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Kalendar di Atom Egoyan
 
KHATCHKAR

 
di Umberto Fasolato

"Un fatto è ora limpido e chiaro: né futuro né passato esistono. E' inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell'animo e non vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l'attesa."
 
(S. Agostino, Confessioni 20,26)

Atom EgoyanDopo le prime inquadrature, che alternano in un ritmo binario immagini video, neri dei titoli di testa e splendide rappresentazioni delle chiese armene, lo spettatore comprende di non poter seguire una storia: la "concatenazione di fatti" scompare lasciando spazio a frammenti, a tessere di mosaico o di un puzzle difficile da ricomporre in un disegno complessivo evidente.
Le inquadrature non si succedono all'interno della sequenza, vengono piuttosto accostate, giustapposte dal montaggio. Possiamo delimitare e distinguere ciascuna sequenza col mese corrispondente, ma l'intera vicenda sembra modulare sempre la stessa struttura.
Non di un racconto si tratta, quanto piuttosto di una partitura musicale o di un testo poetico colmo di riprese, chiasmi e anafore. Il succedersi delle immagini spinge lo spettatore a costruire un modello diegetico vicino alla "fuga", una struttura tipicamente musicale. Approfittando di questa metafora, considero come "tema" la "partitura" armena: le inquadrature fisse a colori, vere e proprie foto centrate sui monumenti del paesaggio armeno, sono lo sfondo per i movimenti, gli sguardi e i fragili dialoghi tra i protagonisti. Il "contro-tema" diventa l'immancabile finale delle cene rituali canadesi: tutte le donne si accostano alla parete dove è appeso il calendario che mostra i risultati documentari del viaggio in Armenia. La lingua di queste donne è incomprensibile come l'armeno parlato dall'autista e dalla traduttrice, che accompagna il fotografo anglofono. Tra questi due estremi stanno le immagini video girate in Armenia, ma osservate con il video registratore nell'appartamento canadese, e l'intera banda sonora, capace, come vedremo, di complicare e far saltare le coordinate spazio-temporali del racconto tradizionale.
Combinando immagini di monasteri e riprese video di greggi, di strade accidentate, del monte Ararat, Egoyan, che figura come uno dei protagonisti principali (il fotografo autore del calendario), trasforma il viaggio in Armenia in frammenti di un discorso amoroso.
Davanti a noi si succedono le splendide inquadrature per il calendario, le traballanti e bluastre riprese video e le gelide sequenze nell'appartamento-studio canadese. Tutti questi quadri manifestano una singolare "autarchia": le chiese sono perfettamente fotografate nel cuore del paesaggio armeno, le registrazioni della videocamera sono immerse nel blu di una ripresa a bassa definizione, gli interni canadesi si distinguono per l'esasperata frontalità del quadro, combinata con la ricerca di disposizioni simmetriche dei corpi e dei punti di vista.
In questo modo, Egoyan cattura l'attenzione dello spettatore non solo verso il visibile sistemato entro i confini di ogni quadro, ma evidenzia anche tutti i disturbi e le interferenze che rivelano il ruolo attivo della dimensione invisibile chiamata "fuori campo".
L'attento osservatore delle architetture armene, il fotografo Egoyan, non tollera di essere osservato mentre tenta di carpire alla realtà l'immagine del suo vero volto dall'unico punto di vista dove è sistemata una finta macchina fotografica.
Così ascolta le interminabili invenzioni dell'autista su ogni edificio e le imprecise traduzioni della compagna interprete; prima di congelare la visione, attende pazientemente che escano dal quadro, che smettano di guardare in macchina, benché sappia che proprio da uno sguardo svelato, da un corto circuito della visione, comparirà il segno del distacco.*
L'immagine video viene frequentemente manipolata con avanzamenti veloci e fermi immagine, queste operazioni rendono tangibile un intervento temporale distinto dal momento in cui le immagini stesse sono state riprese, ma solo dopo un quarto di film scopriamo il protagonista alle prese con il video registratore, sollecitato a definire la propria esperienza dalla compagna di viaggio in Armenia. L'illusione di poter afferrare il presente puro dell'esperienza e riconoscere l'istante della rottura è contenuta nell'immagine video, che scorre nel film seguendo una traccia cronologica, nonostante la frammentazione delle sequenze e i continui salti temporali imposti dal montaggio. Quest'immagine, frutto di una semplice registrazione, di una presa diretta della realtà, sembra orientare il viaggio di Calendar.
La fredda perfezione compositiva dei quadri e delle sequenze canadesi si sfalda quando Egoyan-fotografo vuota la bottiglia di vino e la ripone sul tavolo: la splendida ospite occasionale lo abbandona per un'incomprensibile telefonata ad un compagno lontano. Il quadro si fa asimmetrico, il protagonista consuma l'attesa nel ricordo, nell'esplorazione della memoria, attingendo dal fuori campo immagini in quel frangente "invisibili".
Le riprese video, gli interminabili piani fissi armeni o canadesi, che prima potevano apparirci "monolitici", ora li scopriamo coperti di segni che tratteggiano la vicenda sfruttando ogni alterazione del quadro cinematografico, come un uscita fuori campo o una voce, o un brano musicale che dobbiamo associare ad altri contesti non visibili sullo schermo.
Davanti allo spettatore non si svolgono azioni decisive e il fuori campo, catturato dagli sguardi dei protagonisti, insidia e sconnette la successione dei quadri nella sequenza. E' impossibile "suturare" le inquadrature armene con le scene canadesi, anche se spesso il raccordo di montaggio le fa apparire come soggettive del fotografo. In verità queste immagini si configurano come ricordi frammentari, singoli fogli di un calendario sui quali lo sguardo deve "attendere" e soprattutto cercare i segni di un distacco.
La successione dei mesi non basta per ricostruire la cronologia degli eventi e del viaggio. Le frequenti riprese o ripetizioni dello stesso punto di vista, della stessa situazione, l'autonomia e la libertà del sonoro rispetto all'immagine predispongono l'opera ad una lettura "verticale".
Non appena il continuo processo di traduzione dall'armeno all'inglese slitta sulle inquadrature canadesi, l'immagine sonora diventa la presenza del passato nella coscienza del protagonista. Quando invece l'immagine sonora e quella visiva coincidono in un'unica visione, si verifica il raddoppiamento della parola con la traduzione e un dialogo "aperto" verso il fuori campo dove è sistemato il fotografo. La Babele di lingue in Calendar sembra la rappresentazione di tutti i discorsi e le storie possibili (l'autista e le donne canadesi sono i prototipi di quest'idea), ma le uniche comprensibili e determinanti per la vicenda diventano quelle filtrate e tradotte in inglese.
Spesso la musica deborda il presente canadese per scorrere sul passato armeno, alla luce delle splendide architetture che diventeranno foto per il calendario; la stessa libertà è concessa alla voce di Egoyan-fotografo, che esplora i piani dei ricordi affondando lungo una faglia, saltando liberamente da strato a strato. Un discorso, scaturito osservando una chiesa armena, finisce per contrappuntare un'immagine video che non gli appartiene o un interno canadese congelato in disposizioni dello spazio che richiamano gli allestimenti di studi cinematografici. Le misteriose telefonate delle ospiti del fotografo estendono la loro influenza "musicale" nel passato, emergendo nelle immagini armene. Il telefono, pur essendo la voce più evidente di una irrimediabile separazione, riaggancia il presente al passato, è lo strumento con cui il passato è sbalzato nel presente, i tempi abitualmente separati nella coscienza dello spettatore e dei protagonisti non si possono disgiungere una volta compresi nella stessa immagine.
L'intera banda sonora non è prigioniera del tempo; oltrepassando i limiti del passato o del presente imposti dalle immagini li rende indiscernibili, ma non confusi. L'immagine cinematografica, proprio nel momento in cui libera il sonoro dalla pista visiva, mostra la coesistenza di più tempi e diventa specchio della coscienza del protagonista.
Il montaggio, che affianca e giustappone le inquadrature, assume un rilievo particolare insieme al mixaggio: esso non è più "trasparente", un semplice atto di connessione automatica, ma diventa un colpo di scalpello che da forma a ciascun disegno, a ciascuna cellula dell'organismo filmico, fissandone uno spazio e un tempo propri e irripetibili.
Egoyan-fotografo non ha una posizione privilegiata, non "chiude" dal fuori campo l'immagine, anche se ne decide il taglio e lo scorcio, la luminosità e il momento dello scatto: spesso l'autista gli ricorda di scegliere un punto di vista in cui il paesaggio riveli il proprio ordine, la propria unità agli occhi di chi lo guarda. La contemplazione deve disperdere ogni punto d'osservazione ordinario e precostituito della realtà.
I piani fissi armeni anticipano lo scatto fotografico, rappresentando tutto ciò che accade prima del fatidico arresto del tempo. L'intromissione dei compagni di viaggio con i lunghi sproloqui su avvenimenti lontani e gli effetti sonori degli agenti atmosferici estendono nel tempo l'immagine, le voci e gli sguardi dell'autista e della traduttrice si rivolgono spesso all'invisibile fotografo, presenza esclusivamente sonora ma determinante per produrre la giusta distanza, l'esatta angolazione e l'intensità luminosa capaci di cogliere lo spirito delle costruzioni.
Seguendo alla lettera l'osservazione tarkovskiana che fissa come caratteristica fondamentale del cinema la registrazione del tempo, Egoyan filma oggetti immobili e localizzati in un preciso ambiente, disponendo il mutamento come esperienza dello sguardo. Dopo la veloce introduzione del prologo con le immagini del gregge, il viaggio in Armenia diventa la contemplazione delle opere armene, modulate in quadri ripetuti e spesso ripresi all'interno della stessa sequenza per registrarne e annotarne ogni disturbo, ogni interferenza.
Egoyan, più attento all'osservare che al raccontare, quasi volesse tendere la storia tra enjambement audiovisivi, che scavalcano il tempo ordinario, contempla le strutture dei monumenti armeni restituendo allo spettatore i fondamenti della loro architettura.
L'atto di inquadrare rileva come ogni edificio orienti e rispecchi le caratteristiche del paesaggio circostante, sia alzandosi su una cima che distendendosi in una valle. Il monastero oppure la chiesa stratificano la geografia naturale con quella del sacro.
Il centro dell'inquadratura diventa il nodo intorno al quale si articola uno spazio cosmicizzato, un universo in miniatura che si riflette nel paesaggio, acquistando dalla Natura la propria essenza: la pietra con cui sono costruiti è la stessa delle montagne che li circondano, la luce che li illumina ne fa risaltare le solide e varie volumentrie, tutte risalenti ad un medesimo canone rappresentato dalla pianta centrale. Ogni edificio è un cristallo che si estende nell'ambiente modulando la propria struttura in rapporti stereometrici con le costruzioni circostanti.
L'inquadratura prepara un ambiente dove viene inserito un germe: i due personaggi, l'antagonista di Egoyan e la traduttrice, un'automobile, il suono di una campana invisibile, la musica proveniente da un'altra inquadratura, da un altro punto della rete temporale stesa sugli spazi armeni oppure sugli interni canadesi.
Quando il germe penetra nell'ambiente lo spazio si fa tempo. Il microcosmo dell'irraggiungibile edificio armeno brulica di mutamenti: le traduzioni da lingua a lingua, gli attraversamenti del quadro e da ultimi i continui sguardi in macchina, appelli ad un invibile protagonista che resta per propria volontà a distanza, in attesa della luce giusta e incurante dell'imminente frattura, quasi incoscente e in seguito troppo in ritardo per non essere retorico nelle sue riflessioni.
Nell'architettura sacra armena l'interno dell'edificio è sempre diverso dall'esterno, benché questi due ambiti siano comunicanti e unificati dal diaframma di una possente struttura muraria. Se abbiamo adoperato l'immagine del microcosmo per definire lo spazio del sacro, allora dovremmo interrogarci sull'esperienza di questa dimensione: potremmo mai vedere la volta celeste dal di fuori? Le cupole delle chiese armene rimarranno nascoste ai nostri occhi per tutta la durata di Calendar, mentre le fotografie "scattate" sempre da un punto di vista esterno riveleranno le geometrie di coperture a spioventi o a cono che si sistemano organicamente nell'orizzonte naturale armeno.
Il solido diaframma costituito dalla muratura "a sacco" non solo separa le forme dell'interno da quelle dell'esterno, ma diversifica e distingue due diverse esperienze della luce: fuori si contempla una luce diretta, dentro quella indiretta, filtrata proprio dalla materia della struttura muraria. Calendar sembra inoltrarsi in questi differenti spazi luminosi con due materie visive distinte: la ripresa cinematogragica e l'immagine a bassa definizione del video.
Ad una prima osservazione il rilievo nel paesaggio del microcosmo sacro è tracciato dall'intersezione di superfici luminose in pietra lavica, mentre l'universo interno è definito dall'immagine bluastra della videocamera, in questo caso restano imprecisi i tratti architettonici, i protagonisti emergono dal buio o lo attraversano. In un interno possiamo essere interamente avvolti, come in un grembo materno, da una luce indiretta e diffusa, dall'oscurità di un'immagine video a bassa definizione. Il blu-video diventa il colore della protagonista femminile, che Egoyan-fotografo può ricavare soltanto dal nastro riprodotto nel presente canadese o dalla propria memoria "cinematografica", fissata sui quadri dei monumenti armeni. Quadro dopo quadro, l'oscurità ctonia del video entra a far parte dell'immagine cinematografica e la videocamera libera il proprio occhio nel tentativo di tracciare un'esperienza tattile della realtà.
Gli ultimi monasteri "fotografati" sono adagiati nelle valli oppure sono veri e propri edifici rupestri, scavati nella montagna. Dall'inquadratura scompare il cielo ed emerge la terra, L'ocra vulcanica rende l'edificio indiscernibile dall'ambiente che lo circonda; la nuova esperienza è l'immersione nel grembo della madre terra: con un vertiginoso raccordo in avanti il quadro, che prima risplendeva di roccia tufacea, diventa nero, disperdendo l'ultima immagine cinematografica della donna amata.
La videocamera riesce a sfiorare gli organi della realtà fotografata dal cinema, tocca e indica parti e interni delle chiese armene, separa i corpi dallo spazio, li isola dal contesto architettonico restituendo loro un'omogeneità definita dalla tinta blu su cui spicca il rosso. Lo spazio dove sono invischiati i personaggi è un colore, una macchia sostituisce le linee delle strutture architettoniche. Da un alone affiorano volti, corpi, sguardi, frontoni, porzioni di architetture e spazi designati dalla luce indiretta degli interni armeni.
In uno dei rari campi totali riprodotti dalla video camera figura l'immagine di una fortezza; l'attenzione di Egoyan-video amatore libera la vitalità della compagna davanti alle rovine. L'insistenza su questo foglio della memoria spinge il protagonista ad un'amara riflessione: "Tutto ciò che è fatto per proteggere è destinato a crollare, è destinato a diventare innaturale, inutile e assurdo. Tutto ciò che è fatto per isolare è destinato a ferire."
Ogni chiusura ferma il movimento, l'unità che si racchiude in sé diventa simbolo di un distacco improduttivo. Di questo ne sono testimoni gli interni canadesi: ogni mese si ripete la stessa scena, cambiano le protagoniste, ma dopo aver vuotato la bottiglia di vino in parti uguali nei due bicchieri,assistiamo ad una separazione. A nulla servono i controcampi, i due protagonisti, dopo i timidi tentativi dell'ospite non si guardano, l'una intenta ad un incomprensibile telefonata, l'altro allo scavo nella memoria.
La rigorosa simmetria della forma cinematografica non riconcilia gli opposti ma li separa e li allontana. La composizione dei movimenti lungo un asse che affonda perpendicolarmente nello schermo, e la luce artificiale, che innonda l'interno canadese come accadeva negli spazi armeni, non riproducono la stessa armonia, perché non orientano lo spazio e i movimenti, ridotti ad un ripetitivo carillon.
In ogni inquadratura cinematografica attendiamo inutilmente la soluzione del rapporto amoroso tra il fotografo e la traduttrice, in ogni quadro aspettiamo il segno incontrovertibile dell'intesa con l'autista.
Egoyan lo nasconde per tutto il film, arrivando a disporlo nel fuoricampo, nel "buio" dell'immagine video che riprende l'interminabile gregge su una strada di montagna, scrutato con insistenza all'inizio di Calendar.
Il video sembra la chiave per risolvere gli enigmi della memoria, per trovare la ragione di una frattura, ma l'unica immagine del viaggio, che la traduttrice ricorda, è la videocamera stretta nelle mani del compagno al passaggio del gregge, mentre lei stringeva quella dell'autista.
La voce telefonica della compagna sollecita un ricordo invisibile, una registrazione che non potremmo mai vedere: l'operatore filmato. Nella memoria di lei non c'è il paesaggio armeno, nessuna foto del calendario le ricorda un episodio decisivo per gettar luce sul passato. La "chiave" dell'intera opera sta in ciò che non si può assolutamente vedere, ma che può essere evocato proprio conservando la sua invisibilità.
Il fotografo non viene mai catturato "in azione"; nonostante ciò la voce di Egoyan e i frequenti sguardi in macchina degli altri due personaggi ne evocano la presenza.
La sequenza girata intorno alla fortezza chiarisce la posizione del fotografo-regista: Egoyan è il demiurgo che crea un microcosmo attraverso lo sguardo, egli rivela la forma e l'unità del paesaggio armeno con le sue chiese e le sue fortezze, ma questo "mondo" (l'unica idea di patria possibile per l'Egoyan assimilato nella cultura canadese?) è per lui inaccessibile, è un luogo creato per la compagna e l'insidioso autista, liberi di accedervi da ogni parte.
La ricerca del tempo perduto, che realizzi una nuova e consapevole "visione" della coscienza, avvicina Calendar a Lo Specchio di Andrej Tarkovskij. Nell'opera del regista russo, un'invisibile voce maschile identifica le figure di padre e figlio senza che si succedano in ordine cronologico. L'ordine del racconto non è imposto dalla succesione dei fatti, ma dalla libera esplorazione della coscienza che connette gli eventi più disparati attraverso la definizione di un'immagine, spesso insignificante, come la caduta di un vaso, l'osservazione di una natura morta, di un paesaggio e così via.
Sdoppiando il narratore nel fuori campo, Egoyan amplifica le possibilità del proprio sguardo rispetto alle forme del tempo: lungi dall'essere un semplice centro da cui parte l'esplorazione della realtà, il protagonista si dispone nel nodo temporale dove la memoria riconnette le immagini nel "tentativo" di dar loro un senso, di costituire con esse un discorso la cui forma sia la più "aperta" possibile.
Il calendario sembra inutile ad entrambi, è solo il pretesto per ricordare, la patina di eternità delle foto è pari alla perfezione dei volti delle compagne canadesi e non a caso le foto compaiono proprio nei rovesciamenti di campo, dove le donne al telefono conversano con i loro amanti senza curarsi dell'ospite.
Nei monasteri attraversati dalla videocamera o preparati per diventare delle foto, compaiono delle grandi lastre di pietra, addossate alle mura che circondano gli edifici. In una delle ultime inquadrature armene arrivano addirittura a riempire lo sfondo dell'immagine. Presso queste pietre si dispone silenzioso l'autista, mentre la traduttrice vaga in primo piano, scivolando in questo spazio piatto e dominato dalla frontalità, indifferente a ciò che la circonda
Sulle grandi lastre di pietra sono scolpite delle croci e delle decorazioni astratte che definiscono dei labirinti visivi su cui lo sguardo può vagare ininterrottamente. L'esperienza dello sguardo riflette così l'infinito e l'eterno.
Su queste pietre la croce orienta lo spazio circostante, proprio come gli edifici sacri. Quando queste pietre incise si trovano negli edifici, vengono collocate presso le soglie e nei luoghi di passaggio tra interno ed esterno.
Il khatchkar, "la pietra della croce" orienta lo spazio e lo sguardo, nonostante l'indifferenza dei protagonisti, che finiscono per comporre traiettorie ortogonali dentro lo spazio cinematografico fissato nei quadri armeni, prima di perdersi nel fuori campo.
Ma lo sguardo cinematografico non può prescindere dal tempo, la paziente orientazione del primo coinvolge la costruzione del secondo. Quadro dopo quadro, Egoyan ha scolpito il proprio khatchkar alla memoria di un amore infelice, un khatchkar del tempo.
 
Osservando una ripresa video dove l'autista e la compagna guardano improvvisamente verso l'obiettivo, Egoyan fotografo tenta di misurare la durata del distacco: "Mi misi vicino all'ingresso e puntai la telecamera verso voi due, per vedere dopo quanto tempo vi sareste accorti che ero lì, 2 minuti e 54 secondi, cercai di convincermi che quello era il tempo necessario per notare le persone amate che aspettano a pochi metri."
 
(Estratto da: Solitudini troppo silenziose : il cinema di Atom Egoyan / edito a cura di Alberto Scandola ; Cierre Edizioni, 1999)

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