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Segue "Il cacciatore"

Apocalypse Now

di Francis Coppola (USA 1979)

"Questo film non è un film sul Vietnam, è il Vietnam. E' com'era nella realtà, era assurdo. Il modo in cui l'abbiamo fatto è stato molto simile al modo in cui gli americani erano in Vietnam. Era assurdo: eravamo nella giungla, eravamo troppi, avevamo troppi soldi e troppe attrezzature... A poco a poco siamo impazziti" Questa affermazione di Coppola, durante la conferenza-stampa al Festival di Cannes del 1979, dà la dimensione dell'"eccesso" che accompagnò la gestazione del film e istituisce un parallelo folgorante con la guerra rappresentata; un giudizio che ben riassume il folle 'atto di forza' degli USA in Indocina.
Il film di Coppola infatti, sotto forma di sceneggiatura firmata John Milius, rimase per anni nel cassetto della sua casa di produzione, la Zoetrope, tanto per motivi di carattere politico (la guerra in Vietnam per gli USA finì solo nel '73), che di carattere economico (l'enorme sforzo produttivo che già si prefigurava). Il grande successo della saga de Il Padrino (parte I e II), con il denaro e il credito che portò a Coppola, e il lento rimarginarsi della ferita asiatica nella società americana, spinse il regista ad affrontare l'avventura a lungo cullata. Dopo l'indigestione mediatica (il Vietnam fu la prima guerra televisiva), la rimozione e l'oblio montante nella società americana spingevano il regista a non perdere tempo: Apocalypse Now sarebbe stato il primo atto d'accusa al neoimperialismo americano in Vietnam fatto da un medium spettacolare come il Cinema e contro gli altri media.
Che di un film sull'imperialismo si tratti, Coppola lo esplicita assumendo il romanzo di Conrad, Cuore di Tenebre (1899), come fonte primaria per la costruzione del racconto e dei personaggi. Nel romanzo, che narra un episodio dell'imperialismo belga in Congo, un marinaio è incaricato di trasportare dei direttori coloniali lungo il fiume Congo per rilevare il funzionario coloniale Kurtz che, con i suoi "metodi" atipici, pur rifornendo prodigiosamente la compagnia di prezioso avorio, costituisce una minaccia per i suoi stessi superiori. Il viaggio attraverso la giungla sempre più fitta e selvaggia diventa anche un viaggio alle radici dell'Uomo e della Natura, spietata nel suo eterno ciclo che si accelera nella putredine equatoriale1a. Il clima soffocante che porta alla pazzia, l'atmosfera allucinata e mortifera, è presente nel romanzo, comune al Vietnam e nel film viene sottolineata dal massiccio uso di droghe dei personaggi (e, stando alle cronache, di gran parte della troupe) e dal montaggio: le luci surreali e dorate di Storaro si intersecano nelle svariate dissolvenze multiple che punteggiano il film; le musiche, connubio di canzoni rock, elettronica e lirica, si scambiano, confondono, sovrappongono ai boati e alle detonazioni della guerra in corso e avvolgono vieppiù lo spettatore nello spettacolo totale grazie all'innovativo suono multipiste surround con il quale il film si presentò al pubblico. Alcune scene sono di per sé altamente suggestive e surreali, a partire da quella d'apertura fino a quella del sacrificio del karibù, passando per la rapsodia notturna di luci e suoni dello spettrale ponte di Do Lung che segna il confine Cambogiano (e da dove ci si inoltra nell'oltretomba del sepolto-vivo Kurtz e delle sue ombre mute. Ma il ponte è anche un confine del senso: dalla 'pazzia USA' alla 'pazzia privata' di Kurtz). Coppola ripropone gli stilemi e lo sperimentalismo dell'avanguardia cinematografica americana rielaborati col controllo elettronico e sotto l'ombrello di un'enorme macchina produttiva (la 'Nuova-Hollywood' che si contrapponeva alla logica delle majors). "Film in acido" e vero e proprio spettacolo di luci, musica, colori: così il regista italo-americano presenta il Vietnam. Attraverso l'eccesso e la spettacolarizzazione, Coppola porta la sua denuncia ai media, in particolare alla televisione, rea di aver creato il "simulacro" Vietnam, il Vietnam-show nelle coscienze degli americani: non ci potrà essere un film realistico su questa guerra perché fin da subito in Vietnam la realtà si è mescolata con la finzione. Ecco allora lo stesso regista dirigere una piccola troupe televisiva durante l'attacco al villaggio e 'dirigere' gli stessi soldati, ordinando loro di fare come se stessero combattendo e di non guardare in macchina (non sfugga il gioco di codici linguistici: come si sa, questa regola dello sguardo vale per il cinema ma non per la tv, e in più Apocalypse Now propone più volte sguardi in macchina dei protagonisti, vera e propria chiamata in causa dello spettatore). Come nota Zagarrio (F.F. Coppola, Il castoro, 1995), sulla linea di Baudrillard, "la società contemporanea è un grande spettacolo, un museo di orrori" e il Mito, scacciato dal reale dalla violenza della Storia, trova rifugio nel cinema. Ma oggi è la Storia stessa che irrompe nel cinema seguendo lo stesso percorso: la Storia, scacciata dalla nostra vita, prende il posto del Mito sullo schermo. E' un cadavere che si può mettere in scena: non ha un valore di presa di coscienza, ma nostalgia di un referente perduto. Il Vietnam è divenuto oggetto rétro e perciò stesso nuovo 'genere' praticabile, rapidamente bruciato e serializzato nella logica del revival (l'epoca del vietnam-movie degli anni '80), lucidamente preconizzata da Coppola e Cimino2a. Anche la musica si inserisce nello stesso gusto rétro: la guerra in Vietnam ha la sua colonna sonora nella musica dei mitici anni 60 (Doors, Hendrix, Stones ecc.) a costituire un tutt'uno, un'immagine piatta e allo stesso tempo a tutto tondo di un'epoca che ha scelto la scorciatoia del Mito nella coscienza dell'Occidente. Forse che una Storia "eccessiva" è già di per se stessa l'incunabolo del Mito? Come dice Coppola, la brutta storia dell'intervento USA in Vietnam è infatti una storia di eccessi.
L'ideale della "nuova frontiera americana" propugnato dal presidente americano Kennedy, in mano ai suoi successori (Johnson e Nixon in primis) si trasforma sempre più in un progetto egemonico e neocolonialista basato sulla discriminazione dei credo e delle razze che condurrà la popolazione americana in un vortice di violenza e di sangue (contestazione e terrorismo all'interno, guerra all'estero). Nei complessi e fragili equilibri che si vengono a creare nel mondo all'indomani della II guerra mondiale, la penisola d'Indocina sarà uno dei catalizzatori che accelereranno il manifestarsi delle storture messe in atto, a livello individuale fino a quello transnazionale, dallo schieramento del mondo in blocchi. Con la fine della prima guerra d'Indocina (1946-1954) finisce il colonialismo francese nell'area e Laos, Cambogia e Vietnam sono dichiarati indipendenti e passano di fatto sotto l'influenza russo-cinese. Il Vietnam viene diviso in due lungo la linea del 17° parallelo in attesa della riunificazione in seguito a libere elezioni che di fatto non avranno mai luogo. Il Paese si trovò diviso: al Nord sotto i comunisti vietcong capeggiati da Ho Chi Minh; al Sud sotto un governo autoritario, cattolico e anticomunista appoggiato dagli americani decisi a contrastare ogni ulteriore espansione comunista in Asia. La guerra partigiana non si fece attendere e nel '64 si arrivò alla guerra aperta con il coinvolgimento diretto degli USA. La motivazione ufficiale fu quella di difendere il popolo sudvietnamita da una minoranza di agitatori e dall'ingerenza interna del Vietnam del Nord (!); in realtà la classe politica americana temeva di perdere l'egemonia politica nel Pacifico ("teoria del domino") e gli interessi commerciali nell'area (già nel '53 Eisenhouer sottolineava che perdere l'Indocina significava togliere lo stagno e il tungsteno all'industria americana). L'escalation militare USA nell'area fu sorprendente: dai 23.000 uomini del '65 ai 500.000 del '67. Allo stesso modo esorbitante fu l'escalation tecnologica: gli USA misero in campo tutto il loro moderno arsenale di armi convenzionali. Ben presto, con l'intensificarsi delle azioni militari americane, fu 'guerra totale': gli USA non si limitarono a bloccare i partigiani e i vietcong nel sud del Paese, ma sferrarono attacchi indiscriminati contro città e campagne del Vietnam del Nord con una ferocia tale da far gridare al genocidio. Armi chimiche e batteriologiche, micidiali bombe antiuomo, bombe incendiarie... gli USA volevano mettere in ginocchio il Vietnam e allo stesso tempo dare una prova di forza al 'nemico rosso'. Ma la natura del teatro di guerra e l'accanimento dei vietcong (sostenuti da Cina e Russia e dalla popolazione) vanificarono gli sforzi bellici americani. Solo nel '73 gli USA ammisero che non c'era 'soluzione militare' al conflitto e si ritirarono dal Vietnam che nel '75 trovò finalmente unità e indipendenza.
Il folle accanimento USA nel Vietnam è interpretato nel film soprattutto dal capitano Kilgore (Robert Duvall) e a suo modo dal colonnello Kurtz (Marlon Brando). Essi si muovono nel conflitto come in un gioco virtuale nel quale l'importante è vincere/ribadire la propria supremazia, anche a costo di fare il Vuoto attorno a sé (Kilgore che racconta della collina, desertificata dopo dodici ore di bombardamenti, che "odorava di vittoria"; Kurtz che verga di rosso il suo memorandum con un "kill them all!", riferimento all'utilizzo della bomba atomica). Un gioco in cui l'appartenere a una società tecnologicamente avanzata riduce il nemico a una virtualità impotente: Kilgore sprezza il pericolo come inesistente; Kurtz è considerato dai suoi un semidio e la sua morte sopravviene come un rito di passaggio, sottolineata dal montaggio parallelo con la scena del 'sacrificio del karibù' e dalla precedente panoramica ravvicinata sui libri di Kurtz (le fonti del film) fra i quali spicca un classico dell'antropologia, Il ramo d'oro di Frazer. Il successivo omaggio della tribù lo conferma: tutti si prostrano di fronte a Willard, la nuova divinità, l'unica che potesse uccidere e sostituire la precedente nel comando.
La 'guerra sporca' assume tutti i suoi connotati. Le motivazioni ideologiche che avevano tenuto unita l'intera nazione durante la II guerra mondiale, l'idea della 'guerra giusta', segna il passo. Se durante la II guerra mondiale un'intera pattuglia poteva essere inviata in una pericolosa missione per salvare un solo uomo (ma con lui un'idea di civiltà - evidente il soggetto di Salvate il soldato Ryan), durante la guerra in Vietnam si può immaginare una pattuglia inviata in una pericolosa missione per assassinare invece un commilitone che, pur efficiente, con i suoi mezzi e con i suoi proclami radio mette a nudo le falsificazioni e le motivazioni ipocrite di una guerra sentita in realtà come estranea e alienante.
La stessa difficoltà di Coppola a trovare un finale per il suo film riflette questa alienazione. E Apocalypse Now fu presentato al festival di Cannes del '79 (dove vinse la Palma d'oro) con due differenti finali: in uno, Willard uccide Kurtz e torna alla civiltà; nell'altro, Willard uccide Kurtz e prende il suo posto nella giungla, nuovo 'signore della guerra'. Dopo tre anni fra riprese (condotte nelle Filippine e funestate da una girandola di interpreti, un tifone che spazza via le attrezzature, l'infarto del protagonista Martin Sheen), montaggio e mixaggio del film; una spesa all'epoca colossale di 30 milioni di dollari e dopo aver sfiorato il collasso psichico oltreché finanziario, Coppola lascia l'ultima parola allo spettatore. Non se la sente insomma di 'chiudere' definitivamente il proprio film, intimidito dalle proporzioni che ha assunto; dice di temere il ridicolo, la pretenziosità di una qualunque presa di posizione.
Il capitano Willard (Martin Sheen) ridiscende quel fiume di tenebre dopo aver assassinato Kurtz e la radio di bordo che continua a gracchiare ci ricorda dell'opzione bombardieri ordinata a Chef (Frederic Forrest) e mai (non ancora) eseguita per la morte di quest'ultimo. Così la 'fine' del film combacerà con i lampi di distruzione che si abbattono sul villaggio di Kurtz (e che "suonano" un miscuglio surreale dei vari pezzi musicali contenuti nel film) e, sulla scia luminosa di una bomba incendiaria che abbacina, con l'apparire del titolo del film e a seguire i credits. In ogni caso dunque, il finale si presenta come il refrain del film, il suo nuovo inizio: il giorno del giudizio, quell'Apocalypse, quell'orrore che Kurtz morente predice, si è abbattuta sulla terra fin dalla prima inquadratura, Now.

Il Cacciatore

di Michael Cimino (USA, 1978)

Di poco precedente al film di Coppola, Il cacciatore rappresenta l'altro versante del disgelo del cinema americano rispetto allo scottante tema della guerra in Vietnam e fornisce gli elementi narrativi peculiari del Vietnam movie rispetto al war movie hollywoodiano classico. Ma non è ancora l'industria "ufficiale" delle majors a scendere in campo. Hollywood conferma la propria ritrosia ad affrontare temi politicamente scottanti (per un timore soprattutto economico, legato all'eventuale boicottaggio dei film) e scenderà in campo solo dopo il successo di questi due outsider e il conseguente "sdoganamento" del soggetto-Vietnam. Se la ripartizione tipica del film di guerra classico era l'addestramento, il battesimo del fuoco - perdita dell'innocenza, la rigenerazione attraverso la violenza (ripartizione ancora rinvenibile nel filo-governativo I berretti Verdi e nel caso atipico costituito da Full Metal Jacket di Kubrick), nel Vietnam movie si passa direttamente dalla "gioventu spensierata" all'inferno della guerra e da qui al desolato ritorno in patria, stranieri agli altri e a se stessi (il tema del vietnam veteran già al centro di alcuni b-movies violenti degli anni '60). Si aggiunga a questi il tema del recupero dei soldati missing in action e si può ricostruire l'impalcatura narrativa de Il Cacciatore, film-monstrum nella sua struttura originaria di oltre tre ore, ma soprattutto si può ricostruire tutto un genere addirittura abusato durante gli anni '80 con il risvegliarsi dell'"orgoglio americano" sotto la presidenza Reagan (film come Rambo, Platoon ecc.).
La divisione del film in tre parti distinte, sottolineata dal progressivo incupirsi del cromatismo delle immagini (per le scene di guerra, girate in Thailandia, i colori sono stati desaturati in laboratorio), fornisce le declinazioni dell'esperienza della guerra nella società americana degli anni '60-'70 che Cimino affresca con i toni malinconici e delicati di un'elegia. La fine della giovinezza, rappresentata dal coincidere di una festa di matrimonio con l'arruolamento di un gruppo di amici (entrambi riti di passaggio all'età adulta che prevedono un giuramento e un impegno verso il prossimo), è il tema della prima parte del film che offre al regista la possibilità di descrivere la vita di una piccola comunità, ritmata dal lavoro in fabbrica, dalle partite di biliardo, dalle battute di caccia. La descrizione di uno "stato di innocenza" è di per sé motivo della sua perdita, e la goccia di vino sul corpetto della sposa è la prima macchia del sangue che sarà versato dai protagonisti.
La scena di caccia preconizza quelle di guerra e nello stesso tempo ne definisce la radicale diversità. All'ascensione silenziosa e solenne, sottolineata dal coro religioso, nella cornice superba delle montagne, corrisponde lo sprofondare nel folto della giungla squassata dalle detonazioni; ai vasti spazi ariosi, la claustrofobia di una gabbia di giunchi immersa nell'acqua, vera e propria riedizione di una pena da inferno dantesco. La stessa filosofia del 'un colpo solo' ritorna nel gioco crudele della roulette russa e sarà il leit motiv del film che rimetterà in discussione le convinzioni di Michael (l'unica caccia "pulita", sembra infine rendersi conto, è quella che si limita ad am-mirare la preda, che già così si sente braccata e terrorizzata come lui in guerra). Cimino: "Per me era un modo per shoccare lo spettatore, al punto da rimuovere il blocco su questa guerra che, per tanto tempo, ha persistito. ... La roulette russa non è una metafora del suicidio di una nazione, è un mezzo per drammatizzare l'elemento casuale che sussiste in qualsiasi guerra. Non c'è motivo perché muoia un uomo piuttosto di un altro. Ho voluto comprimere l'esperienza quotidiana del combattimento e quest'attesa permanente della morte, quest'impossibilità di calcolare le probabilità di sopravvivenza... un anno d'incertezza di un soldato al fronte, che attende ogni minuto che una bomba gli scoppi vicino."1b E Michael sfida il destino con un freddo calcolo delle probabilità: se una pallottola è comunque sufficiente ad ammazzarlo, con tre può forse tentare la fuga. Nick sarà con lui, ma resterà fatalmente incantato da questa sfida con la morte finché la riedizione di quella "scena primaria", di fronte a Michael, non lo libererà definitivamente. Questa complementarietà dei due amici protagonisti è ribadita lungo tutto il film: Michael va a caccia in gruppo solo perché c'è Nick; torna a Saygon perché ha promesso che non l'avrebbe mai lasciato in Vietnam; condivide l'amore di Linda (Meryl Streep) fino a sostituirsi a lui per ricominciare una nuova vita dopo la tragedia. Si potrebbe vedere in Nick l'alter ego, il fantasma della giovinezza, il lato oscuro, il rimosso di Michael che riaffiora e che necessariamente deve essere affrontato e annientato. Una sfida allo specchio, un omicidio-suicidio compiuto "per amore" (come dice a Nick lo stesso Michael), per poter ricominciare da capo. Ed è infatti con il funerale di Nick che tutta la comunità si ritrova riunita, con i suoi nuovi equilibri sentimentali, a leccarsi le ferite.
La scena finale, con gli amici che intonano God Bless America, e compongono un brindisi funebre allo stesso modo con cui composero il brindisi alle nozze di Steven alla vigilia dell'arruolamento, non ha mancato di sollevare varie opinioni e critiche. Alcuni vi videro una scena mal riuscita di macabro sarcasmo, altri di patriottismo reazionario. In realtà il regista, che durante tutto il film ha mantenuto uno sguardo da "naturalista" (da notare come ambiente e personaggi concorrano a formare un tutt'uno narrativo, attraverso l'uso del dolly a scendere da quello a questi), si distacca del tutto dai suoi personaggi senza contraddirli o disprezzarli e li lascia agire, assecondando le loro psicologie, le contraddizioni che li salvano dal divenire pure allegorie: "Quando le persone in un momento di crisi o di stress, si rivolgono automaticamente verso cose familiari e quando, nell'incapacità di esprimere la loro tristezza, ritrovano qualcosa che avevano imparato a memoria nell'infanzia, non c'è da parte mia alcuna ironia intenzionale. ... Il canto, anche se patetico, è un modo per affrontare un sentimento collettivo, soprattutto fra le classi di individui che non sono inclini a discussioni elaborate. Quando uno comincia, gli altri gli vanno dietro, confermando così l'amicizia che li lega, la fiducia che provano gli uni per gli altri" (Cimino). Come giustamente fa notare Masson nello stesso numero di Positif, non c'è niente di meno sciovinista di questa immagine di un patriottismo che non si eleva all'inno se non nel dolore. "La conclusione del film indica anzi che, sospeso ogni giudizio storico o morale, si vuole soprattutto riconciliare gli americani con il periodo più buio della loro storia. ... Nel momento in cui i personaggi riconoscono in loro l'America, gli spettatori devono reciprocamente confessarsi che loro erano quell'America". Non è un caso che i protagonisti siano degli immigrati ucraini. Cimino descrive la loro volontà di essere riconosciuti americani, di essere assimilati, anche e soprattutto a prezzo del sangue che viene chiesto loro di versare (ingenuamente, ai loro occhi, la conferma di uno status). Ricordiamo la scena in cui Nick, interrogato sul suo nome russo dal medico dell'ospedale, risponde "No, è un nome americano". Questo forse si può biasimare a Cimino, di aver messo in scena una "America atemporale, ancora rurale e cristiana, malgrado la fabbrica, le imprecazioni e le sfide in automobile, e non l'America degli anni '60, convinta della sua emancipazione, sicura della sua potenza e poco preoccupata del suo mito" (Masson).

Manlio Piva      

Note

1a Una delle domande del film di Malick ha qui una risposta univoca: è la Natura di per sé spietata; l'uomo naturale è crudele; l'orrore si cela nel fondo della Natura.

 
2a A partire da Schindler's list, e qui è difficile valutare le responsabilità di Spielberg, stesso mostruoso procedimento ha subìto ciò che era considerato l'irrapresentabile per eccellenza: l'orrore dei campi di concentramento nazisti.
 
1b Intervista a Michael Cimino in Positif n. 217. Questo valore esemplificativo di tutta un'esperienza si riconferma quando Michael mette a repentaglio la vita di Stan per "svegliarlo" e punirlo finalmente della sua leggerezza con le armi. Quando gli vede puntare il suo revolver-feticcio contro John, nel suo solito atteggiamento fra il gioco e l'aperta minaccia, lo sottopone alla "roulette": con un solo gesto gli/ci è propinata l'esperienza della guerra e viene sottolineata la differenza fra chi è partito e chi è rimasto a casa, in-cosciente e chiuso in un individualismo meschino.

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