Introspezione psicologica
ne La ragazza di Mizpa,
silloge di poesie di Angelo Manitta
di Tito Cauchi
 
Sulla soglia di copertina
Ho avuto il piacere di conoscere, di persona, il prof. Angelo Manitta, la sera del 24 maggio scorso (2001) a Roma. Adesso mi trovo a riflettere su una ‘sua creatura’ tenuta fra le mani quella sera stessa: “La ragazza di Mizpa” (Emmeffe Charta, 1998). Questa è una silloge di 35 poesie, presentata da Graziella Granà, la quale avverte che si tratta di «poesia difficile… che, fin dal titolo, promette – e mantiene – un contenuto intellettuale alto… che solo un lettore attento potrà essere in profonda comunione con l’autore».
               In effetti, alla prima lettura, ho avuto l’impressione che a predominare fosse il poeta colto, difficile. Colto, per me, significava, al momento, antipatico, incomprensibile, per via di un simbolismo ad uso di pochi. Non nascondo che non mi riusciva interpretare un messaggio, provare emozioni profonde. C’era qualcosa che mi sfuggiva, né mi aiutava sapere che si presentano in questo percorso poetico «una novantina di soggetti (quasi mai reiterati) quali alberi, fiori, frutti… di immediata suggestione visiva». Anche la segnalazione di «esempi di metatesi… di onomatopee… di ossimori», non mi aiutava. Poi ancora «la lotta interiore, l’obnubilamento dello spirito, l’illogicità dei ricordi… nella salita simbolica dell’Etna» hanno reso ancora più ‘annebbiato’ il quadro di insieme.
               Non mi andava di starmene sulla soglia di copertina. Mi sono ricordato di una predica domenicale, mi pare proprio dello stesso mese di maggio, il cui tema era precisamente il sacrificio di Mizpa: nell’Antico Testamento si fa riferimento alla promessa fatta da un uomo, di offrire in sacrificio la prima persona che incontrerà al rientro, dopo la vittoria sui nemici. Quest’uomo non poteva sapere che avrebbe incontrato la propria figlia unigenita. Questo episodio ci viene segnalato, comunque, dal Manitta, sia all’inizio della raccolta, con il riferimento a Giudici 11, 37 e sia nella nota posta alla poesia dedicata a “La ragazza di Mizpa” che conferisce il titolo all’opera, spiegando che quel padre si chiamava Jefte, la località della vicenda è Mizpa, in Palestina, il riferimento si trova in Giudici 11, 29-40. Nella letteratura classica greca una circostanza simile si riscontra in una tragedia, in cui l’eroina si chiama Ifigenia, il cui nome ricorre due o tre volte nella presente storia.
 
Educazione alla lettura
Ho paura di sviare chi mi legge con queste mie ingenue e probabilmente scontate riflessioni. Il fatto è che cerco di mettermi nei panni di un comune lettore, sia pure dotato di strumenti che l’aiutino alla comprensione. Tornando alla lettura a più riprese confesso che ho trovato il libro pari non ad una ‘raccolta’, ma ad un’opera organica che è di un sentimento di struggente amore filiale, ricoperto da una patina di pudore. Cos’è cambiato in me? La verità è che siamo troppo occupati per un verso e troppo distratti per un altro verso per calarci nei sentimenti degli altri. La poesia non è una pellicola cinematografica di immediata fruibilità attraverso colonna sonora e immagini che stimolano udito e vista; non è nemmeno un trattato di matematica, fatto di logiche conseguenze; non è neppure cibo che si consuma e che poi viene defecato: la poesia nutre soltanto, ma ha bisogno di essere digerita. È la mancanza di educazione alla lettura che ci manca, specialmente di quella poetica, e sentimentale più in generale. Trentacinque poesie si leggono in un’ora, ma non si può pretendere di imprimere nella propria anima e nella propria intelligenza il vissuto di un autore, specie se questo vissuto è ricoperto di un delicato velo di pudore, profondo quanto lo è una vita: nella immedesimazione in un padre che vede spezzarsi la vita della giovanissima figlia. La morte lascia angoscia e segni indelebili, che solo una grande fede riesce a farci sorreggere. Prendo in prestito il titolo della poesia che chiude l’opera e dico che la vita interiore non si può cambiare come un ‘abito vecchio’: «Tutto è perduto se l’uomo / sfalda i suoi sentimenti». Se è vero che ogni poesia debba avere valore per se stessa, non si può negare che non si può prescindere dall’insieme della raccolta in cui è inserita: le poesie fra di loro hanno un filo comune? Per non dire ancora che non si può nemmeno prescindere dall’autore nella sua totalità di uomo. Riflettiamo poco, vorremmo tutto, subito e senza fatica, così ci fermiamo alla prima impressione che capita. Nel nostro caso Angelo Manitta ci offre certamente immagini solari o anche lunari, ma sempre vive, anche se ci si trova dinanzi ad un simulacro cimiteriale; immagini forti e sacre, come quelle del suo Etna.
Canto funerario d’amore
Le poesie di Angelo Manitta, credo che così si possa pensare, sono il canto funerario d’amore e di vita (tutt’insieme) del padre della ‘ragazza di Mizpa’, sono il canto del padre di Ifigenia e anche di un padre di oggi. E qui mi sono fermato, come su una piazzetta di sosta, nel rispetto del ‘dentro’ che sta in ognuno di noi. In una trasposizione poetica i moti dell’anima possono vestirsi come si vuole, ma l’anima di un padre non si può spogliare a piacere a cambiare d’abito. Se è vero, come avverte nella prefazione la Granà, che la novantina di soggetti tra alberi, piante e fiori non vengono ‘quasi mai reiterati’, è anche vero che alcuni termini, che oso definire del ‘sentire dentro’, si ripetono più volte come estasi, Ade e sinonimi, foglie, sabbia, schiuma, vischio; ma soprattutto, quasi sempre legati in un binomio sono vita e morte. E ancora: il sacrificio della ‘ragazza di Mizpa’ si rinnova in una ‘fanciulla rinata’; ancora il sacrificio si ripete in una ‘ragazza rinata Ifigenia’; così come per il sacrificio di Isacco il padre si trasforma in un ‘turista rinato’ che sale sull’Etna per rinnovare l’esperienza di Empedocle (filosofo della Sicilia greca, V secolo a.C.). Sono tutti accostamenti che io lettore ho provato a fare, forse a torto. Così rifletto: rinnovarsi per ripetere la storia, rinascere per morire, morire per scoprire ancora di più l’amore. Il poeta Angelo Manitta impresta la voce ad un padre il quale dialoga con se stesso e con la figlia morta, ‘biancore di un giglio’, alla quale trasferisce pure la propria voce, in una comunione padre-figlia che ha del divino, questo ‘giglio’ desideroso della ‘carezza di una mamma’. Padre e figlia sono tutt’uno: monade. Potrei fermarmi qui per il timore di sembrare prolisso più del dovuto. Ma dopo tanta fatica, avendo vissuto delle emozioni e sentendomi un lettore-padre, esprimo ancora altre emozioni. Riprendendo le immagini: queste e le frasi che l’accompagnano, generalmente, vengono spezzate dai versi. Il verso generalmente nelle parti più delicate non ha senso compiuto, il che può dare fastidio al lettore, ma una vita spezzata, è una vita compiuta? Credo che il Poeta, volutamente, ci abbia preparato a questo ritmo per vivere il sacrificio delle vittime.
 
Dialogo oltre la vita
La vita, quando si è giovani specialmente, offre «vaghe promesse; / tripudi silenziosi» (p.9), ma le ombre dei morti (lemuri, per gli antichi romani) ghermiscono il Manitta, nella trasposizione poetica di Padre, per spezzare l’incantesimo di immaginare «fanciulle inebriate / da vaghi corteggiamenti»(p.20). L’equilibrio dell’universo poggia su «l’anima / e il corpo, la materia e lo spirito» (p.12), «ma il ruscello non risale la china» (13), perciò si rimane impotenti dinanzi all’inevitabile. La giovanissima fanciulla, vittima sacrificale, «biancore di un giglio» (14) abbaglia la vista del padre, ella è ricoperta da una coltre di terra, consacrata, perciò esprime il desiderio «o la carezza di una mamma o il soffio / d’un angelo. Ma… tocca / con le dita gli occhi / della terra»(17). La ragazza morta prende voce in uno scambio di immagini riflesse da uno specchio, padre-figlia, desiderosa «per eclissarmi nel biondo velo / d’una madre: sensazioni o gesti / indistinti; nebbia di incenso / che soffoca il mio cuore»(21) nel regno dei morti. Angelo Manitta in un continuo sdoppiarsi, padre-figlia, ci offre l’immagine di un asceta medievale su una stele «per ascoltare sospiri» (18),  ma subito dopo lo vediamo pregare «all’ombra di una statua marmorea» (19) del cimitero, fin quando dura la luce della luna (si badi: non la tenebra!), in un dialogo ideale con la figlia: «Io e lei, monade»(24), una cosa sola. Manitta, nativo in provincia di Catania, ha familiarità con l’Etna e nelle vesti del Patriarca Abramo (non espressamente nominato), consapevole dell’olocausto da compiere, confessa: «M’avvio fingendo sorriso…/ La scampagnata sull’Ida s’è trasformata / in sacrificio d’Isacco»(20). La sacralità di questo sacrifico, richiama quello della ‘ragazza di Mizpa”, quello di Ifigenia, quello del ‘biancore di giglio’. E come Isacco (il quale biblicamente offre il capo al proprio padre con tranquillità, quasi per una sorta di incoraggiamenti), pronto per il sacrificio, la novella ‘ragazza, rinata Ifigenia’ per non scoraggiare il padre suo, così gli si rivolge: «Carezzami la guancia con la mano / proprio ora che sento me stessa / un soffio fugace…/ mi sento già pronta / per spiccare il volo»(32)
 
Immagine sciolta in un bacio
Angelo Manitta, il poeta-padre, si chiede struggente e sommessamente nella finzione poetica perché «lei a sei anni… / sotto una fredda lapide di basalto…/ ma tu vivi e corri / e sorridi e mi abbracci: immagine / sciolta in un bacio»(35). Momento di intensa liricità di una immagine che svanisce, che si dissolve, nella impossibilità materiale di un abbraccio fisico. Un esile filo lega padre e figlia in un dialogo virtuale: questo filo, non è certamente quello di Arianna «nelle mani dell’infido Teseo»(23), non è spiegata la ragione (così mi pare), ma credo che stia nel fatto che Teseo dopo essere andato via con Arianna l’abbandona al suo destino. La figlia, di rimando, pare voglia assicurare: «Lasciami dire / cose insensate mentre navigo / tra vergini flutti. Ah, se danzassi / su prati di perle!» (34); e ancora esorta il padre: «Non sopporto il gelido muschio /… perciò lasciami, / padre, vagare per i monti… / Solo allora, padre, …abbraccerò… / sogni adolescenti / tra raggi di luna (36). Il dialogo fattosi intenso e serrato, per l’approssimarsi del giorno (la realtà), deve avere fine: la «fanciulla / rinata che tenta di sfuggire / mobili dure» (39), inutilmente, perché «nessuno conosce / i destini degli uomini» (27). Bisogna interrompere questo dialogo, perché la notte sta per andare via. Lei appartiene al regno dei morti e ci saluta, dinanzi alle prime luci dell’alba: «Si schiarisce la debole luce / di Venere… frammenti d’aurore»(41). Il padre si dispera: no, non è possibile! È come se dicesse implorando: «La mia anima è divisa a metà: / … solo la salvezza di una figlia, / ma invano»(43). Forse è anche inutile aggrapparsi ai ricordi (che possono lasciare la bocca amara): «Il sapore di una caramella menta… / anche il sogno / è finito e la caramella s’è sciolta»(37), triste perché «l’altare aspetta l’olocausto / e la ragazza, rinata Ifigenia / lamenta l’oscuro destino»(44). Angelo Manitta non c’è, oppure c’è, ma si è mimetizzato lasciando il posto al lettore, immerso in queste emozioni, che lo prendono tutto. Il lettore-padre non sente il respiro della figlia, se non «l’alito / delicato è lo sguardo spento / d’una effigie d’alabastro. / …Tu non conosci / la lotta con se stessi, / …il senso di colpa»(45), l’impotenza dinanzi all’impossibile. Negli occhi del padre è impressa l’immagine del monumento sepolcrale. Il suo stato d’animo, non è ‘l’abito vecchio’ di cui ci si possa spogliare a piacimento. L’universale è fatto anche di questi sentimenti.