Freddezza lucida e spietata nelle opere pittoriche di Annamaria Centola 

C’è sempre un momento, nella vita, in cui nulla può essere definito se non attraverso se stesso, in ciò che è e soprattutto in ciò che evoca. Consapevolmente, del resto, Annamaria Centola sa con precisione ciò che intende fare – o rappresentare – e non esita ad esprimerlo nei suoi due sensi possibili: quello espressivo e quello creativo. È evidente che nelle sue opere pittoriche circola qualcosa che è sì denuncia, ma anche, contemporaneamente, sotteso bisogno di estrarre dal circostante quel nesso correlativo, e spesso consequenziale, esistente tra immagine ed immagine. L’artista stessa così si esprime in proposito: «Spesso ossessionati da immagini dal forte contenuto simbolico come il ‘volo’, il fungo di una esplosione termonucleare, l’autoveicolo in rotta di collisione, o da figure emblematiche come James Dean, Elizabeth Taylor, i Kennedy o la famiglia reale inglese che sono parte ormai dell’immaginario collettivo, i personaggi di Ballard elaborano perverse fantasie incentrate su di esse. Durante il mio lavoro di ricerca non ho sottovalutato l’importanza degli interpreti non protagonisti dell’opera ballardiana: nulla, nessuno di loro è casuale, tutti mirano a suggestionare il lettore parlando direttamente al suo subcosciente; sono tipi umani spesso intensamente rivolti su se stessi, distaccati, indifferenti, la cui psicologia è contagiata da un vero male del nostro secolo: la psicopatologia derivante dalle proprie ossessioni».

Annamaria Centola compie quindi una specie di ricognizione su un campo estremamente variegato ed eterogeneo, che però converge quasi invariabilmente nell’identificazione della figura umana con l’oggetto – o gli oggetti – nel quale questa si commisura. Già a priori, in pratica, l’individuo non sceglie né arriva mai a compiere, determinandosi, “le choix” che J. P. Sartre, ad esempio, richiedeva ne “L’Essere e il Nulla” ad un uomo che volesse autodeterminarsi: è pilotato, costruito, destrutturato, esattamente come può servire ad un Moloch infernale per cui tutto non è che strumento, merce, alienazione allo stato puro. Se gli istinti fossero autentici, nel senso di autenticamente personali, questi esseri, le figure di queste opere pittoriche, non avrebbero la parvenza di automi. Persino il cinismo, l’indifferenza che sembra contraddistinguerli, sono soltanto ciò che appare, ciò che è visibile. Se fossimo ancora ai tempi di Bertolt Brecht, si potrebbe dire: «Sventurata la terra che ha bisogno di eroi». Oggi, e lo vediamo attraverso le opere di Annamaria Centola, in un certo senso tutti debbono essere degli “eroi”. In una “realtà-set”, proprio come ha opportunamente specificato l’autrice, aggiungendo «uno stato tra la realtà e l’immaginario, dove la ricerca del bello  è una costante, un ideale utopico attraverso il quale esprimo l’idea di esistenza e di immortalità, poiché solo nella realtà esiste la morte». E, forse, tutto ciò soltanto perché si sa benissimo che la morte esiste e che la vita è una soltanto. È vero: ormai è un dato acquisito che anche l’amore, e precisamente il sesso, è violenza, aggressività, tensione, desiderio: basterebbe, in tal senso, leggere “Le lacrime di Eros” di Georges Bataille. «I miei quadri nascono due volte – afferma Annamaria Centola -: la prima al termine del lavoro con grafite e gomma, la seconda dosando luci ed ombre, velature e sfumature che arricchiscono la trama naturale pur lasciandone intuire la venatura».

Teresio Zaninetti