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ikujiro di Umberto Fasolato |
E' Roland Barthes, nel suo ormai noto libro
"L'impero dei segni", a suggerirci una chiave
di lettura per un film di Kitano: tutta la vita giapponese e in
modo particolare quella artistica, sono un'incessante
attività di scrittura. Questa immagine va considerata
senza limitare la scrittura ad una semplice attività al
servizio del linguaggio e della parola; dovremo intenderla come
una continua e sistematica creazione di segni.
Segni che di primo acchito vorrebbero essere decifrati, come
gli angeli che incontriamo all'inizio e al termine del
film, dopo i titoli di coda, e nel cuore drammatico del viaggio
di Masao e Kikujiro, ma che invece si rivelano refrattari a
qualsiasi traduzione e indicano che il testo non si svolge
soltanto seguendo il percorso simbolico del viaggio, ma
soprattutto attraverso le immagini che vediamo, figure che
deviano la comprensione del testo simbolico in un mirato
vagabondare del senso da immagine ad immagine.
La decifrazione importa poco, i segni servono per indicare
qualcosa, per spingere l'interprete e lo spettatore verso
la vita del testo; la loro combinazione non segue una sintassi
precostituita, non ci troviamo in un viaggio
"iniziatico" di Masao o di Kikujiro, ma in
verità siamo all'interno di un album di ricordi
illustrato in modo molto particolare.
Sono delle polaroid "animate", scattate dalla
memoria di Masao e ordinate nel testo seguendo solo
apparentemente la successione degli incontri e delle avventure
con Kikujiro. Fin dal primo di questi originali collage, Masao
mostra di afferrare a proprio piacimento elementi della
realtà, abbinandoli del tutto arbitrariamente rispetto
alle situazioni che ci offre la vicenda, mostra già di
aver "imparato" dal compagno di viaggio a dipingere
la realtà, a truccarla, a modificarla integrandovi
elementi disparati che ci fanno conoscere il suo punto di vista
sul episodio accaduto, su una parte dell'estate che presto
si svolgerà sotto i nostri occhi in forma di narrazione
cinematografica.
Sono soprattutto le didascalie che ci preparano agli eventi
successivi, li anticipano con un breve commento che indica cosa
succederà nel quadro seguente. La storia è
smembrata e ricomposta dalle mani e dalla memoria di Masao, non
appartiene esclusivamente allo svolgersi del racconto che pedina
il vagabondare dei protagonisti. Vediamo ciò che Masao ha
scelto di mettere dentro la sua cornice, che indica ed isola un
episodio e, commentandolo, ci invita ad un balzo interpretativo
che oltrepassa la semplice fruizione diretta della storia, la
successione dei fatti e degli eventi.
Puntuali le interruzioni del racconto ci preparano a
ciò che vedremo e dicono cosa è già
successo; le didascalie indicano il testo senza lasciarlo
scorrere trasparente in un simbolico viaggio iniziatico, lo
interrompono e lo "svelano", per lasciarci invece
tutto il piacere di leggere come si svolge la vicenda
"reale" delle immagini.
Abbiamo appena verificato come più tempi si addensino
nei vari segmenti del film, ma non possiamo trascurare le ellissi
narrative della scrittura cinematografica di Kitano. Il nostro
autore produce spesso "il vuoto" sistematico del
momento o dei momenti cruciali di una sequenza, lasciandoci
ciò che precede un impatto e ciò che ne segue, come
nel caso dei pugni con cui Kikujiro è sistemato alla fiera
paesana. Il corpo del protagonista diventa la superficie dove si
disegnano le traiettorie del pestaggio, senza aver assistito a
nessuna rissa. Questo interessa a Kitano: la scrittura, ovunque
si possa praticare; la scrittura dell'immagine è
l'elemento "da leggersi" con più
attenzione e spesso i corpi e i volti offrono la superficie
necessaria a raccogliere le traiettorie dell'azione o
magari misteriose linee di forza che determinano uno spazio
inconsueto "intorno" alla figura.
Se infatti le botte sono i segni del pestaggio, assai
più misterioso ed inquietante è il tatuaggio sulla
schiena di Kikujiro. In questo caso la schiena è una vera
e propria superficie scrivibile del corpo; infatti è
occupata interamente dalla figura di una divinità
dell'affollatissimo panteon giapponese, solitamente si
tratta di una divinità "naturale" e in ogni
modo ciò che turba di più Masao è il fatto
evidente che il demone lo guarda dritto negli occhi. Non è
solo il demone a spaventare Masao e a produrre il suo incubo, ma
il fatto che questo demone sia un tutt'uno col proprio
compagno di viaggio, anzi, gli guardi le spalle e gli consenta
una visione a 360°, occhi che nessuno essere umano possiede.
Vero è che, dall'incubo suscitato dal tatuaggio al
termine del film, quella protezione soprannaturale servirà
ben poco alla forza di Kikujiro, ma il gioco nella terra
retrostante alla spiaggia, "le belle statuine",
sembra ricordare proprio il problema del guardarsi alle
spalle.
Se l'ellissi provoca dei vuoti, delle trappole, nella
progressione della storia i sogni generano invece un
cortocircuito temporale: ritornano al passato per lanciarsi in un
futuro di cui non conosciamo le coordinate narrative, il ritorno
alla realtà è un momento di condensazione temporale
particolare, dato che non sappiamo mai "quanto tempo
è passato" dall'ultimo riconoscibile evento
della narrazione.
Un'altra forma del tempo incide così nello
svolgimento del racconto ostacolandone la linearità, ma
questo segnale ci era giunto quasi subito all'inizio della
storia, quando Masao era stato affidato ad un perdigiorno
vagabondo come Kikujiro. Ci è stato indicato fin da subito
che la storia avrebbe subito delle "deviazioni", che
non sarebbe arrivata dritta alla meta fissata da Masao.
Se avessimo "ascoltato" ci saremmo accorti che lo
zaino "alato" della prima inquadratura di Masao non
corrisponde a quello con cui inizia la storia insieme al compagno
di scuola. Lo zaino che lo indica come un angelo (è sempre
una questione di spalle "da disegnare", superfici
dove scrivere un segno) è un regalo dei giovani con la
jeep rossa in un "anticipo" del divertimento che
chiude il racconto. La prima inquadratura è così
più vicina all'ultima corsa sul ponte, il film si
chiude lì dove era iniziato con una traiettoria
"aperta", un cerchio immaginario dove inizio e fine,
coincidendo, non sono momenti particolari della vicenda, chiavi
risolutive, ma solo tappe di un viaggio che continua, del resto
Kikujiro ha appena promesso che torneranno a cercare la madre,
promessa che suona come un "torneremo a
giocare...".
La prima attività di scrittura che incontriamo nel
testo riguarda il tempo della narrazione: i quadri, le ellissi, i
sogni e il montaggio dell'intera storia (eseguito proprio
da Kitano) ci impediscono di uniformare la durata del viaggio in
un ordine quantitativo di tempo; alla domanda "quanto
è durato il viaggio?" non abbiamo una risposta
precisa, un'intera estate, come vorrebbe farci credere
l'insieme e il senso delle didascalie e delle finte
polaroid o pochi giorni di viaggio, come lascia intendere la
successione dei giorni e delle notti che comprendono le vicende
per raggiungere la madre e poi fare ritorno a Tokyo.
Dalla forma del tempo nel racconto ricaviamo un aspetto
interessante del segno: la sua capacità di interrogare
continuamente lo spettatore sottraendosi a qualsiasi risposta.
L'indeterminatezza temporale, l'impossibilità
di quantificare esattamente la durata del viaggio, ci suggerisce
di cercare la forma del tempo nelle modalità di
composizione (di scrittura) del segno.
La continuità temporale del viaggio è solo
apparente, nasce dalla giustapposizione dei quadri animati che
indicano, "incorniciano" le diverse vicende; Masao,
come un narratore scaltro, racconta citando: il suo album
è formato dalla composizione di immagini del viaggio che
evidenziano il grado di libertà nell'ordinare la
vicenda e sottolineano la preminenza del suo punto di vista. Si
tratterebbe di un narratore capace di giocare col tempo, di
mostrarci il suo scorrere, il suo "cadere" uniforme e
continuo come l'esito di tante correnti diverse ma unite
insieme, come la cascata degli angeli sospesi che disegna (e non
scrive) il finale del film dopo i titoli di coda.
Finora abbiamo parlato di alcuni dei modi con cui si mostra la
scrittura, ma adesso concentriamoci sulla forma che indica e
consente la presenza di un segno, la struttura intorno alla quale
costruirlo. Si tratta di una pagina bianca molto particolare, di
sicuro "non occidentale" e quindi priva di tutte le
connotazioni negative che riguardano la mancanza
d'ispirazione soggettiva; più che una pagina bianca
è una carta vuota. E' il vuoto che consente ad ogni
segno di prendere forma. Il vuoto sarà quindi sempre
visibile, sempre in attività nel comporre il segno e
già per la struttura narrativa parlavamo di ellissi come
di vuoti e di quadri come frammenti di viaggio giustapposti e non
semplicemente disposti uno dopo l'altro. Il vuoto al lavoro
nella manifestazione del segno, questa sembra essere la struttura
dinamica intorno alla quale prende forma l'immagine di
Kitano. Tentiamo allora di coglierlo in alcune sequenze
dell'estate di Kikujiro.
Inizieremo analizzando alcuni vuoti essenziali
dell'immagine, vuoti che scrivono il senso di ciò
che vediamo senza che ci sia bisogno di aggiungere
alcunché; la nostra sarà solo una descrizione del
segno in cui il vuoto appare come struttura portante.
La prima inquadratura che colpisce sotto questo aspetto
è il campo di calcio: è terminato il tempo regolato
e preciso della scuola, le vie della città si spopolano
per le vacanze, i compagni di giochi se ne vanno o se ne sono
già andati, ma come indicare (e non rappresentare) la
solitudine e l'isolamento cui è costretto Masao?
L'immagine più efficace disposta da Kitano è
la sterminata pagina bianca definita dal campo di calcio deserto,
ripreso da un'altissima gru. Masao è trasformato in
una figurina insignificante, un puntino blu e arancione che
calcia nel vuoto il pallone, un gesto che non trova nessuna
squadra pronta ad accoglierlo. Proprio nel punto di vista
più favorevole per leggere il gioco di due formazioni (e
non dimentichiamo che Kitano è stato commentatore
sportivo) come una sorta di ideogramma, noi incontriamo per la
prima volta il vuoto assoluto che indica e "scrive"
la solitudine di Masao. La macchina da presa è "alla
giusta distanza" in modo che la solitudine si manifesti da
sé, senza bisogno di aggiungere altro, solo grazie alla
scelta del punto di vista che mobilita direttamente lo spazio del
campo di calcio e la figurina colorata del nostro protagonista.
Prima avevamo inteso dal custode che la scuola di calcio era
chiusa, ma ora, quando esplode il campo da calcio vuoto,
comprendiamo la risposta senza parole di Masao.
A questo
proposito possiamo osservare fin d'ora come i personaggi siano in
realtà delle figure. Per chiarire meglio questa differenza
fondamentale, ricorriamo sia alle notazioni di Barthes sia alla
nostra visione del film. Osserviamo, per esempio, come il volto
di Masao, oppure quello di Kikujiro, non cambi mai espressione,
detto in altri termini, le emozioni, i pensieri, i sentimenti che
caratterizzano la loro individualità non si possono
scorgere nei loro primi piani. Vero è che i primi piani
non sovrabbondano nel film, Kitano mostra di preferire il piano
lungo, se non addirittura il campo totale. Tuttavia l'impressione
di visi impassibili resta nella mente dello spettatore, ma non
meno intensa risulta l'emozione, la passione dei personaggi, la
percezione nitida e chiara della loro
"interiorità", solo non è collocata nel
luogo dove ci aspetteremmo di trovarla.
Sulla scorta de "L'impero dei segni"
possiamo osservare che i visi dei protagonisti sono impassibili e
fragili. Non lasciano trasparire nessuna emozione, nessuna
interiorità nascosta dietro la loro superficie, non ci
consentono di ancorare le nostre proiezioni emotive, le
riflessioni sulla loro condizione interiore; tutte le nostre
riflessioni "scivolano" su queste superfici, non si fermano, non
si stabiliscono, non ci restituiscono alcuna certezza. Eppure in
questi "volti vuoti", in queste "pagine vuote", scorgiamo il
disegno allungato degli occhi scuri e profondi, il taglio delle
labbra, la smorfia segnata sul volto di Kitano-Kikujiro e tutti i
movimenti di un volto che rinuncia a rappresentare un
personaggio, limitandosi invece ad indicarne la presenza, a
significarne le azioni, i pensieri e gli stati interiori; il
volto stesso più che pagina è una vera e propria
"carta", ne possiamo scorgere le fibre, la tessitura,
non è solo una dimensione "tipografica". I
volti sembrano specchi, ma non per riflettere la nostra immagine,
bensì specchi "orientali", superfici che accolgono ogni
immagine e non ne trattengono nessuna.
Sembrano proprio volti per una scrittura, a ben vedere anche i
compagni di viaggio non sono da meno, i loro nomi non entrano
nella storia, esistono solo attraverso i soprannomi che indicano
la loro "superficie scrivibile": il Pelato e il Ciccione, il
primo sarà dipinto sulla testa rapata (il polpo,
l'extraterrestre, il cocomero), il secondo offrirà
l'intera superficie del corpo massiccio per un pesce volante, un
indiano e così via. Anche il poeta, pur non partecipando
ai teatrini d'acqua e di terra, è il segnale di
un'attività di scrittura che scatenerà
l'immaginazione di Masao: il racconto del mestolo non è
altro che una prima forma di scrittura sulla complicata
superficie della memoria; il poeta, seguendo e indicando il
cammino delle costellazioni, racconta miti; grazie al movimento
degli astri traccia il tempo nella memoria. Masao compirà
una sintesi originale di giochi, maschere e cielo stellato
proprio al termine della vacanza nella golena disabitata, ma su
questo torneremo in seguito, per ora osserviamo soltanto come i
personaggi siano in realtà delle superfici dove tracciare
dei segni o delle figure.
Non possiamo chiudere questa parentesi sulla figura senza
domandarci dove sia finita la coscienza che caratterizza il
personaggio. Il gesticolare improvviso e insieme deciso di
Kikujiro, i movimenti trattenuti o ridotti al minimo di Masao, i
loro volti insieme impassibili e fragili ci indicano che non si
trova in una sfera protetta e separata, privilegiata e sempre
traducibile in parole.
Kikujiro si direbbe un autentico "incosciente" per i suoi
gesti scontrosi e immediati che non si conciliano mai alle facce
altrui, quasi ubbidisse al comandamento Zen di "non esitare";
Masao, invece, sa attendere pazientemente il momento
dell'incontro con la madre, l'unico scopo del suo viaggio.
Veniamo a conoscenza delle loro intenzioni dai loro gesti, dai
loro movimenti controllati o manifestamente contrari ad ogni
attesa; ma allora, dove si trova la loro "anima", termine che
Barthes stesso segnala come troppo pericoloso ai nostri orecchi
occidentali, assuefatti al suo primato? Possiamo affermare che si
trova dislocata nel corpo. Vere e proprie marionette kleistiane,
la loro coscienza non è concentrata in un'instancabile
descrizione di sé, o del proprio ordinamento, o della
propria evoluzione, ma è tutta rivolta all'agire,
senz'alcuna mediazione. L'evidenza dei gesti "contrari" di
Kikujiro, la posa fragile e impassibile di Masao non sono
semplici movimenti, ma chiare indicazioni che la così
detta coscienza è tutta "rivolta" e impegnata in un
continuo confronto-scontro con il reale, diremo in maniera ancora
più precisa con la terribile evidenza del reale incarnata
e resa manifesta dalle immagini vuote e dai paesaggi vuoti dove
Kitano inserisce le sue figure, le sue marionette.
L'aggettivo straniante per i gesti e per i protagonisti de
L'estate di Kikujiro mi sembra eccessivo, non si
produce mai una frattura, un'indicazione brechtiana della
coscienza al lavoro nel reale e non in una rappresentazione; quei
tagli, quelle separazioni che crederemo di dover operare per
attivare una riflessione cosciente non si producono mai, e
neppure è necessario produrli, ogni gesto è
già l'indicazione di un pensiero in atto (bugie comprese)
e il legame tra le figure e il paesaggio, affidato all'azione
sempre evidente del vuoto, è tutto altro che uno sfondo
illusionistico e consolatorio, è "il reale".
La chiave per interpretare il rapporto tra le figure e lo
"sfondo" sta proprio nella circolazione continua imposta alla
nostra visione dai paesaggi svuotati di punti di riferimento per
il nostro occhio, luoghi trasformati in superfici bianche
indeterminate come la spiaggia su cui approdano i nostri due
protagonisti, dopo aver mancato l'incontro con la madre di Masao,
in verità più che di un semplice incontro si tratta
del tentativo di ricostruire un'unità familiare e
affettiva, una ricostruzione mancata.
Le spiagge oceaniche, catturate in campi totali o in brevi
panoramiche che seguono la traiettoria delle due figure, sembrano
piatte pennellate colorate, strati di colore dipinti alla maniera
giapponese dove il colore stesso non è tinta che ricopre,
ma un'indicazione della presenza del vuoto, che impone ai nostri
occhi il paesaggio in tutta la sua irriducibile e vitale
evidenza. Disposta alla giusta distanza, la macchina da presa di
Kitano indica il reale alla cui incessante dinamicità i
protagonisti devono piegarsi.
L'indeterminata personalità di Kikujiro, la sua
completa incoscienza diventano improvvisamente fondamentali per
la vicenda; non servono a distrarre, a distogliere banalmente
Masao dal fallimento del suo progetto, il perdigiorno e vagabondo
Kikujiro adesso deve svolgere un compito molto preciso: far
imparare a Masao l'irriducibile evidenza della realtà
proprio a partire dalla terribile indeterminatezza della spazio
naturale. Kikujiro assomiglia per molti aspetti a quelli aiutanti
apparentemente inutili e controproducenti dei romanzi moderni,
aiutanti che distolgono i protagonisti dal loro obiettivo, che ne
disperdono l'azione, che hanno il compito singolare di
"divertire" il protagonista ossessionato dal proprio
progetto; indicano così la presenza incombente di una
realtà irriducibile a qualsiasi disegno della
coscienza.
Tuttavia Kikujiro impersona
anche l'aiutante tipico della fiaba, nonostante il protagonista
non possa più raggiungere la propria meta, portare a
termine, completare la propria vicenda. Il dono dell'angelo
campanellino è il primo segno di questa funzione riservata
alla figura di Kikujiro; "sapientemente" estorto a quelli che in
seguito diventeranno i compagni di giochi nella golena, il
portafortuna non esaudisce i desideri, ma indica con il suo volo,
con il suo restare sospeso, condizione che ha colpito
inizialmente Kikujiro e l'ha spinto ad impossessarsene, la
vittoria sulla legge di gravità.
La sospensione nel vuoto gli consente di suonare, figura del
vuoto tra le mani di Masao in una delle inquadrature più
singolari del film: s'inizia con il cielo da cui emerge
gigantesco o, con un singolare rovesciamento delle proporzioni,
potremo considerarlo in primo piano, dato che si tratta di un
portafortuna che sta nel palmo di una mano. Poi cala dal cielo
rimpicciolendosi e illuminandosi tra le mani di Masao nascosto in
un tubo di cemento, che però diventa un cannocchiale, un
dispositivo ottico per inquadrare (sovrainquadrare) sullo sfondo
la figura vegliante di Kikujiro. Se consideriamo la macchina da
presa come un pennello sulla carta, potremo immaginare una
"pressione" in corrispondenza dell'apparizione gigantesca
dell'angelo e una distensione o sollevamento man mano che scende
e si stabilisce nelle mani di Masao. In questo modo si configura
una sorta di "profondità" del segno determinata nel gesto:
invertite le proporzioni "tradizionali", la profondità
è indicata dal segno e non ricavata dalle regole della
rappresentazione. Il segno poi continua il suo tracciato,
cambiando ancora modalità (potremo dire "pressione"),
quando il nostro sguardo attraversa il "cannocchiale" definito
dal tubo, grazie al quale vediamo Kikujiro che veglia sul proprio
compagno.
Kitano stabilisce così una vera e propria calligrafia
della visione; come ho già detto la profondità non
è dettata dalle condizioni della rappresentazione, ma
dalle differenti "pressioni" definite e leggibili nel movimento,
nel tracciato eseguito dalla macchina da presa, dalla
sovrimpressione dell'angelo ad un tempo gigantesco e minuscolo e
dalla posizione di Kikujiro.
Volo e superamento della legge di gravità sono i primi
giochi inventati da Kikujiro, "il signore ha giocato con me"
è la didascalia sotto la "polaroid" dell'angelo di sabbia
da cui riparte il cammino dei due personaggi. Il gioco insegue il
vuoto, tenta di adottarne l'andamento e di indicarci il segreto
del multiforme nell'unità più semplice, nella forma
che abbisogna del minor numero di regole.
Il gioco delle belle statuine è molto semplice ed
è ripetuto in tutte le varianti possibili nella golena;
prima di partire, il poeta, Kikujiro e Masao lo inscenano ancora
in un parcheggio ai limiti di Tokyo. Di nuovo una superficie
vuota, stavolta però si dispone al gioco, grazie al bidone
giallo i tre personaggi scrivono, disegnano sulla superficie
d'asfalto un geroglifico che non significa nient'altro che il
loro divertimento. Kitano ci mostra tutto il percorso delle tre
marionette come se la sequenza fosse un pezzo da cinema
d'animazione, una gag da cartone animato giocata sul senso
dello "stare alle spalle", del sorprendere il protagonista e
viceversa. Kitano ferma la sua attenzione ancora sulle
traiettorie scritte sulla superficie vuota d'asfalto, il gioco
è diventato sinonimo di scrittura.
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