L'arte come microcosmo spontaneo
di Antonietta Bonagiano
 

La scorsa estate, vagando tra i ruderi dei Fori imperiali, mi capitò di parlare con una coppia di turisti francesi molto attenti. Erano entrambi ingegneri, immessi nel mondo tecnologico più sofisticato. Chiesi loro che cosa provassero dinnanzi a quelle rovine. Mi dissero d’essere fortemente emozionati, di avvertire un sentimento di finitezza, di precarietà d’ogni cosa, quello stesso che doveva aver accompagnato i Romani, pur così volti a realizzazioni pratiche.

               E continuarono a parlarmi delle emozioni provate nel visitare i Musei Vaticani, nel trovarsi in Piazza San Pietro.

               - È stato come ascoltare la Nona di Behethoven – disse lei, – come aver preso coscienza d’essere umanità nella accezione più piena, che è poi consapevolezza d’una finitezza che anela all’eternità.

               Altri turisti percorrevano le antiche pietre, si soffermavano, apparivano ugualmente emozionati; altri ancora volgevano invece sguardi distratti, proseguivano incuranti esseri viventi ma senza la capacità di percepire la vita nella sua dimensione profonda.

Nessuna forma d’arte, non solo la figurativa, ma neppure la musica con la sua forza immediata, né l’arte della parola, divino dono concesso agli uomini, gliel’avrebbe sollecitata. Gli stessi sicuramente guardavano con la medesima ottusità la volta stellata, incapaci di coglierne la voce nel silenzio, poiché pieni di rumore, di materialità.

È infatti la natura per prima, nella sua infinita varietà e bellezza, a far sorgere emozioni in chi possiede quel che definiamo sensibilità, la quale poi è pur sempre moto della mente, pensiero. Ed anche l’arte, che è ugualmente oggetto di pensiero, di una attività dello spirito tutta particolare, risulta avere questo potere da sempre; l’arte in tutte le sue espressioni.

               Emoziona ancora il graffico lasciato dal preistorico nell’antro, messaggio pur esso di un sentimento: d’amore, d’attonito stupore. Purché non taccia quella corda, noi possiamo entrare in comunione anche con chi visse in ere remotissime. Qualsivoglia forma d’arte parla al di là del tempo e dello psazio, se abbiamo la  capacità di entrare in comunione con essa, che è espressione dell’umano sentire.

Manifestazione universale dello spirito, l’arte ignora la categoria spaziale e temporale. La poesia, in particolare, ignora il principio di contraddizione e non esclude nessuna cosa poiché è «convivence de toutes les choses», pur essendo i suoi rapporti con la realtà e la verità spesso abbastanza problematici.

L’uomo modifica il suo modo di vivere ma rimane pur sempre uguale nella capacità di sentire amore, dolore, letizia, angoscia del tempo che scorre, della morte. E chi è in grado di esprimere i propri sentimenti lascia qualcosa che sanno ascoltare, che sono in grado di vivere emozioni. Le quali poi sono soggettive, diverse anche da quelle per cui venne fuori il prodotto artistico, ma ciò ha scarsa rilevanza poiché è l’emozione in sé a contare.

Giustamente è stato da Eliot rilevato che il significato complessivo di un’opera d’arte, e in particolare della poesia, non può essere esaurito da nessuna spiegazione, perché il significato è ciò che il prodotto artistico significa ad ogni persona sensibile. Certo, tra il graffito e Leonardo c’è una linea lunghissima di evoluzione, forse è proprio questo che distingue tutte le altre arti dall’arte della parola poetica. Quelle hanno un processo, la poesia può cominciare già col massimo, così come avvenne in Grecia con Omero.

               Essa sorge come microcosmo spontaneo con leggi prettamente sue, e in questo microcosmo, i ‘mores’ risultano di una complessità e varietà che sono sconosciute ai moralisti.

Perciò crocianamente pensiamo che la poesia, come ogni espressione d’arte in genere, non abbia nulla a che vedere con la morale, che è categoria diversa, né si proponga alcun insegnamento. Il poeta è, però, ugualmente soggetto morale, portatore di moralità nella misura in cui esprime umanità, la quale lasci indubbiamente un ‘signum’ in chi ha la capacità di entrare in comunione col suo messaggio. Solo in questo senso possiamo dire che il poeta o qualsivoglia artista insegna. La poesia poi, oltre ad essere completamente autonoma, è anche imprevedibile allo stesso poeta. In maniera molto significativa Orazio ne spiegava la imprevedibilità con un esempio molto semplice. Egli diceva nell’Ars poetica: «Si comincia con l’impostare un’anfora, il tornio gira e, com’è e come non è, vien fatto un orciolo. Poco male: qualunque cosa sia, deve essere schietta e unitaria».

Ma noi potremmo aggiungere che dal moto dell’anima, dalla capacità dell’esprimere il volo di farfalla, può venire fuori, per riprendere l’esempio oraziano, una bellissima anfora, al di là di ogni previsione. Dante e Cecco Angiolieri sono, come qualcuno ha detto, sfere diverse, l’una e l’altra non possono essere più sfere di se stesse, ma l’una è somma, l’altra è dimensione di gran lunga inferiore. Dietro il prodotto di entrambi c’è il pensiero, un pesniero profondo e più semplice. Ma il semplice non va confuso, come oggi accade, col banale, né il profondo con l’insulsamente contorto. L’orciolo e l’anfora sono entrambe opere schiette, compiute in sé, unitarie. E l’unità può essere anche musicalità che esprime la realtà attraverso immagini suggestive, come accade in certa produzione dannunziana. Cecco non è quindi l’Alighieri ma è pur sempre poeta. La capacità poetica di Dante, o di qualsiasi poeta grande, è eccelsa in quanto assorbe e trasfigura la profondità di pensiero, tanto da farci dimenticare, per esempio, che Francesca è peccatrice dannata, poiché il soffio poetico è andato al di là del fatto, dell’intento morale: non rimane che il sentimento del poeta in cui tutto il resto è assorbito e immedesimato. E noi, leggendo il celeberrimo passo, entriamo in sintonia, siamo tutt’uno con l’emozione del poeta. Nessuna èra, pensiamo, riuscirà a spegnere il sentimento, la capacità d’esprimerlo attraverso l’arte, pur quando sembra che abbia diritto d’esistenza soltanto la fredda logica.