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La Sottile Linea Rossa
 
di Terrence Malick (USA 1998)
 

"There's only a thin red line between the sane and the mad"
(vecchio motto del midwest)

Orso d'oro al festival di Berlino '99Dall'omonimo romanzo di James Jones il terzo lungometraggio di Terrence Malick (classe 1943).
Gli altri due film sono La rabbia giovane (1973) e I giorni del cielo (1979) che, se segnalano subito fra gli addetti ai lavori la genialità dell'allora giovane regista, non gli risparmiano le critiche della legge del business: la latitanza del pubblico. Malick si ritira, si occupa d'altro, fa perdere le proprie tracce fino al '90 quando mette in scena una sua riduzione teatrale del capolavoro di Mizoguchi L'intendente Sansho. A questo periodo risalgono le prime voci su un suo adattamento per il cinema del romanzo di Jones.
Il romanzo è fortemente rimaneggiato, prima in fase di sceneggiatura (per es. la decisione di far morire il soldato Witt); poi durante le riprese, per l'abitudine del regista ad improvvisare a seconda delle situazioni che si vengono a creare; infine in sala di montaggio dove, dai 500.000 metri di pellicola girati (un'enormità), viene ottenuto un premontaggio di 6 ore e poi quello definitivo di quasi 3 ore: la presenza di parecchi personaggi viene ridimensionata, alcuni scompaiono del tutto (p.e. quello interpretato da Bill Pullman), altre scene ancora vengono 'inglobate' in altre: sovrapponendo solo il sonoro.
A Malick viene data un'ampia libertà produttiva: 6 mesi di riprese, 8 mesi per il montaggio, 55 milioni di dollari il costo stimato del film. Una lunga lista di attori di primo piano si presenta per i provini: per la parte del protagonista, il soldato Witt, si presentano attori quali B. Pitt e J. Depp. Ma il regista sembra prediligere facce nuove, o quasi, al grande pubblico per i personaggi che più si fanno portatori del suo credo (il soldato Witt e il capitano Staros). A parte la grande interpretazione di S. Penn, gli altri attori famosi impegnati nel film (come Clooney, Travolta, Nolte) si ripropongono nei loro ruoli più convenzionali. Simile dispendio di energie e uomini indica la considerazione, il mito artistico che negli anni è cresciuto intorno al nome di Malick; ma anche la fiutata possibilità di un rilancio in grande stile di un regista dotato e della carriera di una serie di attori.
Soggetto del film alcune fasi della battaglia che vide contrapporsi, fra l'agosto '42 e il marzo '43, l'esercito americano e quello giapponese a Guadalcanal, nell'arcipelago delle Salomone. Battaglia cruenta e fondamentale dal punto di vista strategico: con la sconfitta di Guadalcanal (dove stavano dislocando una base militare) i giapponesi perdono la supremazia militare nel Pacifico; con questa vittoria, gli americani riprendono la controffensiva in oriente dopo la rovinosa disfatta birmana. Sull'argomento: La guerra del Pacifico, un recente libretto di François Garçon per la collana XX Secolo dell'ed. Giunti.
Le riprese del film, per ragioni di comodità produttiva, non si svolgono a Guadalcanal (se non quelle del prologo, girate per ultime), bensì nel nord dell'Australia, in un'ambientazione comunque analoga. La lussureggiante e colorata foresta equatoriale, le colline coperte da fitta erba alta sono gli scenari del film. Le riprese delle scene di guerra sono girate con una pellicola da 70mm per ottenere una maggiore luminosità e definizione dell'immagine, nonché per segnare una differenza rispetto a quelle della vita quotidiana della truppa.

Sergente Maggiore Welsh (Sean Penn)L'ambientazione e il 'tono' introspettivo, visionario del film ci avvicinano più a classici sulla guerra in Vietnam che a quelli sulla II W.W., a un Apocalypse Now per esempio.
Malick: "La guerra non può che apparire ancor più contro natura se si svolge in un luogo edenico". Per il regista la guerra non è che la situazione estrema, l'evento eccezionale che mette a nudo l'Io dell'uomo (da notare: maschio), l'ampiezza dello spettro morale di cui è capace. Ogni personaggio è isolato dagli altri, ciascuno è imprigionato nella propria soggettività. Ciascuno reagisce a modo suo alla barbarie e al caos: il capitano Staros con il conforto della religione; il soldato Dale attraverso una regressione selvaggia (strappa i denti d'oro ai giapponesi uccisi); Bell nell'unione mistico-sensuale con l'amata moglie lontana; il sergente Welsh in un cinico e scettico esistenzialismo. Solo Witt, nel quale sono riconoscibili tratti del trascendentalismo emersoniano, è capace di empatia con tutto il creato. Non sembra il protagonista di un film di guerra, quanto di un'avventura nella meraviglia dei sensi e dello spirito; è un pensiero disincarnato, un'idea senza corpo. Affascinante pensare a tutto il film, dallo sbarco in poi, come a un lungo flash-back attraverso gli occhi di chi si trova ormai in un'altra dimensione, quella di Witt nella placida eternità della morte.
Come può accadere tutto questo? Il Male è nell'uomo o è insito nella Natura stessa? E' esistito un Uomo in armonia con tutto il resto del Creato dal quale si è man mano allontanato o è la Natura stessa Caos e Male, matrigna e non madre, sadianamente permissiva e quindi autodistruttrice? Sulle impossibili risposte a questi domandoni si confrontano, in un continuo incontro-scontro, i due personaggi simbolo del film: da una parte il sergente Welsh, dall'altra Witt, in un mondo pervaso costantemente dalla presenza di divinità (la luce che filtra dall'alto, l'alito che sposta la fiamma della candela...) che trasfondono la religione in una sorta di incantato panteismo, il film in una incessante preghiera. E sospiri di spiriti sembrano le continue voci-over che accompagnano gli sguardi attoniti dei soldati di fronte alla barbarie. Un flusso di coscienza di cui non tutti possono fare sfoggio: l'interiorità si manifesta allora come monologo folle (del sergente, interpretato da John Savage, che ha visto morire tutta la propria squadra) o solo attraverso le espressioni del volto, le posture del corpo. Solo queste ultime e non altro possono gli intraducibili soldati giapponesi: Altro irriducibile rispetto all'Io del soldato americano. E Witt muore circondato dalle varie rifrazioni di questa Morte dal monologo incomprensibile, un linguaggio rituale (Witt: "mi domando come sarà il mio ultimo respiro... spero di essere calmo... è lì l'immortalità che non ho mai visto...").
Guerra di soldati, di piccoli ufficiali che hanno il coraggio di opporre la propria coscienza al codice militare dell'ubbidienza, agli ordini suicidi di vecchi generali guerrafondai, perché la guerra l'hanno vissuta solo sui libri di scuola, sulle mappe strategiche di West Point, nei canti omerici...
La guerra appare tanto più assurda perché combattuta da uomini educati a rifiutarla come 'metodo'. Fondare lo stato sociale sul rispetto del prossimo, sulla pacifica convivenza, sul rifiuto della violenza e poi essere costretti a calpestare quei valori con lo scopo dichiarato di difenderli: è il paradosso della guerra necessaria che, se risulta più facilmente giustificabile in questo contesto, mostrerà tutta la propria ipocrisia quando verrà applicato al Vietnam ("tutto è proprietà" dice Welsh. E il mito della frontiera, come identità che si compone solo nella espansione senza sosta, non è mai tramontato negli U.S.A.: tutto il cinema bellico hollywoodiano - di guerra e western- narra di last stands and lost patrols).
Sergente McCron (John Savage)Schizofrenia latente nei personaggi dunque: come si potrà tornare a casa ed essere come prima, credere a quello in cui si credeva prima? Per esempio 'sdoppiandosi' e mandando in guerra un simulacro a sfidare le pallottole, come fa Bell, che è sempre a casa con la moglie. E schizofrenia del film che se da un lato esalta l'eroismo individuale dall'altro si compone come i frammenti del canto elegiaco di un'umanità votata al male e alla morte, di un'anima sopraffatta dall'orrore ("noi viviamo in un mondo che si sta sempre più spostando verso l'inferno" dice pressappoco il sergente Welsh). Appunto frammenti sono quelli che compone Malick. La sua opera di scarnificazione del tessuto del racconto, i vuoti nella continuità, il montaggio che apre continue vie di fuga, digressioni, inserti stranianti (i quadri da etologo nell'infuriare della battaglia), costringe a una costruzione di senso che si componga come un montaggio differito del film. Malick presenta così le cose, le proprie idee sul mondo: prima che acquistino una loro retorica. Sembra tentare il recupero e la riformulazione di domande/immagini sempre attuali ma prima della loro banalizzazione, in uno sforzo evocativo più che esplicativo, emozionale più che razionale. "Il film non arriva mai alla compiutezza, alla quadratura del cerchio, ma ogni volta prende una strada diversa. Come i suoi personaggi che sono su un campo di battaglia ma sono sempre altrove" (Pezzotta).

Manlio Piva

Riferimenti bibliografici.
Gli articoli di: A. Piccardi, B. Fornara, P. Vecchi, F. La Polla, A. Crespi in Cineforum n.382; A. Cappabianca, A. Pezzotta, G. Paganelli, G. Gariazzo in Filmcritica n. 494; G. Smith in Filmcomment n. 35; M. Ciment in Positif n. 446.

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