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C'è del marcio nel Regno

The Kingdom di Lars von Trier

di Manlio Piva

The KingdomQual è la formula magica che fa di The Kingdom uno degli eventi televisivi (e cinematografici) più interessanti degli ultimi anni? Rubando una battuta allo stesso von Trier, protremmo rispondere che è stata quella di "...mettere un fantasma démodé in un ospedale ultramoderno. L’ospedale rappresenta la scienza, la razionalità mentre il fantasma rappresenta in qualche modo l’opposto"1. Innestare cioè il racconto gotico nel tessuto urbano seguendo quel processo che ha dato vita a una tradizione ben precisa: quella delle cosiddette leggende metropolitane (e il mitico carretto della morte che si trasforma nell’ambulanza fantasma con la quale si apre il film ne è un esempio). Ma "Mettere un fantasma démodé in un ospedale ultramoderno" per von Trier significa soprattutto potersi programmaticamente permettere di tutto, disporre di un’assoluta libertà narrativa e di tono. Dal momento in cui gli estremi (naturale e soprannaturale, positivismo e occultismo) combaciano confondendosi, tutte le zon e intermedie divengono praticabili e mescolabili: horror, gotico, giallo, satira sociale, grottesco, comico, commedia sexy, melodramma; e di nuovo horror... si può passare con disinvoltura dall’una all’altra nel collante offerto dagli spazi del nosocomio. L’attempata signora Drusse insegue le tracce del fantasma di una bambina -una canzone che si propaga nello spazio attraverso i riflessi dell’acqua ne narra la triste storia. Mary è stata gasata dal padre, medico del Regno, nel 1919 e da allora il suo corpo è conservato sotto formalina in quello che ora è lo studio di un malinconico ematopatologo (e la scoperta è tanto più sconvolgente quando ci si rende conto che è sempre stato lì, sotto i nostri occhi, fin dall’inizio). Intanto il neurochirurgo Helmer cerca di insabbiare il proprio "crimine": quello di aver ridotto la piccola Mona allo stato vegetale. E qualcosa ci dice che c’è un legame fra le due bambine: una sembra il riflesso dell’alt ra e poi entrambe hanno lo stesso cognome, Jensen...

The Kingdom si presenta come un polpettone in cui gli elementi narrativi trovano il loro unico limite nella fantasia degli sceneggiatori, sfida nella quale Lars von Trier e il suo co-sceneggiatore Niels Vørsel si immergono a capofitto: "Niels e io abbiamo scritto tutto insieme; ci si era dati come regola di non rileggere, di non ritornare mai su quanto fatto. Abbiamo scritto le prime quattro ore e mezza in sei settimane..."2. Libertà creativa, audacia nello stile che per il regista danese significa affidarsi alla bizzarra creatività della mano sinistra: "Abituati ad usare sempre la mano destra, provate per ispirazione improvvisa e per gioco a scrivere con la sinistra. Dapprima vedrete ciò che vi aspettate: degli scarabocchi che hanno poco a che fare con le lettere. Ma dopo un po', non riuscirete più a non prender gusto a quel padroneggiare parole e frasi che, se le aveste scritte con la destra, non vi avrebbero detto nien te e vi sarebbero sembrate banali e trite. La povera qualità del lavoro della vostra mano sinistra è l’oggetto della vostra ammirazione. E allora rimettete la penna nella destra e guardate il tutto come puro divertimento. Perché se non lo faceste potreste innamorarvi di quegli scarabocchi, della loro bellezza e...orrore"3. Ispirazione improvvisa, gioco: il potere delle immagini e degli eventi narrati deve riuscire a sospendere l’incredulità, a trascinare lo spettatore nella favola nera del Regno; e se la coerenza scricchiola (come accade talora in The Kingdom II), l’ispirazione, il gioco intervengono a salvarla nascondendo le falle con gag fatte di comicità corrosiva, come a dire: "non cercate a tutti i costi la coerenza, pensate a divertirvi!" (von Trier: "Ho concepito The Kingdom come qualcosa che avrei guardato per distrarmi. Ho pensato che se divertiva me avrebbe divertito anche il pubblico."4).

Lars von TrierLibertà e gioco nel quale sono coinvolti gli attori stessi: "Nei miei film precedenti, lavoravo con uno storyboard molto preciso; le riprese, tutto era pianificato in precedenza. Gli attori dovevano seguire le indicazioni alla lettera ...e questo limitava molto il loro lavoro...", mentre in The Kingdom "abbiamo dato loro la più grande libertà ...e i personaggi sono molto ispirati agli attori che li recitano"5; attori che con von Trier hanno già lavorato e che egli conosce molto bene. Come Ernst H. Jaregaard, che trasporta l’arroganza e la misantropia di Uncle Kessler (Europa) nel personaggio di Stig Helmer (il primario neurochirurgo del quale è follemente innamorata l’anestesista Rigmor Mortensen, Rigor Mortis!). O il volto ambiguo di Udo Kier (Europa, Medea), nel ruolo tanto del demoniaco Aage Kruger quanto del figlio (santo e mostruoso) nel quale s’incarna. Von Trier ama creare personaggi e situ azioni toccanti e allo stesso tempo blasfeme come questa: Little Brother nasce come il figlio di Rosemary e si trasforma in Figura Christi (si sacrifica "per togliere i peccati del mondo") e la buona Judith diventa una Madonna accorata che, attraverso il dolore, si affranca dal mondo grottesco che la circonda.

Ma la felice invenzione di The Kingdom non nasce dal nulla. Sono fin da subito apparsi evidenti i riferimenti ad almeno due feuilletton e un serial televisivi, e rispettivamente: Belphegor: il fantasma del Louvre, Twin Peaks, E.R. (Christopher Null -in un sito internet- dà questa suggestiva definizione del Regno: "This is what would happen if you let David Lynch loose on the set of E.R. with nothing but a TV camera, a gaggle of Danish actors, and a bone saw.").

Belphegor è un feuilletton francese degli anni sessanta che ebbe un gran successo in Europa. Da esso è ripresa l’idea di disperdere un fantasma in un edificio vasto e caotico, in cui stanze anonime e lunghi corridoi provocano disorientamento, ansia, claustrofobia. Allo stesso modo, per poter inserire il fantastico attraverso scarti progressivi dalla realtà quotidiana era necessario trovare un analogo danese al Louvre che veicolasse l’immaginario collettivo. Così von Trier sceglie di girare nel più grande e moderno nosocomio di Danimarca, denominato Riget, Regno, che sorge nel centro di Copenaghen e già di per sè si presenta come una mostruosità architettonica. L’edificio risale agli anni settanta, ma acquisisce man mano l’anima antica di una costruzione cresciuta -come una chiesa romanica- sui resti delle precedenti, dalle quali eredita storie leggende e maledizioni che il tempo ha stratificato e per le quali sembra "umanamente" soffrire (i muri "traspirano" gemiti, acqua come lacrime, perfino sangue come in quell’altra costruzione mostruosa e maledetta, l’Overlook Hotel di Shining). (Riget diventa l’allegoria di un’umanità che non sa più rigenerarsi, ormai ridotta a rivivere i clichè). E che si tratti di una costruzione instabile e destinata alle sofferenze lo spiega subito il prologo, in uno scenario ripreso a ralenti che ricorda da vicino quello del precedente lavoro televisivo di von Trier (Medea, 1988). "Il suolo sotto l’ospedale è un’antica landa paludosa dove un tempo i tintori venivano a inumidire i loro grandi teli che poi stendevano per la sbiancatura. Il vapore che si sprigionava da quelle enormi distese di panni avvolgeva il luogo in una nebbia permanente..." recita, nella versione originale, una sinistra voce narrante (e non sfugga la burla: che maledizione può mai provenire da una lavanderia? Dove sono finiti i cimiteri pagani, le tombe profanate?).

Molti elementi accomunano poi Lars von Trier a David Lynch e non è un caso che entrambi si ritrovino a lavorare per la TV, esperienza che libera il loro cinema dagli eccessi manieristici che lo appesantivano. Von Trier: "Non amo molto i film di Lynch, apprezzo però la sua serie televisiva. E ho capito perché: quando gira per la TV deve prendere le cose meno sul serio. Questo fa si che uno si senta più libero. Ed è così che ho fatto anch’io."6. Stesse doti visionarie, in entrambi la realtà quotidiana si fa malsana, allucinata, pronta a essere invasa dall’onirico, dal soprannaturale. Se Lynch fa apparire un fantasmino tumescente in un termosifone (Eraserhead), von Trier lo mette in una tromba d’ascensore; e se il detective di Twin Peaks registra le proprie ipotesi investigative, Krogshøj registra le proprie diagnosi (sbagliate); entrambi poi mettono al mondo feti mostruosi di insolita "tenerezza". Il loro lavoro è tutto rivolto a svelare, storpiandoli, i clichè che tengono insieme un mondo altrimenti senza totalità e concatenamento. Ma mentre Lynch sembra rimanere chiuso in una condanna senza appello, in von Trier ironia e comicità fungono da valvole di sfogo.

E così il parallelo E.R./David Lynch di cui parla Christopher Null si fa più chiaro. Al di là dell’ambientazione ospedaliera, sono le qualità del mimetismo deformante del regista danese a essere suggerite. Come Lynch in Twin Peaks aveva imitato il patinato perbenismo dei serial americani per descrivere un paese marcio, così von Trier ricrea a modo suo lo stile dei reality shows per raccontare storie fantastiche o al limite del grottesco. I medici e i paramedici di von Trier, a differenza dei colleghi americani in "prima linea", non hanno niente di eroico, non hanno quasi mai a che fare con malati; anzi sembrano loro i veri degenti dell’ospedale, dal quale non si assentano mai (tranne Helmer; mentre il previdente Krogshøj c’ha messo su casa). Trascorrono la maggior parte del tempo in beghe private, in intrallazzi amorosi, in intrighi di potere, in riunioni assurde, in progetti folli: von Trier, attraverso la sua lente grot tesca, non risparmia nessuno; anche se è vero, però, che tutti alla fine vengono salvati dalle risate che riescono a strappare.

The Kingdom IIMa oltre a questi riferimenti più riconoscibili, The Kingdom ci sembra allo stesso modo ‘debitore’ anche nei confronti di un altro prodotto tipicamente televisivo, il sottobosco delle telenovelas: per la velocità d’esecuzione, per l’ingarbugliarsi fino all’inverosimile delle storie principali con quelle secondarie (che in The Kingdom II si moltiplicano) e soprattutto per la "disinvoltura" temporale. Se si esclude infatti il viaggio-lampo di Helmer ad Haiti (che ricorda quella di Jacques Tourner e Val Lewton), l’unità di luogo è ferrea; ma non si può dire altrettanto per quella temporale. Sono frequenti gli "a capo": una vicenda interrotta per seguirne un’altra, è ripresa dal punto dove era stata lasciata. Questo procedimento, che fa parte dell’economia delle telenovelas, perché significa una maggior facilità nella scrittura, leggibilità e montaggio delle vicende, all’interno delle rocambolesche soluzioni nar rative di The Kingdom risponde piuttosto a un desiderio di assoluta "trasparenza" (che diventa pungolo affabulatorio). Non ci sono zone d’ombra, fuori campo irraggiungibili; tutto lo spazio-tempo virtuale che il plot produce si attualizza prima o poi, seguendo le leggi della suspense. Una narrazione "orizzontale" che crea uno spettatore "ubicuo", "demonico", come la macchina da presa -quasi costantemente in soggettiva ("fantasmatica")- e il montaggio anarchico delle immagini sembrano suggerire. D’altronde c’è un luogo in cui tutto il tempo (cronico piuttosto che cronologico) e lo spazio del Regno si ricompone, fluisce come nell’orifizio di una clessidra: sono le cucine dell’ospedale. Qui i due lavapiatti, geneticamente due diversi, affetti come sono dalla sindrone di Down, puliscono le stoviglie sporche dell’ospedale come gli antichi sbiancatori i loro panni, e su di esse interpretano il presente, presagiscono il futuro attraverso i loro sibillini farfugliamenti.

Belphegor, Twin Peaks, E.R., telenovelas: tutti riferimenti televisivi per un’opera finanziata da una rete televisiva (Denmarks Radio, la più importante del paese) e destinata al pubblico televisivo ma che, a dispetto di ciò, non smette di essere vero cinema. Recensendo The Kingdom I, Mark Le Fanu conclude osservando: "La decisione di passare dai 16 ai 35mm e di distribuirlo nelle sale come un unico lungometraggio fu presa all’ultimo minuto. E, in fin dei conti, non c’è dubbio che The Kingdom funziona meglio al cinema. La sua forza, leggibilità e bellezza vi si trovano accresciuti...il film conserva la grandezza e l’intensità -la ‘monumentalità’- consona al grande schermo e alle sale buie."7.

(Estratto da: La paura mangia l'anima : il cinema di Lars von Trier / edito a cura del Centro Mazziano. - Verona : Cierre Edizioni, 1997.)

Note
1Marie-Eve Poisson, Entretien avec Lars von Trier, in "Positiv" n° 413/414, p. 118. (Nostra traduzione)
2ibidem.
3Bruno Fornara, Il fantasma dell’ospedale, in "Cineforum", n°358, p.10.
4Marie-Eve Poisson, Entretien..., op. cit., p. 121.
5ibidem, p. 119.
6Vincent Ostria, Comment l’esprit vient aux neurochirurgiens, in "Cahiers du cinéma", n°490, p. 6.
7Mark Le Fanu, The Kingdom, esprit des étangs de blanchiment, in "Positiv" n° 413/414, p. 117. (Nostra traduzione)
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