|
Percorsi dello sguardo in Dust e Prima della pioggia di Milcho Manchewsky
di Francesco Netto
Proiettato fuori concorso all’inaugurazione della
58ª Mostra del cinema di Venezia, Dust di Milcho
Manchewsky non ha incontrato i favori della critica e ha
suscitato una tiepida accoglienza da parte del pubblico.
All’indomani della sua uscita sugli schermi i
complimenti si sono sprecati: un “rutilante esercizio
di manierismo kitch”, un “gran
pasticcio”; insomma un film “veramente
brutto”, per limitarci soltanto ad alcune prese di
posizione. Chi si aspettava una nuova prova d’autore
da parte di Manchewsky come l’apprezzato film
d’esordio Prima della pioggia (che era valso
il Leone d’oro alla rassegna lidense nel 1994) è
rimasto quindi sicuramente deluso.
La necessità di limare questa discrepanza di giudizio
tra due film apparentemente così distanti anima
l’esistenza di questo saggio, e non concerne tanto
una semplice rivalutazione estetica di Dust (ammesso
che questa sia possibile, dal momento che il film è uscito
in poche sale italiane e non vi è rimasto a lungo...),
quanto piuttosto la genesi di un percorso interpretativo
tra le due opere che evidenzi delle costanti tematiche e
formali, sottese ad un comune atteggiamento verso la realtà
e la sua rappresentazione cinematografica. Per quanto
infatti l’analisi o la valutazione si possano
spingere in senso tecnico o critico, il cinema rivela pur
sempre una propria questione ontologica irriducibile,
riguardante la decifrazione del suo senso in rapporto al
modo in cui quest’arte “rappresenta” e ci
restituisce la realtà. Sotto questo profilo ci sembra
evidente come i due film di Manchewsky siano estremamente
vicini, e tradiscano, pur in forme diverse, una medesima
articolazione del rapporto complesso tra la realtà e le
modalità specifiche della sua rappresentazione
cinematografica.
Relativamente a Dust, una prima indicazione
emerge, in maniera problematicamente sintomatica, nel
momento iniziale in cui si tenta di semplificare il film
come un’appendice del genere western, o,
nell’accezione manchewskiana, in un improbabile ed
ostico, quanto meno a fini esemplificativi,
“eastern”... L’inserimento di Dust
in un genere specifico risulta in ultima analisi
un’impresa dagli esiti imprecisi e grossolani,
partendo dai quali è tuttavia possibile indirizzare la
riflessione su una direttrice più approfondita e più
attenta alla singolarità del film. Anche la posizione del
regista di fronte alla propria opera (sottolineata sin
dalla conferenza stampa veneziana) sgombra a priori il
campo da un inutile momento comparativo con le opere di
Leone o Peckinpah, alle quali i critici, forse
precipitosamente, si sono riferiti, per avvicinarsi di più,
almeno nelle intenzioni di Manchewsky, al cinema di
Scorsese e Kieslowsky.
Ora, se Dust è negativamente definibile come un
“eastern”, lo è innanzitutto per i particolari
rapporti che intesse tra gli spazi della vicenda: decentra
l’azione in diversi luoghi, la dilata da New York
alla Macedonia senza soluzione di continuità, passando
senza sosta da uno sfondo all’altro. Un movimento che
concerne innanzitutto la spazialità della vicenda e gli
elementi della narrazione. Tralasciamo, almeno per il
momento, lo spinoso e macroscopico problema della
temporalità, poiché può condurci su una falsa strada e
portarci a fraintendere il senso di un problematica
fondamentale della quale costituisce un coerente sviluppo.
La città infatti, paradossalmente, costituisce il centro
propulsore e la possibilità stessa di genesi di questo
“eastern” e, in generale, dell’opera di
Manchewsky: questo perché il suo cinema è un’arte
dello spazio prima che del tempo, sebbene viva di evidenti
ed esibiti paradossi cronologici.
Alla luce di questo snodo interpretativo, rileviamo un
primo, decisivo momento presente in entrambi i film del
nostro regista: il ruolo centrale della metropoli (Londra e
New York), la velocità delle sue immagini, la fuggevolezza
delle impressioni e dello choc che impongono alla
percezione. In entrambe le opere si passa necessariamente
attraverso l’esperienza della città, o partendo da
essa, come in Dust, o attraversandola come termine
medio di un vasto respiro drammatico, in Prima della
pioggia. Più profondamente, è lo sguardo della (e
sulla) città che informa e contamina ogni possibile
rappresentazione cinematografica, anche e soprattutto della
Macedonia: se per Manchewsky la velocità della percezione,
il frammento iconico strappato al caos cittadino e la sua
ridondanza nel gioco delle somiglianze e delle ripetizioni
costituiscono dei momenti essenziali di sviluppo del
discorso filmico, ciò è dovuto all’estrema
consapevolezza del fatto che lo sguardo cinematografico è
divenuto ormai il riflesso di una soggettività costretta ad
apprendere stimoli, a “infilarli” l’uno
dopo l’altro e a tracciare una rete mobile di
rapporti e di relazioni: un occhio quindi estremamente
fragile e violentato, costretto a muoversi attraverso la
captazione e l’immediata concatenazione delle
immagini, senza che queste assumano un valore di necessità,
un preciso percorso di senso che le leghi in un tutto.
Pier Paolo Pasolini, parlando di Antonioni, ha chiarito
un punto fondamentale, una sorta di “patologia”
che anima alcuni cineasti: fare della visione particolare
del personaggio un pretesto per affermare la “propria
visione delirante di estetismo”. Ciò significa che
l’utilizzo prevalente della soggettiva di sguardo
(intesa sia come punto di vista su un oggetto che come
principio di concatenazione semantica delle immagini) non
presenta come carattere fondamentale quello di definirsi in
un semplice rapporto di verità o di falsità rispetto ad una
visione che si presuppone “oggettiva”;
piuttosto tende a condizionare in toto la
costruzione del film, per cui lo spettatore, attraverso lo
scorrere delle immagini, esperisce il vedere soggettivo
come vero e proprio principio creativo, e non come semplice
punto di vista che viene falsificato dall’oggettività
della narrazione. Il film quindi, complessivamente, incarna
questo particolare movimento espressivo: la percezione del
personaggio (anche attraverso tutti i suoi caratteri
aberranti e falsificanti) tende a identificarsi e a
condizionare i criteri compositivi dell’intera opera:
gli elementi stilistici ed estetici di costruzione del
testo vanno così a esprimere, a tutti gli effetti, una
particolare “visione del mondo”: non soltanto
qualcosa di “vero” o di “falso”, ma
soprattutto un sistema espressivo che si giustifica sulla
base della dinamica di sguardo sulla realtà che
manifesta.1
A nostro avviso, anche i film di Manchewsky possono
essere iscritti all’interno di questa particolare
operazione estetica: entrambi sottendono l’esperienza
soggettiva dello sguardo urbano che diventa il centro
propulsore della narrazione e della costruzione iconica del
film: in Dust emerge tutta la potenza
dell’occhio metropolitano che si appropria anche
della Macedonia, che la divora e ce la restituisce in un
momento di espropriazione percettiva, quasi di
dissipazione. Ad una considerazione più ravvicinata, anche
Prima della pioggia non si distanzia da questo
asserto e da questa forza visiva, e anzi vive in esso; la
terra balcanica è un luogo da distruggere ad ogni costo, da
inserire in una fitta rete di rapporti finzionali,
percettivi e iconici con Londra; uno spazio visivamente
violentato, e non soltanto un luogo in cui agisce la
violenza rappresentata. Per questo la costruzione e la
composizione dell’opera cinematografica di Manchewsky
privilegiano le ripetizioni e pongono attenzione alle zone
contigue e simili del racconto: anche sul piano figurativo
si colgono significative iterazioni e continuità
semantiche. Tra queste, in Prima della pioggia,
molti dettagli hanno una rilevanza particolare:
l’analogia delle posture delle persone morenti; da
Zamira a Nick, un punto rosso sul volto della ragazza
albanese agonizzante diviene un denso e nero grumo di
sangue sul viso del marito di Anne, ormai completamente
devastato; il vomito, che variamente strazia i personaggi
di Kirill e della fotografa inglese; le tartarughe,
presenti nel gioco macabro dei ragazzini macedoni e in un
acquario del ristorante londinese in cui avviene la
sparatoria, quasi come presagio della tragedia imminente;
il movimento del rosso, colore-segnale, che dal volto di
Nick migra attraverso gli oggetti, i mezzi di locomozione
(aerei, autobus e automobili), gli abiti delle persone sino
ad un fiore portato da una donna nel percorso che riconduce
in Macedonia il fotografo Alexander.
Tuttavia, soffermarsi troppo su questi aspetti ha come
effetto quello di ridurre la dimensione esperienziale e
percettiva del film, nel quale viene esibita non tanto una
significazione simbolica enunciabile, quanto il momento
produttivo del senso della significazione stessa, il suo
germe creatore: lo sguardo apprende delle immagini
vorticose, velocemente le organizza e le raccorda secondo
dei meccanismi di attrazione percettiva e intellettuale,
sotto la forza di stimolazioni fluttuanti; tenta di
salvarsi dando un ordinamento al caotico brulicare delle
superfici.
Se in Prima della pioggia questo dinamica di
sguardo si manifesta innanzitutto nelle relazioni tra gli
elementi narrativi e iconici, in Dust si
approfondisce sul piano temporale (pur mantenendosi a
livello figurativo), complice la focalizzazione interna al
personaggio della vicenda narrata (prima Angela,
l’anziana signora newyorkese e successivamente il
ragazzo di colore, Edge): anche il tempo cronologico è ora
suscettibile di raccordi esasperati, di un atto di cattura,
creazione e distribuzione delle immagini, a volte
ingannevole. Se in Prima della pioggia il punto di
vista onnisciente (il medesimo che suddivideva il racconto
in tre nuclei distinti, Words, Faces e Images) garantiva
una ferrea oggettività della vicenda e restituiva alla
linearità l’apparente circolarità narrativa, nel suo
secondo film Manchewsky eleva l’atto fabulatorio a
vero e proprio criterio di costruzione della storia, per
cui la solidità della finzione viene sgretolata
dall’apparente incoerenza e paradossalità della sua
rappresentazione.2
La scansione temporale e narrativa di Dust è
quindi figlia di una degenerazione che era già presente in
Prima della pioggia sotto il profilo della
dislocazione spaziale e trova la sua ragione più profonda
non soltanto negli elementi del film che fa interagire, ma
soprattutto nell’emergenza di una dinamica di
sguardo, della rappresentazione del reale e della sua
restituzione. Tra le due opere il rapporto tra il tempo
della vicenda e quello del discorso filmico impone due
relazioni distinte, motivate dalla diversa focalizzazione
presente nei due film. Tuttavia ciò non impedisce che le
Dust e Prima della pioggia si incrocino su un
versante più profondo e rilevante, analiticamente
indecomponibile, come la tensione di sguardo che sta alla
base.
L’occhio metropolitano in questa chiave è il
germe, la dynamis della concatenazione delle
immagini: i suoi caratteri sono quindi già attivi nella
rappresentazione della terra macedone. La tecnica
cinematografica di Manchewsky si dirige costitutivamente
verso questa direzione: anche in questo caso lo sviluppo di
un processo evolutivo da Prima della pioggia a
Dust mette in evidenza una medesima attitudine, una
stessa direttrice. Qualche spunto potrà essere propedeutico
alla visione dei film, e non semplicemente ad una loro
decifrazione simbolica. Abbiamo già accennato al ruolo
centrale che hanno le fotografie nel cinema di Manchewsky:
in Prima della pioggia ciò è rintracciabile non
soltanto nelle “foto impossibili” (vero e
proprio grimaldello interpretativo del film) ma anche, ad
esempio, nel rapporto di somiglianza tra le armi utilizzate
dai personaggi e la macchina fotografica: Alexander
“uccide” perché, non trovando soggetti per il
suo lavoro, fa sì che un miliziano per gioco ammazzi un
detenuto; per far scappare dei ragazzini, lo stesso
Alexander fa un “clic” con la macchina
fotografica, utilizzandola come se fosse un’arma.
Dust è pieno di foto sgualcite, che si riferiscono a
dei personaggi soltanto nell’attivazione di un atto
fabulatorio che le mette in scena e le fa vivere; oppure si
pensi anche alla pulsione irrefrenabile di Luke, che
assistendo ad uno spettacolo cinematografico parigino
decide di trasferirsi nei Balcani per fare il mercenario
nei clan macedoni.
La fotografia costituisce quindi una delle cifre
peculiari del cinema di Manchewsky: nel contempo è oggetto
di rappresentazione, elemento che mette in movimento la
narrazione, riproduzione paradossalmente precedente alla
realtà; dal punto di vista compositivo il
“clic”, il rapido movimento di cattura
dell’istantanea si può rintracciare in moltissime
inquadrature manchewskiane. Una sorta di vicinanza tra
cinema e fotografia, che non limita la portata
dell’opera filmica, ma che anzi ne definisce e ne
approfondisce i caratteri. Lo sguardo scatta istantanee,
trattiene immagini fuggevoli, le avvicina e le giustappone
quasi “manualmente” sulla base degli indizi che
esse portano impresse: l’atto fotografico diviene
l’elemento fondamentale della rappresentazione
cinematografica, nel momento in cui deborda come centro di
una dinamica di sguardo decentrata, ellittica, più
interessata alle immagini e alla loro coordinazione che al
concatenamento in vista di un fine narrativo. La cura della
composizione in certe inquadrature di Prima della
pioggia, pur passando in secondo piano in Dust,
è pur sempre un atto di cattura dell’istantaneità,
per quanto essa sia legata ad un gusto estatico per
l’equilibrio costruttivo. Nelle inquadrature
manchewskiane il tempo non entra e non fluisce, le immagini
esistono soltanto nel presente della loro percezione e nel
tempo in cui si prolungano in altre immagini per essere
riordinate: difficilmente viene messa in scena la durata
concreta di un evento particolare, poiché esso o non può
darsi come tale, o, nel momento in cui viene assunto come
centro del discorso, viene spezzettato in istantanee, e ci
viene offerto in una percezione a scatti.
Si può parlare, a proposito di Dust, di due
diverse forme di rappresentazione degli eventi, ma entrambe
prodotte da un’identica radice creativa. In primo
luogo si rintraccia in molti casi una concatenazione di
immagini separate che creano delle microstorie diegetiche,
linguistiche o cromatiche: il loro senso non sta
semplicemente nel legame organico e narrativo che
instaurano, ma consiste piuttosto
nell’evidenziazione della dinamica di pensiero che
si attiene alla loro produzione e alla loro posizione
frammentata nel testo. In Dust c’è ad esempio
la storia del tesoro, via via ritrovato nel presente e
perso (anche disperso) nel passato; oppure la bellissima
vicenda del cocomero sul banchetto turco e le istantanee
della sua progressiva distruzione, dominata dal rosso. Come
secondo aspetto legato al primo, si trovano invece delle
inquadrature nelle quali l’attenzione si concentra su
un evento secondario che viene così ad assumere una
posizione di coesistenza e “disturbo” rispetto
all’azione principale: si generano così altri tipi di
microstorie che si sviluppano in una singola inquadratura e
si prolungano nell’immaginazione spettatoriale, oltre
ciò che lo schermo effettivamente mostra.
Anche il montaggio, di conseguenza, risente di questa
singolare dinamica compositiva: disperde gli elementi nel
testo e li fa ritornare, implica un montaggio ulteriore
operato nella mente dello spettatore; in Prima della
pioggia, che presenta un macroscopico utilizzo del
montaggio come chiave interpretativa del film nel suo
complesso, vi sono molti elementi di disturbo, che
impongono una nuova distribuzione e riordinamento delle
diverse immagini, in rapporti in cui gli elementi si
rincorrono e si rinsaldano in relazioni nascoste e
indecidibili (Alexander è realmente lo zio fotografo di cui
parla il monaco Kirill? Chi sono i padri dei figli che
devono nascere: Alexander o Nick per il figlio di
Anne?).
In ultima analisi, l’opera effimera di Manchewsky
può essere interpretata alla luce di un’istanza
“sintomatica”: non quindi come semplice oggetto
di analisi o critica estetica, ma piuttosto come complesso
di intuizioni e forme espressive attraverso le quali emerge
una particolare “visione del mondo” e del mezzo
cinematografico. Possiamo affermare che, al di là dei
limiti che la sua provocatorietà e ambizione pone,
Manchewsky mette in scena una dinamica di sguardo
estremamente attuale, tesa verso l’evidenziazione di
una peculiare esperienza percettiva che appartiene
profondamente al nostro presente.
Note
1 Cfr.
Pasolini P. P., Empirismo eretico, Garzanti,
Milano 2000, pp. 180 e sgg. L’argomentazione di
Pasolini è molto complessa: tuttavia vogliamo
sottolineare come l’elemento stilistico della
creazione cinematografica (in particolare la composizione
dell’inquadratura e il montaggio) sia fondamentale
per cogliere la dimensione di attualità del cinema,
ovvero la particolare “visione del mondo” che
esso incarna e che rende visivamente percepibile. Che
questa visione del mondo, come nel caso di alcuni film di
Antonioni, sia nell’ottica pasoliniana di radice
borghese e quindi criticabile, non limita la portata di
questa intuizione teorica e critica. Per un suo
approfondimento si veda, a titolo esemplificativo,
Deleuze G., L’immagine-movimento, Ubulibri,
Milano 1984, pp. 92 e sgg.
2 In
realtà elementi di questo tipo sono già presenti in
Prima della pioggia, anche se maggiormente
nascosti e incastonati nell’oggettività della
narrazione. Un esempio significativo, posto nella parte
centrale del film – ovvero quella iniziale nello
svolgimento lineare della vicenda – è
rappresentato dalle “foto impossibili” della
morte di Zamira, scattate quando l’evento reale a
cui si riferiscono deve ancora accadere.
|