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La nuova alba di Abbas Kiarostami: Il sapore della ciliegia

di Manlio Piva

LocandinaBastano pochi istanti passati in macchina con Badij, il protagonista del nuovo film di Kiarostami, per capire che il suo non è un innocente gironzolare per le strade affollate di Teheran. C’è qualcosa di ambiguo, di malsano nel suo profilo in ombra, in quegli occhi tristi, in quello sguardo duro. Un desiderio inconfessabile e una pulsione improcrastinabile lo spingono a setacciare fra la folla una faccia adatta. Badij promette una somma consistente di denaro in cambio di un lavoretto di pochi minuti, in un luogo appartato... Possibile si tratti semplicemente di qualcuno da rimorchiare per un rapporto illecito? Kiarostami calca la mano sull’ambiguità del suo personaggio, inserisce i titoli di testa dopo un primo tentativo fallito di Badij, a sottolineare che altre simili frustrazioni seguiranno, ma anche a sottolineare che non c’è tempo da perdere, che quest’uomo a bordo di una Range Rover ha già preso una decisione; bisogna seguirlo passo passo nel suo vagabondare per non perdere nulla di quello che può accadere: i titoli occupano l’unico ‘nero’ disponibile. Eccolo in macchina con un giovane soldato di leva che faceva l’autostop: Badij gli spiega che vuole suicidarsi e cerca qualcuno disposto ad aiutarlo nel suo intento. Ha scavato una buca sotto un albero, in collina, fuori città e ha bisogno di un becchino che lo seppellisca dopo che si sarà avvelenato... il ragazzo fugge non appena ne ha l’occasione.

Lasciato in balìa di sé stesso, questo personaggio ai limiti del paradossale sconta il ridicolo e il grottesco di una crisi esistenziale fuori stagione. Come il protagonista di Close up, cerca di fuggire la sofferenza e la solitudine attraverso la perdita della propria integrità: Ali Sabzian vestendo i panni di un regista famoso (dunque sdoppiandosi); Badij annullandosi, ma non senza un testimone del proprio gesto. In entrambi prevale l’idea narcisistica di un atto dimostrativo al quale il cinema di Kiarostami offre visibilità ("Trasponete la mia sofferenza nel vostro film." chiede Sabzian).

Ma Badij non è un poveraccio ammaliato dal cinema; è benestante, istruito, ha una scorza più dura da scalfire. Non basteranno gli insuccessi nella sua ricerca o le argomentazioni religiose di un seminarista a farlo desistere dal suo intento ; forse però ci riusciranno le argomentazioni e la fresca prolissità del vecchio Bagheri, che pure ha accettato l’incarico funebre: "un tale va dal medico dicendo: ‘dottore, dovunque mi tocchi mi fa male. Mi tocco lo stomaco e mi fa male, la testa e mi fa male, il ginocchio e mi fa male’. Il dottore lo visita e poi risponde: ‘Voi state bene, è il vostro dito che è rotto.’ ...signore, è il tuo pensiero che è malato, tutto il resto funziona perfettamente." E intanto la Range Rover vaga deviando per sentieri polverosi di collina riproducendo i meandri delle divagazioni di Bagheri.

Il sapore della ciliegiaCon Il sapore della ciliegia, Kiarostami abbandona i villaggi e i bambini della sua trilogia per ritrovare la città e la periferia, ma non cambia il suo sguardo sulle cose; la sua indagine sfrutta gli stessi mezzi stilistici, talmente insistiti da raggiungere una purezza e una semplicità estrema. Film di veloce fattura, scarno ed essenziale, ritorna sul già detto e sul già fatto con un respiro diverso, quasi a saggiarne la tenuta, prefigurando l’avvio di una nuova stagione creativa. Il regista iraniano sembra volgere a una nuova maturità che corrisponde a quella dei suoi personaggi, a quella del suo popolo: non più bambini o adolescenti, o adulti-bambini come quelli timidi o grotteschi di Close up, di ...E la vita continua. L’iraniano di Kiarostami non è più rappresentato da un regista di città, straniero/straniante, in viaggio attraverso una regione, un popolo che è stato sul punto di scomparire a ca usa di un cataclisma (un popolo fatto di vecchi e di bambini; un popolo mitico, da favola, da leggenda). La ricerca di Badij diviene motivo e pretesto per il censimento di un popolo non più mitizzato; che è ora davvero Presente, in diretta. ‘Non recita più’, rifiuta le blandizie e il denaro che gli vengono proposti per la parte (quella di becchino). Si limita a parlare di sé. Ciascuno racconta la propria storia, la dignità con la quale fa fronte ai disagi, i drammi ai quali è sopravvissuto (il ragazzo kurdo, il custode afgano...); ciascuno diviene parte di quell’intarsio con il quale Kiarostami sembra voler comporre la sua idea di popolo ritrovato. La parabola è quella di Badij e Bagheri; tutti gli altri sono il popolo iraniano, e quello che sta intorno a loro è la loro terra.

Gli elementi stilistici non fanno che confermarlo: Badij quale elemento straniero/straniante se ne va in giro in abiti sportivi su una preziosa Range Rover, una specie di bara scura dalle pareti di vetro che lasciano intravedere la vita che scorre all’esterno, attraverso il riquadro del finestrino o del parabrezza: non statica, di profilo, in ombra come il volto di Badij; ma frontale, assolata, polverosa e disordinata. Sempre un filtro tra i due spazi, sempre un diaframma a sottolinearne la diversità ontologica. Il vetro, la polvere, i rumori e il montaggio stesso dividono Badij dal popolo iraniano. Fra lui e le persone che salgono in macchina con lui lo spazio è diviso: non piani d’insieme ma solo campi e controcampi. La vita già archiviata di Badij si contrappone alla complessità del vivere dei suoi passeggeri; l’inter-vista della Morte si ciba, dà in pasto, salva per sempre dall’oblio la vita altrui. Compie il censimento continuo di un popolo che c’&egr ave;, esiste tuttavia; anche dopo carestie, cataclismi, guerre. E con il popolo la sua terra....E la vita continua Come in Sotto gli ulivi: "lì la scena finale, ripresa in campo lunghissimo, vuol dire che i personaggi sono presi nella loro natura"1, dice Kiarostami; allo stesso modo l’auto del regista arrancante su una strada di collina nel pianosequenza finale di ...E la vita continua. La funebre Range Rover attraversa gli spazi della periferia poi la collina polverosa che ospita la cava come l’auto del regista attraversava la regione squassata dal terremoto del ‘90. Ma qui come allora il Cinema non può che essere fuori tempo, arrivare o troppo presto o troppo tardi come insegnano Straub-Huillet2; non può far altro che registrare le stratificazioni successive della storia di un popolo come/attraverso le ere geologiche della sua terra: l’antico, il vecchio, il mitico di Dov’è la casa del mio amico; il presente dis perso ed esploso di ...E la vita continua...E la vita continua (ecco l’importanza storica di un terremoto come evento che, allo stesso modo della guerra per il neorealismo italiano, nel distruggere riporta a galla); e quello recuperato alla natura (cioè naturalizzato dal Cinema, reso reale nel suo riorganizzato rapporto con la finzione) di Sotto gli ulivi. Con Il sapore della ciliegia Kiarostami ci riprova, cerca di essere puntuale, di arrivare in tempo come aveva tentato di fare con Close up3. Inventa una storia ad hoc per poterlo fare, quella di una morte annunciata che con il suo stesso accadere deve decidere le sorti del filmabile. Ma la stratificazione è già in corso; le falde di passato donate a Badij si accumulano le une sulle altre, si smistano, si scompongono come la sabbia e i detriti nella cava. Questa scena, la più suggestiva del film, riunisce queste linee di forza e le metabolizza/metaforizza. Nella cava, come nelle riprese e nel montaggio del film, si estraggono e smistano gli elementi utili scavando nel caos e nell’indistinto. Da un lato il desiderio del protagonista -più volte formulato- di ricongiungersi all’elemento primigenio, dall’altro il magma della vita di un popolo (di una terra) dal quale vengono estratti, resi leggibili, evidenti, gli elementi costitutivi; quegli atomi indivisibili, quelle microstorie della vita degli individui costruita dalle stratificazioni successive di presente a presente. La terra come immagine del passato che viene conservato e restituito alla Storia attraverso un lavoro estrattivo reso dal ritmo frenetico del lavoro nella cava: alle domande di Badij si sostituisce la pala meccanica; alle risposte gli elementi più consistenti che non filtrano il vaglio (l’Oblio) sempre all’opera. L’onirismo prende il sopravvento: la cava diventa un paesaggio infernale e mano a mano che la polvere e i rumori invadono lo schermo si compie la descensio di Badij, la cui immagine viene progressivamente sotterrata dall’uniformità tanto delle particelle in sospensione nell’aria quanto da quella del sonoro. Un operaio-messaggero lo invita ad andarsene: il suo viaggio è compiuto. Quando risale in macchina (con una netta ellissi temporale) lo fa per accompagnare al lavoro il vecchio Bagheri dopo che questi ha accettato l’incarico di ricoprirlo di terra.

Il sapore della ciliegiaIn fin dei conti il cruccio di Badij, lo si è già sottolineato, è quasi banale: un mal de vivre degno di un adolescente piuttosto che di un uomo maturo. La lezione religiosa del giovane seminarista non era servita a nulla: se Badij fosse stato un uomo di fede non si sarebbe nemmeno posto il problema del suicidio. Badij giustifica la sua decisione ponendosi come centro gravitazionale della vita altrui ("Se la mia infelicità procura dolore a chi mi sta intorno, è forse un delitto volermi suicidare?"); con la sua testimonianza Bagheri non fa altro che stemperare l’esistenza di Badij in quella del Mondo, nella sofferenza che tutta l’Umanità porta con sé, ma della possibilità del riscatto attraverso la riscoperta della bellezza e semplicità delle cose, attraverso il recupero di un gusto antico, di un profumo dimenticato: "Sono uscito per suicidarmi e sono ritornato con dei fiori di gelso... così non rinunciare al sapore della ciliegia". Il vecchio prende la parola, lascia Badij nel silenzio. Il suo racconto è semplice e fresco, venato di ironia e rassegnazione: "Sono trentacinque anni che sono prigioniero di questa terra.". La sua vita non è migliorata dal giorno in cui ha assaggiato il fiore di gelso (anzi, ha deciso di accettare i soldi di Badij per poter curare il figlio malato di leucemia), ma è cambiato il suo modo di intendere la vita. Dov'e' la casaNel momento in cui ci si rende conto di poter scegliere o meno di vivere, la vita non diventa più un obbligo, il suicidio non è più l’unico atto di libertà lasciato all’individuo. Biblicamente, Bagheri è salito sull’albero e ha mangiato il frutto della conoscenza: la pura Necessità si trasforma, diventa coscienza della possibilità di scelta; la possibilità del suicidio una certezza di vita. Kiarostami afferma di essere partito "...da un aforisma di Cioran che dice: ‘Se non ci fosse l’opportunità nella vi ta di potersi suicidare, mi sarei ucciso tanti anni fa’. Questo concetto è la sintesi vera di tutto il film. ... Quando accettiamo il fatto che noi abbiamo scelto di vivere, noi viviamo meglio."4 Ma Badij riuscirà ad accettare questa possibilità? Il tramonto sulla città non ha niente dell’arcadia descritta da Bagheri; mentre l’inquadratura fissa dell’appartamento vuoto nel quale si aggira nervoso descrive tutta la sua solitudine metafisica: solo una anonima silhouette dietro alle vetrate, immersa nei rumori del traffico; e da lontano, dal ciglio della fossa, le luci della città sembrano fiaccole di un cimitero, fuochi fatui verso i quali procedono le luci del tassì/nocchiero.

Si giunge così al finale di Il sapore della ciliegia che, preso in sé, è in linea con altre operazioni metafilmiche di Kiarostami (su tutte Close up e Sotto gli ulivi) e sembra confermare l’idea di una suddivisione interna al film: la fine della storia di Badij, se c’è, va cercata altrove; qui si è raccontata una parabola alla quale il buio della notte e le scariche elettriche della Terra hanno posto fine. A rimanere intatta è la realtà del set filmata da una videocamera di servizio; è la realtà del profilmico, dello spazio, del territorio che c’era prima del film e c’è ancora dopo che il film che lo ha inglobato è finito. Sotto gli uliviLa distanziazione si fa netta. Kiarostami arriva allo svelamento metafilmico attraverso un vero e proprio fulmen in clausula. L’ironia sembra prendere il sopravvento e con essa la necessità di distaccarsi da tutto quello che poteva essere il messaggio del la parabola di Badij.

Che a motivare questo ‘falso’ (o doppio) finale siano stati motivi di censura politica o una nuova coscienza del film maturata dal regista5 difficile a dirsi. Ma forse quanto fin qui scritto può riuscire a giustificare entrambi: Badij è l’ennesima maschera di Kiarostami-regista che ha svelato a sé stesso l’esistenza di un popolo che non può più risolversi nei cliché del cinema ‘terzomondista’, che ha bisogno di qualcuno che sappia descriverlo così com’è, senza infingimenti retorici. Così il nuovo Kiarostami nasce attraverso la morte simbolica del suo alter-ego6. Sul set risuonano le note funerarie di St. James Infirmary di Armstrong (...c’era una volta un film italiano che celebrava così l’addio al Proibizionismo di Stato); Kiarostami e il suo attore-feticcio sono circondati dalla troupe indaffarata; l’ex-Badij fuma una sigaretta mentre in lontananza la Range Rover/carro-funebre lascia definitivamente lo spazio dell’ultima scena (dove, guarda caso - significativa incongruenza, non era mai arrivata, sostituita dal tassì). In ogni caso, la parabola di Badij si frantuma, si sbriciola in una specie di pretesto gonfiato a contenere tutto un mondo, degli individui, che proprio nel confronto/scontro con la storia di Badij rimangono -intuizione meravigliosa del regista- veri, splendidamente veri.

NOTE
1. Intervista contenuta in: Abbas Kiarostami, Script/Leuto, Dino Audino Ed., 1996, pag. 55.
2. Cfr. J. Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, 1989, pag. 269 e seg.
3. Kiarostami: "Avevo già la troupe per girare un altro film. Tre giorni prima delle riprese mi è capitato di leggere questo fatto di cronaca. Mi ha impedito di dormire perché mi ossessionava ... La sceneggiatura è nata mano a mano che andavano avanti le riprese. ho trascorso delle notti in bianco sulla sceneggiatura, perché la realtà era sempre più avanti di noi." (Abbas Kiarostami, op.cit., pag. 43. La sottolineatura è mia).
4. ibidem, pag. 61.
5. Kiarostami nel ‘96 è invitato dalla Regione Sicilia a tenere un seminario a Palermo: "...quando parlavo dei miei film uscivano fuori ricordi d’infanzia, retroscena personali, problemi sentimentali, tutto... mi sembrava di essere andato dall’analista per dieci giorni, e di essermi ‘lasciato andare’ a ruota libera. E’ proprio a causa di questo che quando sono tornato dal viaggio ho cambiato il finale del mio film. ... Mi sono accorto che era in contraddizione con tutte le cose che nel frattempo avevo capito del mio stesso cinema, e allora ho fatto in modo che il finale si avvicinasse a ciò a cui ero arrivato." (ibidem, pag. 62-63).
6. Da notare che il film è conosciuto anche con il titolo di Viaggio verso l’alba ( Safar Be Sobh)
 
(Estratto da: Sentieri incrociati : il cinema di Abbas Kiarostami / edito a cura di Alberto Scandola e Luca Sandrini. - Verona : i quaderni del Mazziano ; Cierre Edizioni, 1998)

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