La
scorsa estate, vagando tra i ruderi dei Fori imperiali, mi capitò
di parlare con una coppia di turisti francesi molto attenti. Erano
entrambi ingegneri, immessi nel mondo tecnologico più sofisticato.
Chiesi loro che cosa provassero dinnanzi a quelle rovine. Mi dissero
d’essere fortemente emozionati, di avvertire un sentimento di
finitezza, di precarietà d’ogni cosa, quello stesso che doveva
aver accompagnato i Romani, pur così volti a realizzazioni
pratiche.
E continuarono a parlarmi delle emozioni provate nel visitare
i Musei Vaticani, nel trovarsi in Piazza San Pietro.
- È stato come ascoltare la Nona di Behethoven – disse
lei, – come aver preso coscienza d’essere umanità nella
accezione più piena, che è poi consapevolezza d’una finitezza
che anela all’eternità.
Altri turisti percorrevano le antiche pietre, si
soffermavano, apparivano ugualmente emozionati; altri ancora
volgevano invece sguardi distratti, proseguivano incuranti esseri
viventi ma senza la capacità di percepire la vita nella sua
dimensione profonda. Nessuna
forma d’arte, non solo la figurativa, ma neppure la musica con la
sua forza immediata, né l’arte della parola, divino dono concesso
agli uomini, gliel’avrebbe sollecitata. Gli stessi sicuramente
guardavano con la medesima ottusità la volta stellata, incapaci di
coglierne la voce nel silenzio, poiché pieni di rumore, di
materialità. È
infatti la natura per prima, nella sua infinita varietà e bellezza,
a far sorgere emozioni in chi possiede quel che definiamo sensibilità,
la quale poi è pur sempre moto della mente, pensiero. Ed anche
l’arte, che è ugualmente oggetto di pensiero, di una attività
dello spirito tutta particolare, risulta avere questo potere da
sempre; l’arte in tutte le sue espressioni.
Emoziona ancora il graffico lasciato dal preistorico
nell’antro, messaggio pur esso di un sentimento: d’amore,
d’attonito stupore. Purché non taccia quella corda, noi possiamo
entrare in comunione anche con chi visse in ere remotissime.
Qualsivoglia forma d’arte parla al di là del tempo e dello psazio,
se abbiamo la
capacità di entrare in comunione con essa, che è
espressione dell’umano sentire. Manifestazione
universale dello spirito, l’arte ignora la categoria spaziale e
temporale. La poesia, in particolare, ignora il principio di
contraddizione e non esclude nessuna cosa poiché è «convivence de
toutes les choses», pur essendo i suoi rapporti con la realtà e la
verità spesso abbastanza problematici. L’uomo
modifica il suo modo di vivere ma rimane pur sempre uguale nella
capacità di sentire amore, dolore, letizia, angoscia del tempo che
scorre, della morte. E chi è in grado di esprimere i propri
sentimenti lascia qualcosa che sanno ascoltare, che sono in grado di
vivere emozioni. Le quali poi sono soggettive, diverse anche da
quelle per cui venne fuori il prodotto artistico, ma ciò ha scarsa
rilevanza poiché è l’emozione in sé a contare. Giustamente
è stato da Eliot rilevato che il significato complessivo di
un’opera d’arte, e in particolare della poesia, non può essere
esaurito da nessuna spiegazione, perché il significato è ciò che
il prodotto artistico significa ad ogni persona sensibile. Certo,
tra il graffito e Leonardo c’è una linea lunghissima di
evoluzione, forse è proprio questo che distingue tutte le altre
arti dall’arte della parola poetica. Quelle hanno un processo, la
poesia può cominciare già col massimo, così come avvenne in
Grecia con Omero.
Essa sorge come microcosmo spontaneo con leggi prettamente
sue, e in questo microcosmo, i ‘mores’ risultano di una
complessità e varietà che sono sconosciute ai moralisti. Perciò
crocianamente pensiamo che la poesia, come ogni espressione d’arte
in genere, non abbia nulla a che vedere con la morale, che è
categoria diversa, né si proponga alcun insegnamento. Il poeta è,
però, ugualmente soggetto morale, portatore di moralità nella
misura in cui esprime umanità, la quale lasci indubbiamente un
‘signum’ in chi ha la capacità di entrare in comunione col suo
messaggio. Solo in questo senso possiamo dire che il poeta o
qualsivoglia artista insegna. La poesia poi, oltre ad essere
completamente autonoma, è anche imprevedibile allo stesso poeta. In
maniera molto significativa Orazio ne spiegava la imprevedibilità
con un esempio molto semplice. Egli diceva nell’Ars
poetica: «Si comincia con l’impostare un’anfora, il tornio
gira e, com’è e come non è, vien fatto un orciolo. Poco male:
qualunque cosa sia, deve essere schietta e unitaria». |