I marmi filosofali del principe di Sansevero, un volume di Elviro Langella sulla Cappella Sansevero di Napoli, in cui si evidenziano misticismo, allegoria e alchimia (Emis Edizioni, 1996) 

“I marmi filosofali del principe di Sansevero” è un’opera impegnativa di critica artistica del pittore napoletano Elviro Langella. Prende in esame la Cappella Sansevero di Napoli, voluta dal principe Raimondo di Sangro che, intorno alla metà del Settecento, ne diresse la ricostruzione, prevedendo una serie di sculture allegoriche che testimoniano la sua enigmatica personalità. La cappella, comunque, era stata costruita sul finire del ‘500 da Francesco di Sangro, duca di Torremaggiore, che ideò gli affreschi della volta e i sepolcri familiari, l’altare e i mausolei dei Santi Rosalia e Oderisio. Al principe Raimondo invece si fanno risalire le opere scultoree palesemente allegoriche, tra le quali: il Cristo velato, la Pudicizia, il Disinganno, la Sincerità, la Soavità del giogo coniugale, lo Zelo della religione, il Dominio di se stesso, l’Educazione, la Liberalità, il Decoro e l’Amor divino: figure tutte convergenti verso l’altare. Si tratta di un repertorio scultoreo che si presta benissimo ad un’analisi condotta attraverso l’iconologia alchimistica, che fornisce un codice simbolico ben strutturato. Tutto il complesso evidenzia un percorso lungo il quale i simboli cristiani si intrecciano a quelli degli iniziatici. Il Langella, infatti, nell’approfondito e meticoloso studio, evidenzia come il Principe Raimondo di Sangro fosse un seguace di dottrine rosacrociane, praticò l’alchimia e fu per un certo periodo affiliato alla massoneria. Proprio questi principi volle lasciare ai posteri attraverso quel complesso architettonico. In effetti numerosi sono i riferimenti al rituale massonico, come dimostrano anche i rapporti matematici nella disposizione architettonica, e la celebre statua del Cristo velato. Per Elviro Langella, che vede l’opera come un “universo iconico”, essa «ci spinge a trovare un linguaggio più diretto e a restituire gli strumenti culturali per afferrare il senso di una semplice verità: la ricerca nelle forme dell’arte è il tentativo compiuto da una civiltà di liberare energie del sogno della collettività, i sogni individuali non ancora vissuti assieme al mondo intero». La luce, che contrasta le ombre, sembra essere l’idea chiave del complesso architettonico come mette bene in evidenza l’autore nel capitolo “L’alchimia della luce”, mentre più avanti in un immaginario dialogo tra il Principe e lo scultore scrive: «Il sommo Michelangelo ci mostra che dal cuore del marmo bisogna partirsi. Ivi è la prima luce dell’opera. In essa soltanto lo scultore riscopre l’idea che illumina il suo proposito». Per giungere a tale conclusione il Langella utilizza vari strumenti e modelli interpretativi, tra cui “Le dimore filosofali” di Fulcanelli, le teorie sulla percezione visiva di Arnheim, le proposte dell’iconologia di Panofsky, la psicologia analitica di Jung, le ricerche sul mito di Kerènyi, come evidenzia in una postfazione Salvo Vitrano. Il saggio del Langella, di oltre 180 pagine, si presenta così più che uno studio su un’opera d’arte un testo di filosofia dell’arte.

                              Angelo Manitta