Racconto |
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Vorrei
confessare una mia debolezza. Ma forse non è proprio debolezza,
forse è un paradosso. Ho sovente pensieri e gusti apparentemente
contraddittori che pure coesistono tranquillamente. Oppure ho
bisogno di qualche miracolo. Ma non di quelli che fanno vivere i
mercanti del tempio, un miracolo non straordinario di quelli che
quando si raccontano sembrano impossibili. Un miracolo semplice, di
tutti i giorni, di quelli che ci sorprendono quando non lo si
aspetta. Il miracolo nello stesso sguardo, quello cioè che non ha
bisogno di parole… ma solo di una presenza, di un ricordo. Allora
tutto diventa leggero e discreto. Veramente si nasce per miracolo
che, senza saperlo, ci spinge come un soffio potente di vita. Poi,
occupati nell’esistenza da cose più importanti, si dimentica quel
miracolo. Si smarrisce così lo sguardo
di colui che sa vedere il miracolo. Fino al giorno
dell’incontro o del ricordo. E non bisogna aspettarlo, quel
giorno. L’istante dell’incontro unico trasforma il presente in
eternità. E l’incontro può essere d’amore. E per questo,
dicono, non c’è età … ma l’incontro può essere inatteso e
innocente. Può nascere dall’ascolto di una canzone dimenticata e
poi ritrovata, da una frase presa nel leggere un libro, dal
paesaggio di una strada di campagna o ancora da un quadro che non
finisce di stupirti.
Tutto ciò che è indivisibile e inspiegabile, quello è il
vero miracolo. Da uno sguardo può nascere un grande amore, da un
pennello su di una tela può nascere un’emozione e da un ricordo
lontano possono nascere immagini e sensazioni miracolose.
Nell’esistenza succedono veramente le cose più strane… ecco il
mio miracolo, un ricordo di Nevers. Che mi riporta alla mia gioventù,
in Francia. Sola. Dopo la guerra. Il paesaggio nuovo, calmo,
affascinante. Una casa alta, abitata da gente che non conoscevo.
Gente straniera. Da questo ricordo è nato il mio amore, quello per
l’umanità tutta.
Situazioni sconosciute alla mia giovane esperienza di vita
che, pure, mi hanno affascinato tanto che, per me, il vero miracolo
è quello di ricordarle.
Ricordo così il signore del terzo piano. Lo sentivo chiudere
la porta, scendere le scale, canterellando sottovoce. Attraverso un
foro della tendina della mia finestra che dava sulla strada (abitavo
un appartamento ammobiliato) avevo potuto osservare i suoi occhi
raggianti, sulla faccia liscia, rischiarata da un gaio sorriso. La
sua compagna (non so se fosse la moglie), quando scendeva,
canterellava anch’essa sottovoce, sorridendo.
Io non avevo, fino a quel momento, mai cantato ad alta voce.
Non sarebbe stato nulla di straordinario perché non possiedo una
bella voce. E poi non avevo ragione di canterellare. Ero lontana, il
marito sempre al lavoro, non avevo amici, a quel tempo. Invidiavo
quella signora straniera che immaginavo rallegrasse la vita della
famiglia. Cominciai a pensare. Cominciai a pensare al “canto” .
Volevo riuscire a cantare anch’io, scendendo le scale allegra,
cantare per strada, anche se sottovoce. Queste riflessioni e queste
mie nuove aspirazioni erano nate dall’osservare da quel buco,
trasformata da quei momenti. Mio marito non potrà credere, ma è da
allora che mi ha sentita cantare. Sorridevo perfino dolcemente a me
stessa, mentre, facendo le faccende, pensavo all’Italia lontana.
Iniziò così lo zufolare gioioso e sommesso per le scale di quel
palazzo. Mi guardavano con altri occhi, i signori del terzo piano,
tanto che una volta, in uno slancio di tenerezza, mi fecero un
complimento… Mi chiedevo il perché di quella grande differenza:
forse lui era maggiore di me, immaginavo sapesse guadagnarsi da
vivere in maniera facile ed elegante. “Ha una moglie che lo
asseconda, che lo comprende” dicevo tra me. “Lui”, pensavo,
“ha veramente ragione di cantare. Ma io?”
Su, al terzo piano sentivo spesso e confusamente,
l’alternarsi vivace di canti che non capivo. Iniziai a capire solo
quando, un giorno, mi capitò una cosa inaspettata. Quel giorno
salii al terzo piano. Arrivata sul pianerottolo udii le voci dei due
“colombi”. Voci stridenti. Voci concitate. Non capivo ancora le
loro parole ma compresi subito che stavano provando alcune scene di
una commedia… e ardendo dal desiderio di sentirne ancora qualcuna,
spesso imparai a salire per fermarmi ad ascoltare. Ma capii, dopo
tanto, che non era arte drammatica, ma schietta realtà… Una
volta, quando cioè incominciai a conoscere la nuova lingua, sentii
quella voce femminile che, dalla porta, gridava all’uomo che
scendeva le scale: “Canta, cretino, canta…e prendi l’aria
felice!”
Scesi in casa mia e continuai a stirare le camicie di mio
marito, cantando veramente in modo appassionato la mia: “Firenze
stanotte sei bella…” Dimenticai la solitudine, i consueti silenzi casalinghi, ringraziando il miracolo della vita che mi permetteva serenità per il lavoro suo duro, ed il mio, che faceva sperare in un ritorno in Patria con tante nuove esperienze di umanità sociale che non avrei mai immaginato se non avessi creduto al miracolo della vita. |
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