da un ricordo e ne restituisce il complicato intreccio.
Il montaggio non definisce una struttura narrativa basata sul principio della concatenazione dei fatti, ma procede per salti da falda in falda tracciando di volta in volta una mappa del tempo secondo l'ordine dello sguardo gettato sul passato.
Come la marcia suadente del pifferaio, così l'ordine imposto al racconto da Egoyan ci addesca sequenza dopo sequenza complicando il discorso della verità: nella sala della deposizione, un ambiente letteralmente abbagliato dalla neve, Nicole mente, scrivendo così una realtà più intricata della semplice ricostruzione fatta dall'avvocato. Mentendo la ragazza coinvolge il padre e la loro relazione conclusasi coll'incidente, ne evoca la falda citando semplicemente la fiaba del pifferaio, come se potesse sdoppiare il proprio presente, la propria attualità e rifarsi con la citazione ad una virtualità del passato che condivide solo col padre.
Lo sdoppiamento del personaggio consente il simultaneo svolgimento di presente e passato, mostrandoci il complicato meccanismo dello svolgersi della memoria. Questo riflesso fa nascere spontanea una valutazione sui rapporti spaziali tra interno ed esterno: la luce impedisce alle finestre di lasciar trasparire alcunché dall'esterno, l'unico spazio "diverso" è quello prodotto dalla sdoppiamento di Nicole, che trova il suo punto di riferimento nel passato col padre e nella grotta delle meraviglie dove sarebbero stati condotti tutti i bambini fuorché uno, quello zoppo. Passato e presente scorrono insieme nella memoria, scorrono dall'immagine-tempo conservando le loro diverse modalità, ma coesistono e risultano indisgiungibili (non confusi!).
Sarà così la chiusura della favola a concludere la vicenda, l'immagine di questo buio silenzio è preceduta dallo sguardo "a ritroso" di Nicole dalla sua carrozzella: non è una vera e propria posizione del viso, non c'è una soggettiva che unifichi spazio e tempo, ma un discorso interno che rimemora. Ritornano le ruote panoramiche, ma la macchina da presa preferisce il vuoto o il volto della protagonista il cui sguardo è privo di una direzione stabilita, aperto alla contemplazione del passato.
Ogni inquadratura, come era accaduto "in principio", restituisce il tempo nella sua forma "a-tomica", etimologicamente indivisibile, ma non per questo omogenea ed uniforme, anzi, passato, presente e futuro, non potendo più essere compresi in una storia, vengono generati ad ogni sequenza, ogni quadro segna una crisi del tempo che alla fine rende inaccessibile la verità. Non c'è un trauma che la storia possa "comprehendere", ma ad ogni passo della marcia suonata dal pifferaio scopriamo di essere interni al tempo, coscienti della scissione irrimediabile e simultanea di presente che scorre e passato che si conserva, una temporalità non-cronologica dove ogni ferita rinnova il proprio dolore.

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