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Kikujiro

di Umberto Fasolato

 

E' Roland Barthes, nel suo ormai noto libro "L'impero dei segni", a suggerirci una chiave di lettura per un film di Kitano: tutta la vita giapponese e in modo particolare quella artistica, sono un'incessante attività di scrittura. Questa immagine va considerata senza limitare la scrittura ad una semplice attività al servizio del linguaggio e della parola; dovremo intenderla come una continua e sistematica creazione di segni.
Segni che di primo acchito vorrebbero essere decifrati, come gli angeli che incontriamo all'inizio e al termine del film, dopo i titoli di coda, e nel cuore drammatico del viaggio di Masao e Kikujiro, ma che invece si rivelano refrattari a qualsiasi traduzione e indicano che il testo non si svolge soltanto seguendo il percorso simbolico del viaggio, ma soprattutto attraverso le immagini che vediamo, figure che deviano la comprensione del testo simbolico in un mirato vagabondare del senso da immagine ad immagine.
La decifrazione importa poco, i segni servono per indicare qualcosa, per spingere l'interprete e lo spettatore verso la vita del testo; la loro combinazione non segue una sintassi precostituita, non ci troviamo in un viaggio "iniziatico" di Masao o di Kikujiro, ma in verità siamo all'interno di un album di ricordi illustrato in modo molto particolare.
Sono delle polaroid "animate", scattate dalla memoria di Masao e ordinate nel testo seguendo solo apparentemente la successione degli incontri e delle avventure con Kikujiro. Fin dal primo di questi originali collage, Masao mostra di afferrare a proprio piacimento elementi della realtà, abbinandoli del tutto arbitrariamente rispetto alle situazioni che ci offre la vicenda, mostra già di aver "imparato" dal compagno di viaggio a dipingere la realtà, a truccarla, a modificarla integrandovi elementi disparati che ci fanno conoscere il suo punto di vista sul episodio accaduto, su una parte dell'estate che presto si svolgerà sotto i nostri occhi in forma di narrazione cinematografica.
Sono soprattutto le didascalie che ci preparano agli eventi successivi, li anticipano con un breve commento che indica cosa succederà nel quadro seguente. La storia è smembrata e ricomposta dalle mani e dalla memoria di Masao, non appartiene esclusivamente allo svolgersi del racconto che pedina il vagabondare dei protagonisti. Vediamo ciò che Masao ha scelto di mettere dentro la sua cornice, che indica ed isola un episodio e, commentandolo, ci invita ad un balzo interpretativo che oltrepassa la semplice fruizione diretta della storia, la successione dei fatti e degli eventi.
Puntuali le interruzioni del racconto ci preparano a ciò che vedremo e dicono cosa è già successo; le didascalie indicano il testo senza lasciarlo scorrere trasparente in un simbolico viaggio iniziatico, lo interrompono e lo "svelano", per lasciarci invece tutto il piacere di leggere come si svolge la vicenda "reale" delle immagini.
Abbiamo appena verificato come più tempi si addensino nei vari segmenti del film, ma non possiamo trascurare le ellissi narrative della scrittura cinematografica di Kitano. Il nostro autore produce spesso "il vuoto" sistematico del momento o dei momenti cruciali di una sequenza, lasciandoci ciò che precede un impatto e ciò che ne segue, come nel caso dei pugni con cui Kikujiro è sistemato alla fiera paesana. Il corpo del protagonista diventa la superficie dove si disegnano le traiettorie del pestaggio, senza aver assistito a nessuna rissa. Questo interessa a Kitano: la scrittura, ovunque si possa praticare; la scrittura dell'immagine è l'elemento "da leggersi" con più attenzione e spesso i corpi e i volti offrono la superficie necessaria a raccogliere le traiettorie dell'azione o magari misteriose linee di forza che determinano uno spazio inconsueto "intorno" alla figura.
Se infatti le botte sono i segni del pestaggio, assai più misterioso ed inquietante è il tatuaggio sulla schiena di Kikujiro. In questo caso la schiena è una vera e propria superficie scrivibile del corpo; infatti è occupata interamente dalla figura di una divinità dell'affollatissimo panteon giapponese, solitamente si tratta di una divinità "naturale" e in ogni modo ciò che turba di più Masao è il fatto evidente che il demone lo guarda dritto negli occhi. Non è solo il demone a spaventare Masao e a produrre il suo incubo, ma il fatto che questo demone sia un tutt'uno col proprio compagno di viaggio, anzi, gli guardi le spalle e gli consenta una visione a 360°, occhi che nessuno essere umano possiede. Vero è che, dall'incubo suscitato dal tatuaggio al termine del film, quella protezione soprannaturale servirà ben poco alla forza di Kikujiro, ma il gioco nella terra retrostante alla spiaggia, "le belle statuine", sembra ricordare proprio il problema del guardarsi alle spalle.
Se l'ellissi provoca dei vuoti, delle trappole, nella progressione della storia i sogni generano invece un cortocircuito temporale: ritornano al passato per lanciarsi in un futuro di cui non conosciamo le coordinate narrative, il ritorno alla realtà è un momento di condensazione temporale particolare, dato che non sappiamo mai "quanto tempo è passato" dall'ultimo riconoscibile evento della narrazione.
Un'altra forma del tempo incide così nello svolgimento del racconto ostacolandone la linearità, ma questo segnale ci era giunto quasi subito all'inizio della storia, quando Masao era stato affidato ad un perdigiorno vagabondo come Kikujiro. Ci è stato indicato fin da subito che la storia avrebbe subito delle "deviazioni", che non sarebbe arrivata dritta alla meta fissata da Masao.
Se avessimo "ascoltato" ci saremmo accorti che lo zaino "alato" della prima inquadratura di Masao non corrisponde a quello con cui inizia la storia insieme al compagno di scuola. Lo zaino che lo indica come un angelo (è sempre una questione di spalle "da disegnare", superfici dove scrivere un segno) è un regalo dei giovani con la jeep rossa in un "anticipo" del divertimento che chiude il racconto. La prima inquadratura è così più vicina all'ultima corsa sul ponte, il film si chiude lì dove era iniziato con una traiettoria "aperta", un cerchio immaginario dove inizio e fine, coincidendo, non sono momenti particolari della vicenda, chiavi risolutive, ma solo tappe di un viaggio che continua, del resto Kikujiro ha appena promesso che torneranno a cercare la madre, promessa che suona come un "torneremo a giocare...".
La prima attività di scrittura che incontriamo nel testo riguarda il tempo della narrazione: i quadri, le ellissi, i sogni e il montaggio dell'intera storia (eseguito proprio da Kitano) ci impediscono di uniformare la durata del viaggio in un ordine quantitativo di tempo; alla domanda "quanto è durato il viaggio?" non abbiamo una risposta precisa, un'intera estate, come vorrebbe farci credere l'insieme e il senso delle didascalie e delle finte polaroid o pochi giorni di viaggio, come lascia intendere la successione dei giorni e delle notti che comprendono le vicende per raggiungere la madre e poi fare ritorno a Tokyo.
Dalla forma del tempo nel racconto ricaviamo un aspetto interessante del segno: la sua capacità di interrogare continuamente lo spettatore sottraendosi a qualsiasi risposta. L'indeterminatezza temporale, l'impossibilità di quantificare esattamente la durata del viaggio, ci suggerisce di cercare la forma del tempo nelle modalità di composizione (di scrittura) del segno.
La continuità temporale del viaggio è solo apparente, nasce dalla giustapposizione dei quadri animati che indicano, "incorniciano" le diverse vicende; Masao, come un narratore scaltro, racconta citando: il suo album è formato dalla composizione di immagini del viaggio che evidenziano il grado di libertà nell'ordinare la vicenda e sottolineano la preminenza del suo punto di vista. Si tratterebbe di un narratore capace di giocare col tempo, di mostrarci il suo scorrere, il suo "cadere" uniforme e continuo come l'esito di tante correnti diverse ma unite insieme, come la cascata degli angeli sospesi che disegna (e non scrive) il finale del film dopo i titoli di coda.
Finora abbiamo parlato di alcuni dei modi con cui si mostra la scrittura, ma adesso concentriamoci sulla forma che indica e consente la presenza di un segno, la struttura intorno alla quale costruirlo. Si tratta di una pagina bianca molto particolare, di sicuro "non occidentale" e quindi priva di tutte le connotazioni negative che riguardano la mancanza d'ispirazione soggettiva; più che una pagina bianca è una carta vuota. E' il vuoto che consente ad ogni segno di prendere forma. Il vuoto sarà quindi sempre visibile, sempre in attività nel comporre il segno e già per la struttura narrativa parlavamo di ellissi come di vuoti e di quadri come frammenti di viaggio giustapposti e non semplicemente disposti uno dopo l'altro. Il vuoto al lavoro nella manifestazione del segno, questa sembra essere la struttura dinamica intorno alla quale prende forma l'immagine di Kitano. Tentiamo allora di coglierlo in alcune sequenze dell'estate di Kikujiro.
Inizieremo analizzando alcuni vuoti essenziali dell'immagine, vuoti che scrivono il senso di ciò che vediamo senza che ci sia bisogno di aggiungere alcunché; la nostra sarà solo una descrizione del segno in cui il vuoto appare come struttura portante.
La prima inquadratura che colpisce sotto questo aspetto è il campo di calcio: è terminato il tempo regolato e preciso della scuola, le vie della città si spopolano per le vacanze, i compagni di giochi se ne vanno o se ne sono già andati, ma come indicare (e non rappresentare) la solitudine e l'isolamento cui è costretto Masao? L'immagine più efficace disposta da Kitano è la sterminata pagina bianca definita dal campo di calcio deserto, ripreso da un'altissima gru. Masao è trasformato in una figurina insignificante, un puntino blu e arancione che calcia nel vuoto il pallone, un gesto che non trova nessuna squadra pronta ad accoglierlo. Proprio nel punto di vista più favorevole per leggere il gioco di due formazioni (e non dimentichiamo che Kitano è stato commentatore sportivo) come una sorta di ideogramma, noi incontriamo per la prima volta il vuoto assoluto che indica e "scrive" la solitudine di Masao. La macchina da presa è "alla giusta distanza" in modo che la solitudine si manifesti da sé, senza bisogno di aggiungere altro, solo grazie alla scelta del punto di vista che mobilita direttamente lo spazio del campo di calcio e la figurina colorata del nostro protagonista. Prima avevamo inteso dal custode che la scuola di calcio era chiusa, ma ora, quando esplode il campo da calcio vuoto, comprendiamo la risposta senza parole di Masao.
A questo proposito possiamo osservare fin d'ora come i personaggi siano in realtà delle figure. Per chiarire meglio questa differenza fondamentale, ricorriamo sia alle notazioni di Barthes sia alla nostra visione del film. Osserviamo, per esempio, come il volto di Masao, oppure quello di Kikujiro, non cambi mai espressione, detto in altri termini, le emozioni, i pensieri, i sentimenti che caratterizzano la loro individualità non si possono scorgere nei loro primi piani. Vero è che i primi piani non sovrabbondano nel film, Kitano mostra di preferire il piano lungo, se non addirittura il campo totale. Tuttavia l'impressione di visi impassibili resta nella mente dello spettatore, ma non meno intensa risulta l'emozione, la passione dei personaggi, la percezione nitida e chiara della loro "interiorità", solo non è collocata nel luogo dove ci aspetteremmo di trovarla.
Sulla scorta de "L'impero dei segni" possiamo osservare che i visi dei protagonisti sono impassibili e fragili. Non lasciano trasparire nessuna emozione, nessuna interiorità nascosta dietro la loro superficie, non ci consentono di ancorare le nostre proiezioni emotive, le riflessioni sulla loro condizione interiore; tutte le nostre riflessioni "scivolano" su queste superfici, non si fermano, non si stabiliscono, non ci restituiscono alcuna certezza. Eppure in questi "volti vuoti", in queste "pagine vuote", scorgiamo il disegno allungato degli occhi scuri e profondi, il taglio delle labbra, la smorfia segnata sul volto di Kitano-Kikujiro e tutti i movimenti di un volto che rinuncia a rappresentare un personaggio, limitandosi invece ad indicarne la presenza, a significarne le azioni, i pensieri e gli stati interiori; il volto stesso più che pagina è una vera e propria "carta", ne possiamo scorgere le fibre, la tessitura, non è solo una dimensione "tipografica". I volti sembrano specchi, ma non per riflettere la nostra immagine, bensì specchi "orientali", superfici che accolgono ogni immagine e non ne trattengono nessuna.
Sembrano proprio volti per una scrittura, a ben vedere anche i compagni di viaggio non sono da meno, i loro nomi non entrano nella storia, esistono solo attraverso i soprannomi che indicano la loro "superficie scrivibile": il Pelato e il Ciccione, il primo sarà dipinto sulla testa rapata (il polpo, l'extraterrestre, il cocomero), il secondo offrirà l'intera superficie del corpo massiccio per un pesce volante, un indiano e così via. Anche il poeta, pur non partecipando ai teatrini d'acqua e di terra, è il segnale di un'attività di scrittura che scatenerà l'immaginazione di Masao: il racconto del mestolo non è altro che una prima forma di scrittura sulla complicata superficie della memoria; il poeta, seguendo e indicando il cammino delle costellazioni, racconta miti; grazie al movimento degli astri traccia il tempo nella memoria. Masao compirà una sintesi originale di giochi, maschere e cielo stellato proprio al termine della vacanza nella golena disabitata, ma su questo torneremo in seguito, per ora osserviamo soltanto come i personaggi siano in realtà delle superfici dove tracciare dei segni o delle figure.
Non possiamo chiudere questa parentesi sulla figura senza domandarci dove sia finita la coscienza che caratterizza il personaggio. Il gesticolare improvviso e insieme deciso di Kikujiro, i movimenti trattenuti o ridotti al minimo di Masao, i loro volti insieme impassibili e fragili ci indicano che non si trova in una sfera protetta e separata, privilegiata e sempre traducibile in parole.
Kikujiro si direbbe un autentico "incosciente" per i suoi gesti scontrosi e immediati che non si conciliano mai alle facce altrui, quasi ubbidisse al comandamento Zen di "non esitare"; Masao, invece, sa attendere pazientemente il momento dell'incontro con la madre, l'unico scopo del suo viaggio. Veniamo a conoscenza delle loro intenzioni dai loro gesti, dai loro movimenti controllati o manifestamente contrari ad ogni attesa; ma allora, dove si trova la loro "anima", termine che Barthes stesso segnala come troppo pericoloso ai nostri orecchi occidentali, assuefatti al suo primato? Possiamo affermare che si trova dislocata nel corpo. Vere e proprie marionette kleistiane, la loro coscienza non è concentrata in un'instancabile descrizione di sé, o del proprio ordinamento, o della propria evoluzione, ma è tutta rivolta all'agire, senz'alcuna mediazione. L'evidenza dei gesti "contrari" di Kikujiro, la posa fragile e impassibile di Masao non sono semplici movimenti, ma chiare indicazioni che la così detta coscienza è tutta "rivolta" e impegnata in un continuo confronto-scontro con il reale, diremo in maniera ancora più precisa con la terribile evidenza del reale incarnata e resa manifesta dalle immagini vuote e dai paesaggi vuoti dove Kitano inserisce le sue figure, le sue marionette.
L'aggettivo straniante per i gesti e per i protagonisti de L'estate di Kikujiro mi sembra eccessivo, non si produce mai una frattura, un'indicazione brechtiana della coscienza al lavoro nel reale e non in una rappresentazione; quei tagli, quelle separazioni che crederemo di dover operare per attivare una riflessione cosciente non si producono mai, e neppure è necessario produrli, ogni gesto è già l'indicazione di un pensiero in atto (bugie comprese) e il legame tra le figure e il paesaggio, affidato all'azione sempre evidente del vuoto, è tutto altro che uno sfondo illusionistico e consolatorio, è "il reale". La chiave per interpretare il rapporto tra le figure e lo "sfondo" sta proprio nella circolazione continua imposta alla nostra visione dai paesaggi svuotati di punti di riferimento per il nostro occhio, luoghi trasformati in superfici bianche indeterminate come la spiaggia su cui approdano i nostri due protagonisti, dopo aver mancato l'incontro con la madre di Masao, in verità più che di un semplice incontro si tratta del tentativo di ricostruire un'unità familiare e affettiva, una ricostruzione mancata.
Le spiagge oceaniche, catturate in campi totali o in brevi panoramiche che seguono la traiettoria delle due figure, sembrano piatte pennellate colorate, strati di colore dipinti alla maniera giapponese dove il colore stesso non è tinta che ricopre, ma un'indicazione della presenza del vuoto, che impone ai nostri occhi il paesaggio in tutta la sua irriducibile e vitale evidenza. Disposta alla giusta distanza, la macchina da presa di Kitano indica il reale alla cui incessante dinamicità i protagonisti devono piegarsi.
L'indeterminata personalità di Kikujiro, la sua completa incoscienza diventano improvvisamente fondamentali per la vicenda; non servono a distrarre, a distogliere banalmente Masao dal fallimento del suo progetto, il perdigiorno e vagabondo Kikujiro adesso deve svolgere un compito molto preciso: far imparare a Masao l'irriducibile evidenza della realtà proprio a partire dalla terribile indeterminatezza della spazio naturale. Kikujiro assomiglia per molti aspetti a quelli aiutanti apparentemente inutili e controproducenti dei romanzi moderni, aiutanti che distolgono i protagonisti dal loro obiettivo, che ne disperdono l'azione, che hanno il compito singolare di "divertire" il protagonista ossessionato dal proprio progetto; indicano così la presenza incombente di una realtà irriducibile a qualsiasi disegno della coscienza.
Tuttavia Kikujiro impersona anche l'aiutante tipico della fiaba, nonostante il protagonista non possa più raggiungere la propria meta, portare a termine, completare la propria vicenda. Il dono dell'angelo campanellino è il primo segno di questa funzione riservata alla figura di Kikujiro; "sapientemente" estorto a quelli che in seguito diventeranno i compagni di giochi nella golena, il portafortuna non esaudisce i desideri, ma indica con il suo volo, con il suo restare sospeso, condizione che ha colpito inizialmente Kikujiro e l'ha spinto ad impossessarsene, la vittoria sulla legge di gravità.
La sospensione nel vuoto gli consente di suonare, figura del vuoto tra le mani di Masao in una delle inquadrature più singolari del film: s'inizia con il cielo da cui emerge gigantesco o, con un singolare rovesciamento delle proporzioni, potremo considerarlo in primo piano, dato che si tratta di un portafortuna che sta nel palmo di una mano. Poi cala dal cielo rimpicciolendosi e illuminandosi tra le mani di Masao nascosto in un tubo di cemento, che però diventa un cannocchiale, un dispositivo ottico per inquadrare (sovrainquadrare) sullo sfondo la figura vegliante di Kikujiro. Se consideriamo la macchina da presa come un pennello sulla carta, potremo immaginare una "pressione" in corrispondenza dell'apparizione gigantesca dell'angelo e una distensione o sollevamento man mano che scende e si stabilisce nelle mani di Masao. In questo modo si configura una sorta di "profondità" del segno determinata nel gesto: invertite le proporzioni "tradizionali", la profondità è indicata dal segno e non ricavata dalle regole della rappresentazione. Il segno poi continua il suo tracciato, cambiando ancora modalità (potremo dire "pressione"), quando il nostro sguardo attraversa il "cannocchiale" definito dal tubo, grazie al quale vediamo Kikujiro che veglia sul proprio compagno.
Kitano stabilisce così una vera e propria calligrafia della visione; come ho già detto la profondità non è dettata dalle condizioni della rappresentazione, ma dalle differenti "pressioni" definite e leggibili nel movimento, nel tracciato eseguito dalla macchina da presa, dalla sovrimpressione dell'angelo ad un tempo gigantesco e minuscolo e dalla posizione di Kikujiro.
Volo e superamento della legge di gravità sono i primi giochi inventati da Kikujiro, "il signore ha giocato con me" è la didascalia sotto la "polaroid" dell'angelo di sabbia da cui riparte il cammino dei due personaggi. Il gioco insegue il vuoto, tenta di adottarne l'andamento e di indicarci il segreto del multiforme nell'unità più semplice, nella forma che abbisogna del minor numero di regole.
Il gioco delle belle statuine è molto semplice ed è ripetuto in tutte le varianti possibili nella golena; prima di partire, il poeta, Kikujiro e Masao lo inscenano ancora in un parcheggio ai limiti di Tokyo. Di nuovo una superficie vuota, stavolta però si dispone al gioco, grazie al bidone giallo i tre personaggi scrivono, disegnano sulla superficie d'asfalto un geroglifico che non significa nient'altro che il loro divertimento. Kitano ci mostra tutto il percorso delle tre marionette come se la sequenza fosse un pezzo da cinema d'animazione, una gag da cartone animato giocata sul senso dello "stare alle spalle", del sorprendere il protagonista e viceversa. Kitano ferma la sua attenzione ancora sulle traiettorie scritte sulla superficie vuota d'asfalto, il gioco è diventato sinonimo di scrittura.

Parcheggi, piscine vuote, aiuole inaccessibili, golene disabitate diventano i luoghi prediletti per il divertimento, spazi marginali e non frequentati dove s'inscenano spettacoli e dove Kikujiro mostra tutta la propria abilità di regista. In apparenza buonanulla impara presto il tip tap e i lanci da giocoliere. Gli appartengono anche le diverse versioni del gioco cui abbiamo accennato prima, le belle statuine.
E' un passatempo infantile ed elementare nelle regole, ma indicativo nel suo svolgimento: i concorrenti devono muoversi alle spalle di chi controlla il gioco, cercando di sorprenderlo nella sua base, mentre pronuncia una breve filastrocca ed è voltato, cioè non può vederli avanzare contro di lui. Ma anche chi comanda il gioco è dotato di un'arma micidiale: se nel voltarsi al termine della frase scorge qualcuno dei concorrenti in movimento può estrometterli dal gioco; si continua a giocare fino all'eliminazione di tutti, oppure finché i più veloci hanno raggiunto la base, affrancandosi dal pericolo dello sguardo che pietrifica.
La sintesi di questo gioco che Masao ci propone, a metà tra un sogno "condiviso" da tutti i suoi compagni e una delle pagine del diario, mi sembra originale: allo sfondo della palude, dove abbiamo seguito tutto il meccanismo e le sue varianti, sostituisce il cielo stellato che comprende il "mestolo", la costellazione da cui il Poeta ha ricavato un racconto mitico. Il cielo notturno contiene delle figure che possiamo ottenere congiungendo le stelle che immaginiamo "bloccate". Poi, se potessimo, come il Poeta, occupare tutta la notte per le nostre osservazioni, ne seguiremmo il cammino segreto e gli incontri con i pianeti da cui si ricavano i misteriosi racconti che chiamiamo miti. Credo che il Poeta si limiti ad osservare il cielo e a ricordare il racconto, ma tanto basta per capire che tenta di scrivere il tempo dettato dal movimento celeste, una durata estranea al mondo di Tokyo: il cielo stellato compariva sopra i nostri due protagonisti per segnare l'abbandono della città in taxi; la porzione che vedono, o sarebbe meglio affermare che si muove sopra di loro, è proprio quella delle stelle circumpolari dove si scorge il "mestolo". Non si tratta di una ripresa naturalistica del cielo stellato, sembra piuttosto un vecchio rotolo orientale del cielo, le stelle brillano tutte allo steso modo così da consentirci di unirle senza fatica.
Questa è la parentesi sullo sfondo, ora passiamo al gioco: le belle statuine che corrono alle spalle di Masao sono vestite con costumi teatrali, forse con costumi immaginari che possono sorgere nella fantasia eccitata dai racconti mitologici e leggendari del folklore giapponese. Nei vari quadri, che si alternano a quelli di Masao che comanda il gioco, i movimenti sono rallentati, non solo per indicare lo statuto di sogno, o di fantasticheria, o di lavoro dell'immaginazione necessario per compilare il diario di viaggio, ma proprio per definire meglio le pose, gli arresti improvvisi dei protagonisti che tentano di prevedere lo "svoltamento" di Masao.
Quando li abbiamo visti sulla palude sembravano, al momento di arrestarsi, tanti fotogrammi cinematografici da cui fosse stato espulso il tempo e congelato il movimento; Kitano aveva disposto la macchina da presa alla giusta distanza per mostrarci tutto lo svolgimento del gioco, le corse improvvise per assalire Masao alle spalle, gli arresti in posa problematici e ridicoli, vere e proprie calligrafie corporee. Ritorna il motivo della figura, del corpo che scrive nella pagina di un paesaggio indeterminato e marginale la propria presenza.
Corpi calligrafici, pose di un istante che devono essere mantenute, "prolungate" finché il capo gioco non si volta, una fatica "estrema" per non essere esclusi. C'è però un tempo ancora più convulso e necessario, quello della corsa verso la base; per chi pronuncia la filastrocca, è un movimento invisibile e non si può congelare in nessuna forma.
Per tutta la durata della frase magica, egli è "visibile" e non può vedere, tutto ciò che sta alle sue spalle lo vede e lo controlla per poi arrestarsi quando si volta. Questo movimento non si può vedere, si deve immaginare alle proprie spalle quasi come un pericolo e tentare di arrestarlo per comprenderlo, per dargli una forma che significa però cancellarlo.
Il movimento è il vuoto della visione, inafferrabile coesiste con essa e si mostra oltre i suoi limiti come agente "provocatore". Il vuoto, o nel nostro caso il movimento, è ciò che sta "tra" due pose, l'invisibile, l'indeterminabile legame con il mondo che Kitano osa mostrarci grazie al gioco delle belle statuine. Dal movimento, dall'indeterminato, dall'invisibile, dal vuoto nasce una forma, una posa, un ideogramma dello sguardo, che indicano a loro volta un movimento, un legame necessario, un vuoto che mette in moto la forma, mostrandone una sorta di vitalità inafferrabile, spesso imprecisa e nebulosa come può essere la sabbia, il fogliame intricato, il mare o la striscia di cielo che fanno da sfondo alle figure.

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