Afflato mistico e lirico in Spazi e silenzi di Maria Dho Bono (Corall Edizioni, Febbraio 1993)

 

Di fronte alle liriche della silloge “Spazi e silenzi” di Maria Dho Bono, nota Dino Fenili nella prefazione, «non possiamo non rimanere stupefatti dalla molteplicità delle argomentazioni, le più disparate e le più varie, trattate con così sorprendente naturalezza ed immediatezza, e che spaziano dall’arte alla scienza, dalla storia alla cronaca, dal sociale alla paesaggistica, dalla fede al patriottismo, toccando, via via, l’intera quotidianità dell’uomo in tutte le sue manifestazioni». L’opera della poetessa ha una struttura classica, il verso è essenzialmente endecasillabo e la rima esalta la musicalità delle liriche. Il lettore troverà, così come scrive il Fenili, «“Spazi” per sognare, “Silenzi” per riflettere e meditare». Da ogni poesia, infatti, scaturisce un profondo afflato mistico e lirico, espresso con purezza d’immagini e partecipazione interiore. Le molte note esistenzialiste lasciano nel profondo dell’io uno «stupendo scenario maestoso / che ci si schiude magico e irreale, / ha un qualcosa di arcano e religioso, / un qualcosa di mistico, sacrale». L’uomo ha un desiderio ardente di Dio e trova la Sua impronta dalle vette più alte ai più profondi abissi, in un turbinoso vortice di colori e di musica che portano alla verità e all’amore, in un connubio di speranza e di fede. Ogni elemento naturale ed ogni gesto assurgono spesso a simbolo di un atteggiamento interiore. Il rapporto con la vita reale è costante. La Dho Bono immagina «tutto un mondo piccino, eppur migliore, / cui, della razza, non importa niente», un mondo abitato solo da bambini, vedendo in questi la dimora della sublimità del sentimento umano in cui, come afferma Adalbert von Chamisso, «solo l’amore è felicità». Le lotte fratricide stanno distruggendo l’uomo e il mondo! Solo la compassione, il «miracolo della natura» leopardiano, può lenire il dolore di questa terra stremata, ma «la pietà non basta, ad alleviare / così atroce soffrir di tanta gente / che fugge, e fugge, disperatamente, / invan cercando dove riparare». Allora entra in campo l’amore che, ricordando lo spirito dantesco de «l’Amor che muove il mondo», diventa elemento essenziale del cosmo. Anche la giustizia in questo decadimento universale si deteriora. Diceva Bentham che «ogni punizione in sé stessa è un male. Tenendo di mira la sua utilità, dovrebbe essere ammessa soltanto in quanto promette di evitare un male maggiore». Ma oggi la punizione ha perso il suo valore educativo, la Giustizia è diventata impenetrabile e il giudice, perdonando troppo chi sbaglia, si rende ingiusto. La Natura nella sua bellezza sembra attutire, nella Dho Bono, ogni dolore esistenziale, ma il genere umano non si rende conto che essa è lo specchio della vita di ciascuno, il suo perire è il perire dell’esistenza; allora l’uomo dimostra di essere «quell’animale assurdo» di cui parla l’abate Galiani nelle sue “Lettere”.

                              Giuseppe Manitta